CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 giugno 2019, n. 15775
Licenziamento – Superamento del periodo di comporto – Assenza dal lavoro – Condizioni usuranti – Attribuzioni di mansioni promiscue anche inferiori e umilianti per colmare l’assenza di personale
Fatti di causa
1. Il Tribunale di Frosinone, in accoglimento dell’opposizione proposta da A. M. ed in riforma dell’ordinanza ex art. 1, comma 49, I. 92/2012 resa dal medesimo Tribunale, aveva annullato il licenziamento intimato in data 1.7.2013 all’opponente per superamento del periodo di comporto dalla s.r.l. L. Italia e, per l’effetto, aveva ordinato a quest’ultima la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e la corresponsione, in favore del predetto, di un’indennità risarcitoria pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del recesso a quella di reintegra, entro un limite massimo di dodici mensilità.
2. Il Tribunale aveva ritenuto che la patologia che aveva determinato le assenze dal lavoro del M. ed il conseguente superamento del periodo di comporto era imputabile alle condizioni usuranti protrattesi per quasi un decennio fino al licenziamento del 2013, (orari di lavoro impossibili, carenza di personale a disposizione, con attribuzioni al lavoratore di mansioni promiscue anche inferiori e umilianti per colmare l’assenza di personale, assunzione di eccessive responsabilità e continue pressione dei superiori per aumentare la produttività).
3. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 16.11.2017, in accoglimento del reclamo della società ed in riforma della decisione di primo grado, rigettava integralmente la domanda del M.
4. La Corte, per quanto rileva nella presente sede, premesso che non poteva ravvisarsi un unico soggetto giuridico ed un unico centro di imputazione che potesse far ritenere il licenziamento riconducibile alla s.r.l. L. Immobilare, osservava che non potevano rilevare ai fini considerati le deposizioni rese da due testi, che avevano riferito circostanze relative ad un precedente rapporto di lavoro, e che le molteplici condotte inadempienti ai precetti posti dagli artt. 2103 e 2087 c.c., che il M. aveva dedotto per il periodo successivo alla sua assunzione da parte dei L. Italia s.r.l. e che avrebbero concorso a determinare l’insorgenza della sindrome ansioso depressiva, non risultavano provate neppure alla stregua degli ulteriori elementi probatori acquisiti. Questi non consentivano di ritenere raggiunta la prova che, durante il periodo di formazione, il M. fosse stato adibito a mansioni “umilianti” o “meramente manuali”, atteso che lo svolgimento di mansioni di addetto alla cassa o alla sistemazione dei prodotti, oltre ad essere stato del tutto temporaneo ed alternato con l’espletamento di ulteriori attività, si era inserito nell’ambito del progetto formativo. Non poteva conseguentemente ritenersi sussistente un nesso di causalità tra le asserite condotte illecite ascrivibili alla L. Italia s.r.l. e la condizione patologica riscontrata dal C.t.u., poiché l’ausiliare aveva fondato il suo accertamento essenzialmente sull’anamnesi lavorativa fornita dal M. e non aveva preso in considerazione specifiche condotte illecite ascrivibili alla L. Italia s.r.l., essendosi limitato ad affermare che le vicende lavorative iniziate nel dicembre 2011 si erano esacerbate nel marzo – aprile 2012, quando la soppressione della posizione lavorativa del ricorrente ed il suo trasferimento presso il punto vendita di Colleferro alle dipendenze della L. Italia s.r.l. era divenuto di fatto esecutivo.
5. Di tale decisione domanda la cassazione il M., affidando l’impugnazione a cinque motivi, variamente articolati, cui ha resistito, con controricorso, la società.
6. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, sono denunziate violazione o falsa applicazione degli art. 2110, 2697, 1218, 2103 e 2087 c.c., degli artt. 2, 4, 32 e 41, co. 2, Cost.e dell’art. 100 CCNL Terziario Distribuzione e Servizi, nonché omesso esame di fatti decisivi in relazione al comportamento concorrente di L.S.I. e L. Italia nella vicenda che aveva costretto il lavoratore a dimettersi e ad accettare l’assunzione presso destinazione non gradita. Si assume che al M. era stata prospettata una svilente e pretestuosa dequalificazione, in violazione del c.c.n.I. e del principio di irriducibilità della retribuzione, e che tale soluzione aveva costituito un espediente per costringerlo alle dimissioni ed al passaggio a L. Italia, con intento discriminatorio posto in essere da entrambe le società, con comune intento. Si aggiunge che la Corte non aveva considerato che non era stata fornita la prova dell’esistenza delle ragioni giustificative del prospettato demansionamento e dell’adozione di tutte le misure atte a salvaguardare la salute del dipendente e che il relativo onere gravava sul datore di lavoro. In sostanza, si sostiene che il comportamento elusivo dell’art. 2103 c.c. integrava palese ed intenzionale violazione, da parte di entrambe le società, dell’obbligo di rango costituzionale di non arrecare danno alla sicurezza, libertà e dignità della persona e di adottare tutte le misure a tutela dell’integrità psico fisica del lavoratore. Ciò comprovava, a dire del ricorrente, il grave disagio emotivo sfociato nella malattia psicosomatica che aveva condotto al superamento del comporto, circostanza che rendeva illegittimo il licenziamento comminato per violazione dell’art. 2110, 2° co. c.c., perché le assenze erano dipese da responsabilità del datore, per mancata osservanza dei precetti prima indicati. Si assume anche che non erano stati considerati fatti decisivi, quali il comportamento concorrente di L. Italia e L. Servizi Immobiliari nella vicenda che aveva costretto il lavoratore a dimettersi e ad accettare l’assunzione presso destinazione non gradita.
2. Con il secondo motivo, si lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 416, co. 3, e 115, co. 1, c.p.c., in relazione a fatti non contestati dalla convenuta, e violazione degli artt. 2110, 2103, 2087, 1175 e 1375 c.c., degli artt. 36 e 37 d. Igs. 81/2008, dell’art. 100 c.c.n.I. e degli artt. 2, 4, 41, co. 2°, Cost. e 41 c.p.nella parte in cui la sentenza non ha ravvisato violazione di legge durante il periodo dell’adibizione alle filiali presso L. Italia, nonché violazione degli artt. 416 c. 3 e 115 c.p.c. e 2697 c.c., osservandosi che quest’ultima società non aveva contestato alcuna delle deduzioni contenute nel ricorso innanzi al Tribunale, descrittive della attività di commesso e cassiere del M., adddetto alle pulizie e inserviente con movimentazione carichi svolte presso numerose filiali L., sicché la Corte d’appello aveva errato nell’onerare della prova il ricorrente ex art. 2697 c.c., sia di decidere ai sensi dell’ultimo periodo dell’art. 115 c.p.c. Si assume che la Corte territoriale non abbia applicato i cennati criteri legali di valutazione, estrapolando dalle dichiarazioni testimoniali solo alcune circostanze relative ad un’ attività formativa, peraltro di eccessiva durata e comunque effettuata con modalità violative della dignità salute e del lavoro e con compromissione della professionalità del dipendente.
3. Con il terzo motivo, è dedotta la nullità della sentenza, ex art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione degli artt. 113, 132, co. 2, n. 4, c.p.c.e degli artt. 24 e 111, co. 6, Cost., in relazione alla trattazione e disamina delle vicende lavorative che avevano causato la malattia del lavoratore, nonché delle risultanze della c.t.u. e delle prove testimoniali, ritenendosi che la Corte abbia travisato completamente la domanda del ricorrente circa il collegamento tra le due società e che, nell’escludere l’illegittimità della vicenda inerente il passaggio a L. Italia, la Corte non abbia indicato né le fonti del convincimento, né le ragioni di diritto, omettendo di spiegare l’iter logico seguito. Si ritiene che le risultanze della C.T.U. fossero indicative di una diversa situazione, che aveva determinato l’insorgenza della malattia in un periodo coincidente con i fatti emersi dall’istruttoria.
4. Con il quarto motivo, si ascrive alla decisione impugnata violazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c., per omesso esame di fatti decisivi costituiti dal disimpegno di lavori di pulizia e mansioni promiscue nelle filiali, dal mancato rispetto dei parametri di formazione e delle risultanze della c.t.u.
5. Con il quinto motivo, ci si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2735 c.c. e 122, 113 c.p.c., degli artt. 132 e 244 c.p.c. e 2727 e 2729 c. c., nonché dell’art. 3 Cost., in relazione al fondamento della decisione circa i comportamenti datoriali nel periodo di lavoro svolto presso le filiali, ed alla valutazione delle per le stesse ragioni. Si rileva che le dichiarazioni del teste si riferivano ai dipendenti di L. Servizi Immobiliari e che la comunicazione verbale di ringraziamento del lavoratore per l’opportunità di formazione fornitagli, espressa al suddetto teste, doveva interpretarsi quale espressione emotiva della parte, non incompatibile con la sussistenza di ritmi usuranti della formazione presso le filiali, e non come confessione, comportante l’ammissione di fatti a sé sfavorevoli da parte del lavoratore.
6. Le censure formulate nel primo motivo esulano dal thema decidendum, non essendo indicato, per il principio di specificità del ricorso, in quali termini i rilievi fondati sul comportamento discriminatorio tenuto da entrambe le società in comunanza di intenti fosse stato dedotto in sede di gravame, dovendo, peraltro, il M. in quella sede proporre appello incidentale per vedere riconosciuta una differente ricostruzione della vicenda quale quella in questa sede prospettata, che si fonda su fatti che non risultano essere stati allegati e comunque non idoneamente trascritti, con ciò non potendosene escludere neanche la connotazione di novità. Il vizio di omesso esame non chiarisce in che termini il fatto dedotto avrebbe potuto incidere in termini di decisività per una soluzione diversa della controversia e tutta la prospettazione mira a censurare inammissibilmente un apprezzamento di merito svolto dalla Corte territoriale.
7. Quanto al secondo motivo, è sufficiente osservare che la non contestazione dei fatti non costituisce prova legale, bensì un mero elemento di prova, sicché il giudice di appello, ove nuovamente investito dell’accertamento dei medesimi fatti con specifico motivo di impugnazione, è chiamato a compiere una valutazione discrezionale di tutto il materiale probatorio ritualmente acquisito, senza essere vincolato alla condotta processuale tenuta dal convenuto nel primo grado del giudizio, (cfr., ex aliis, Cass. 4.4.2017 n. 8708). Peraltro, se il giudice ha ritenuto “contestato” uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all’ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all’accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte diretta a far valere l’altrui pregressa “non contestazione” diventa inammissibile (Cass. 16.3.2012 n. 4249); le affermazioni di cui al motivo contravvengono all’insegnamento di questa Corte secondo cui la non contestazione del fatto ad opera della parte che ne abbia l’onere è irreversibile, ma non impedisce al giudice di acquisire comunque la prova del fatto non contestato, sicché in tale ultima ipotesi resta superata la questione sulla pregressa non contestazione di quei fatti che, se ravvisata, avrebbe comportato l’esclusione di essi dal “thema probandum” (cfr. Cass. 13.3.2012 n. 3951). Nella sostanza, si sposta la valutazione su piani differenti da quelli che hanno costituito oggetto della controversia nei precedenti gradi di giudizio e si contesta in modo non consentito nella presente sede la valutazione del materiale probatorio effettuata dal giudice del gravame.
8. Il terzo motivo non è idoneo a dimostrare un’assenza di motivazione ed anche con lo stesso si tende a contestare la valutazione delle prove compiuta dal giudice del gravame, che ha evidenziato come il C.T.U. non avesse preso in considerazione specifiche condotte illecite ascrivibili alla L. Italia rispetto alle quali, anzi, i testi escussi avevano confermato che il piano formativo si era svolto in maniera regolare, in coerenza con il relativo progetto, prevedente l’alternarsi di attività di diverso tipo, funzionali alla destinazione definitiva del M. a capo filiale.
9. Quanto al quarto motivo, con riguardo al primo profilo dedotto, vale quanto sopra detto, laddove per il secondo si ravvisano profili di novità, che rendono inammissibile la doglianza con riguardo al denunciato mancato rispetto dei parametri formativi.
10. Infine, in relazione a quanto evidenziato nell’ultimo motivo, è sufficiente rilevare che la Corte non ha attribuito alle espressioni del ricorrente ed alle circostanze riferite al teste il valore che si assume essere stato alle stesse conferito, avendo considerato il contenuto delle dichiarazioni nel contesto del complessivo compendio probatorio acquisito, che aveva riguardo anche alle deposizioni di altri testi ed al riferimento a condotte inadempienti attinenti al precedente periodo lavorativo presso la L. S.I. Quanto al riferimento al valore di confessione stragiudiziale fatta ad un terzo ed alla sua libera apprezzabilità da parte del giudice, ai sensi dell’art. 2735 c.c., pur avendosi riguardo ai principi affermati da Cass. 1320/2017, va considerato che non è stata giuridicamente in tali termini valutata dal giudice del gravame il contenuto della testimonianza resa dal teste Casimiri, che ha anche riferito che non gli constavano “situazioni di ansia e stress lavorativi tra i capi gruppi e responsabili per livelli di produttività eccessivi” e, comunque, la testimonianza de relato e la valenza asseritamente confessoria delle dichiarazioni riferite dal M. al teste non hanno assunto rilevanza decisiva, ma mero valore di conferma di altre risultanze istruttorie.
11. Conclusivamente, il ricorso va respinto, perché tutte le censure si palesano inidonee a scalfire l’articolato percorso motivazionale che ha condotto il giudice del gravame ad escludere l’imputabilità delle assenze per malattia a condotte illecite della società datrice di lavoro.
12. Le spese del presente giudizio di legittimità sono poste a carico del ricorrente in base alla regola della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
13. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi ed euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma Ibis, del citato D.P.R.
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