CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 settembre 2021, n. 24699

Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro – Verbale – Criteri interpretativi – Formulazione letterale della dichiarazione negoziale

Fatto

1. Con sentenza 28 giugno 2017, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello di S.T. avverso la sentenza di primo grado, di inammissibilità della sua domanda di condanna di A. s.p.a. al pagamento delle differenze retributive relative all’indennità di funzione, tredicesima mensilità, indennità di buoni pasto, di reperibilità e per rinnovo contrattuale del luglio 2007, riguardanti periodo successivo al marzo 2003 (dies ad quem della sentenza di appello n. 8506/2010, impugnata per cassazione, di riconoscimento fino a tale data e con decorrenza dal 7 marzo 1996, di analoghi emolumenti retributivi per effetto dell’attribuzione dell’indennità di funzione per lo svolgimento di mansioni dirigenziali) e fino al collocamento in quiescenza del 31 agosto 2007, sul presupposto dell’intervenuta conciliazione tra le parti del 12 luglio 2007.

2. Premessa la formazione di giudicato, per rigetto del ricorso per cassazione principale del lavoratore e inammissibilità dell’incidentale di A., sulla sentenza di appello n. 8506/2010, la Corte territoriale riteneva, in esito a critico e argomentato esame delle clausole del verbale, l’inclusione delle pretese, economiche oggetto di controversia nell’accordo raggiunto tra le parti in ordine alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro alla data del 1° settembre / 2007, con incentivo all’esodo, rinuncia al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva e, per quanto d’interesse ai fini del presente giudizio, la corresponsione (al punto 5) al lavoratore della somma di € 20.000,00 netti “a titolo di transazione generale e novativa”, a fronte delle rinunce espressamente manifestate (al punto 4) “a qualsivoglia ulteriore domanda o azione comunque connessi … all’esecuzione e cessazione del rapporto, nonché ad ogni diritto derivante dalla legge o dalla contrattazione collettiva … In particolare, essa escludeva che le pretese in questione rientrassero nella clausola di espressa salvezza (al punto 7) del giudizio d’appello R.G. 2710/2005, non ricompreso nella conciliazione, pendente tra le parti, “avente ad oggetto l’accertamento del diritto del sig. T. alla corresponsione della cd. “indennità di funzione” e del “superminimo individuale” parametrati alla posizione dirigenziale rivestita, con conseguente ricostruzione della carriera ed attribuzione almeno del minimo contrattualmente previsto …

3. Con atto notificato il 27 dicembre 2017, il lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui resisteva la società con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria finale.

4. Assegnata per la trattazione all’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380bis c.p.c., nella ravvisata insussistenza dei presupposti (per la rilevanza nomofilattica in particolare dello scrutinio relativo alla “valenza dell’accordo transattivo intercorso tra le parti e all’efficacia temporale della clausola di salvaguardia in esso contenuta”), la causa era rinviata a nuovo ruolo e fissata all’odierna udienza.

5. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da I. conv. 176/20, nel senso del rigetto e il ricorrente depositava (nuova) memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1369, 1366, 1365, 1367 c.c., nonché di norme e principi in tema di qualificazione del contratto, per la non corretta lettura del verbale di conciliazione 12 luglio 2007, in riferimento al canoni ermeneutici di letteralità, secondo la comune intenzione delle parti in combinata e coordinata lettura globale con quelli concorrenti di interpretazione delle clausole le une per mezzo delle altre, esemplificativo, di buona fede e funzionale nella prospettiva conservativa del senso negoziale loro attribuito: e segnatamente, della clausola di salvezza al punto 7) del verbale, qualificato dalle parti di transazione generale e novativa, di esplicita esclusione, non già della sola causa R.G. 2710/2005 pendente tra le stesse, ma anche della “conseguente ricostruzione della carriera ed attribuzione” di differenze retributive, costituente proprio l’oggetto della odierna controversia.

Con lo stesso mezzo, egli deduce inoltre la nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. per motivazione apparente e contraddittoria, per la mancanza di spiegazione logica e coerente della locuzione suindicata della clausola di salvezza, in relazione alla “conseguente” ricostruzione della carriera e attribuzione di differenze retributive, idonea a indicare un periodo distinto da e successivo a quello dedotto nella causa allora pendente in appello ed oggetto di quella odierna appunto.

2. Esso è fondato, in particolare sotto l’assorbente profilo dell’error in iudicando denunciato in riferimento alla violazione dei canoni ermeneutici.

3. Giova, innanzi tutto, premettere la corretta deduzione dei vizi interpretativi, sindacabili in sede di legittimità non già nel loro risultato in sé, che appartiene piuttosto all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma nella verifica di rispetto dei canoni legali di ermeneutica e di coerenza e logicità della motivazione addotta, con esclusione di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito, che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891).

Inoltre, il ricorrente ha pure specificato le ragioni e il modo in cui si sarebbe realizzata l’asserita violazione (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 21 giugno 2017, n. 15350), oltre che le modalità e le considerazioni con le quali il giudice del merito se ne sarebbe discostato (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536; Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 14 luglio 2016, n. 14355; Cass. 4 dicembre 2018, n. 31347).

3.1. Tanto chiarito in funzione della sindacabilità del motivo da questa Corte, occorre inquadrare l’esame della clausola di salvezza al punto 7) del verbale di conciliazione nella più ampia e critica lettura del contesto negoziale, avente ad oggetto la complessiva sistemazione generale del rapporto di lavoro tra le parti, consensualmente risolto con incentivo all’esodo (punto 2 della conciliazione) e rinuncia “a qualsivoglia ulteriore domanda o azione comunque connessi, vicari o anche solo occasionati all’esecuzione e cessazione del rapporto, nonché ad ogni diritto derivante dalla legge o dalla contrattazione collettiva … ” (punto 4 della conciliazione).

3.2. Nell’applicazione dei criteri interpretativi, bisogna allora avviare l’esame dall’elemento letterale, il quale assume funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, dovendo tuttavia essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, in virtù del coordinamento tra loro delle singole clausole, così come previsto dall’art. 1363 c.c.: giacché, per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone; non già una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, posto che il giudice deve collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. 8 giugno 2018, n. 14882). E sempre avendo in primo luogo riguardo allo scopo pratico che le parti abbiano inteso realizzare con la stipulazione del contratto (Cass. 30 agosto 2019, n. 21840).

3.3. La comune intenzione dei contraenti deve inoltre essere ricercata indagando, oltre che il senso letterale delle parole da verificare alla luce, come detto, del contesto negoziale integrale ai sensi dell’art. 1363 c.c., anche i criteri di interpretazione soggettiva stabiliti dagli artt. 1369 e 1366 c.c., rispettivamente volti a consentire l’accertamento del significato dell’accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta (in conformità agli interessi che le parti abbiano inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale: Cass. 22 novembre 2016, n. 23701) e ad escludere, mediante un comportamento improntato a lealtà e salvaguardia dell’altrui interesse, interpretazioni cavillose che depongano per un significato in contrasto con gli interessi che le parti abbiano inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale (Cass. 28 marzo 2017, n. 7927): in una circolarità del percorso ermeneutico, da un punto di vista logico, che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (Cass. 10 maggio 2016, n. 9380).

3.4. Nel caso di specie, una lettura del verbale di conciliazione, rispettosa degli enunciati canoni ermeneutici, esige un’esatta delimitazione dell’ambito della rinuncia “a qualsivoglia ulteriore domanda o azione comunque connessi, vicari o anche solo occasionati all’esecuzione e cessazione del rapporto, nonché ad ogni diritto derivante dalla legge o dalla contrattazione collettiva … ” (punto 4 della conciliazione), nel suo effettivo contenuto transattivo (cui si applicano le regole di interpretazione del contratto: Cass. 10 settembre 2014, n. 19118): e pertanto, non in riferimento a tutte le controversie potenziali o attuali, ma soltanto a quelle oggetto della statuizione convenzionale delle parti secondo una corretta interpretazione, a norma dell’art. 1364 c.c., delle espressioni usate dalle stesse, per quanto generali (Cass. 28 novembre 1981, n. 6351; Cass. 18 maggio 2018, n. 12367). E ciò tanto più, in presenza di un’esplicita clausola di salvezza (punto 7 della conciliazione) dalla suddetta rinuncia della causa R.G. 2710/2005 (all’epoca pendente tra le parti), avente ad oggetto l’accertamento del diritto del sig. T. alla corresponsione della cd. “indennità di funzione” e del “superminimo individuale” parametrati alla posizione dirigenziale rivestita ed alla “conseguente ricostruzione della carriera ed attribuzione almeno del minimo \ contrattualmente previsto dal CCNL Dirigenti dell’epoca”: per giunta, da / inquadrare nell’alveo di un rapporto di lavoro consensualmente risolto e quindi nell’arco temporale della sua vigenza fino alla risoluzione, avuto anche riguardo all’applicazione del principio di conservazione degli effetti utili del contratto, previsto dall’art. 1367 c.c. (Cass. 23 luglio 2018, n. 19493).

3.5. Occorre poi focalizzare l’interpretazione della clausola concentrando il cono ermeneutico del canone letterale sulla locuzione “conseguente” (alla causa R.G. 2710/2005 pendente tra le parti) “ricostruzione della carriera” (“ed attribuzione almeno del minimo contrattualmente previsto dal CCNL Dirigenti dell’epoca”‘. all’epoca ancora sub iudice, per la pendenza del giudizio in appello): anche secondo una coerente combinazione dei criteri richiamati dagli artt. 1362, 1363, 1369 e 1366 c.c., per una più completa comprensione della volontà delle parti nella suindicata prospettiva ampia di regolamentazione negoziale del rapporto fino al suo convenuto esaurimento, a tutela della composizione dei reciproci interessi in un’ottica di buona fede.

3.6. In tale ottica esegetica, è pure opportuno tenere presente la scansione dei tempi: in particolare di come quelli di promozione dell’odierno giudizio siano stati dettati dall’evoluzione della vicenda processuale dei diritti rivendicati nella causa R.G. 2710/2005, espressamente eccettuata dalla rinuncia, con il loro provvisorio accertamento soltanto con la sentenza della Corte d’appello n. 8506/2010 e definitivo con la conseguente formazione del giudicato (entrambi i momenti successivi alla conciliazione tra le parti).

3.7. Reputa allora questa Corte che gli emolumenti qui pretesi dal lavoratore si iscrivano nella “conseguente ricostruzione della carriera che, diversamente, essa non lo sarebbe interamente, ma soltanto fino al marzo 2003 (in base al giudicato della Corte d’appello n. 8506/2010), contrariamente alla negoziata prospettiva conciliativa tra le parti dell’intero rapporto, in quanto fino al collocamento in quiescenza del 31 agosto 2007.

Sicché, essi devono essere riconosciuti a S.T., nei rigorosi limiti accertati dal suddetto giudicato (come indicato al punto 4 di pg. 3 della sentenza), in quanto espressamente esclusi dalla conciliazione del 12 luglio 2007, anche in relazione al periodo successivo al marzo 2003 (all’esito della causa R.G. 2710/2005) e fino alla predetta data di pensionamento. E quindi, nei limiti dell’indennità di funzione per lo svolgimento di mansioni dirigenziali, attribuitagli con detto giudicato e degli istituti direttamente conseguenti: nell’evidente irrilevanza della loro derivazione immediata secondo un criterio di automatismo, piuttosto che previo un accertamento in fatto (secondo l’inconferente distinzione al terzultimo capoverso di pg. 6 della sentenza, sub punto 9d), posto che ciò che conta è la loro inclusione nel perimetro del riconoscimento giudiziale.

4. Le superiori argomentazioni assorbono ogni ulteriore questione e i restanti motivi, relativi a: violazione o falsa applicazione dell’art. 2697, secondo comma c.c., in ordine alle regole di ripartizione dell’onere della prova in riferimento all’eccezione di transazione, da disattendere per la sostanziale incertezza della Corte territoriale sull’estensione della clausola di salvaguardia del verbale di conciliazione tra le parti (secondo); violazione dell’art. 2909 c.c., per erronea interpretazione del giudicato (esterno) n. 8506/2010 della Corte d’appello di Roma, di condanna di A. s.p.a. al pagamento, in favore del lavoratore, delle differenze per indennità di funzione riconosciuta dal 7 marzo 1996 a tutto marzo 2003, sul presupposto di accertamento del suo incarico di prima fascia dal 7 marzo 1996 al 24 marzo 1997, comportante il suo diritto alla stessa indennità di funzione anche per il periodo successivo lavorato fino all’agosto 2007; violazione o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., di garanzia di non riducibilità della retribuzione in corso di rapporto di lavoro e dell’art. 5 C.C.L. Aziendale Dirigenti A. di immodificabilità in pejus dell’indennità di funzione (cd. clausola di salvaguardia) e nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. per motivazione apparente e contraddittoria (terzo); violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1418, 2103 c.c., 185, 420 c.p.c., nonché norme e principi in tema di indisponibilità in via transattiva o conciliativa di diritti del lavoratore non ancora sorti e di relativa nullità della transazione o conciliazione giudiziale (quarto).

5. Pertanto il primo motivo di ricorso deve essere accolto, con assorbimento degli altri, la cassazione della sentenza in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto: “Nell’interpretazione di una clausola negoziale (nel caso di specie, espressamente eccettuativa dell’applicazione di una generale rinuncia, contenuta in un verbale di conciliazione transattiva di un rapporto di lavoro, ad ogni domanda ad essa connessa o anche solo occasionata all’esecuzione e cessazione del rapporto e ad ogni diritto da esso derivante), la comune intenzione dei contraenti deve essere ricercata indagando, oltre che il senso letterale delle parole da verificare alla luce del contesto negoziale integrale ai sensi dell’art. 1363 c.c., anche i criteri di interpretazione soggettiva stabiliti dagli artt. 1369 e 1366 c.c., rispettivamente volti a consentire l’accertamento del significato dell’accordo in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta (in conformità agli interessi che le parti abbiano inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale) e ad escludere, mediante un comportamento improntato a lealtà e salvaguardia dell’altrui interesse, interpretazioni in contrasto con gli interessi che le parti abbiano con essa inteso tutelare: in una circolarità del percorso ermeneutico, da un punto di vista logico, che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la loro condotta“.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.