CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 marzo 2019, n. 7058
Lavoro – Risoluzione per mutuo consenso – Reintegrazione nel posto di lavoro e nelle mansioni in precedenza svolte
Fatti di causa
Con sentenza in data 28 maggio 2014, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello proposto da L.S., S.A., M.G., P.M. e A.A. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva dichiarato l’inammissibilità dei precetti di immediata reintegrazione nel posto di lavoro e nelle mansioni in precedenza svolte intimati alla datrice S. s.p.a., siccome aventi ad oggetto obblighi infungibili, in accoglimento della sua opposizione ad essi. La corte capitolina escludeva la dedotta qualificazione delle intimazioni delle lavoratrici alla stregua, non già di atti di precetto, in assenza di preannuncio dell’esecuzione forzata, ma di mere costituzioni in mora: ritenendo irrilevante per integrare un atto di precetto la mancanza di avvertimento, nella sufficienza dell’intimazione e bastando per la messa in mora una semplice lettera di diffida ad adempiere.
Avverso tale sentenza, con atto notificato il 28 novembre 2014, le lavoratrici ricorrevano per cassazione con due motivi, cui resisteva la società con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, le ricorrenti deducono omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 480, 491, 615 e 91 c.p.c., per la mancanza di “alcun riferimento nella sentenza impugnata” in ordine all’omessa pronuncia del Tribunale sulla volontà delle lavoratrici intimanti di iniziare o meno un’esecuzione forzata in danno della società datrice.
2. Con il secondo, esse deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 480, 491, 615 e 91 c.p.c. ed omessa motivazione, per il loro mancato avvio nel termine di efficacia del precetto di un’esecuzione, ben consapevoli come la controparte dell’insuscettibilità di esecuzione coattiva di una sentenza di ripristino del rapporto di lavoro e intendendo procedere soltanto ad un’intimazione di adempimento (avendone diritto in qualsiasi forma), oltre che per erronea statuizione sulle spese di giudizio, in favore della società datrice, responsabile di avere “introdotto una azione “atipica” per ottenere quello che si può ottenere eventualmente solo in grado d’appello (sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza e declaratoria della risoluzione per mutuo consenso)”.
3. Il primo motivo è inammissibile.
3.1. Non si configura più il vizio di omessa motivazione, così come formulato, alla luce del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.: ma soltanto la deducibilità di un’anomalia motivazionale che si concretizzi nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, quale ipotesi che non renda percepibile l’iter logico seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, tale da non consentire un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass. 17 maggio 2018, n. 12096); ovvero di una violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma Cost., individuabile nei casi, che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza, o di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, o ancora di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” o di “motivazione perplessa od incomprensibile” (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439). Ma tali ipotesi non ricorrono nel caso di specie.
3.2. Inoltre, la questione è nuova, non essendo stata trattata dalla sentenza impugnata, né avendo le parti ricorrenti, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per tale ragione, assolto all’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbiano fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione (Cass. 12 settembre 2000, n. 12025; Cass. 2 aprile 2004, n. 6542; Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694).
3.3. In ogni caso, deve essere ribadita (così da ultimo: Cass. 29 novembre 2017, n. 28522) l’irrilevanza, nell’intimazione di un precetto relativo ad obbligazione incoercibile (quale l’ordine di ripristino di un rapporto di lavoro), dell’omissione dell’avvertimento previsto dall’art. 480, primo comma c.p.c. (Cass. 24 ottobre 1986, n. 6230; Cass. 3 ottobre 1968, n. 3094): neppure apparendo un tale atto necessario ai fini della costituzione in mora, per la sufficienza della forma scritta dell’atto, purchè contenente l’inequivoca volontà della parte di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto indicato (Cass. 12 febbraio 2010, n. 3371; Cass. 25 agosto 2015, n. 17123; Cass. 25 novembre 2015, n. 24054).
4. Anche il secondo motivo è inammissibile.
4.1. Premessane la formulazione confusa e ribadita l’inammissibilità del vizio motivo, alla luce del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., il motivo è generico.
4.2. Esso viola, infatti, il principio di specificità prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., per omessa trascrizione dell’atto di intimazione (Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 3 gennaio 2014, n. 48), quale documento oggetto di qualificazione: se, come ritenuto dalla Corte d’appello, alla stregua di atto di precetto (per irrilevanza dell’omissione dell’avvertimento previsto dall’art. 480, primo comma, ult. parte c.p.c.: Cass. 24 ottobre 1986, n. 6230; Cass. 29 novembre 2017, n. 28522), ovvero di semplice atto di costituzione in mora, come prospettato dalla parte.
4.3. Parimenti generico è il profilo di censura relativo alla statuizione sulle spese, siccome privo di una puntuale confutazione, in violazione della prescrizione dell’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c. (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202), delle congrue argomentazioni in ordine ad esse (al secondo e terzo capoverso di pg. 3 della sentenza).
4.4. In ogni caso, non è sindacabile in sede di legittimità la regolazione delle spese processuali, che è riservata alla competenza esclusiva del giudice di merito: se non nei limiti di accertamento della violazione del principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.
In particolare, eccede tali limiti, in quanto nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite: e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 13 maggio 2016, n. 9904; Cass. 31 marzo 2017, n. 8421; Cass. 17 ottobre 2017, n. 24502), tanto meno nella più circoscritta possibilità di devoluzione prevista dal novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. su. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).
5. Dalle superiori argomentazioni discende coerente l’inammissibilità del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna le lavoratrici alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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