CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 novembre 2020, n. 25896
Tributi – IVA – Nota di variazione per mancato pagamento della fattura – Non necessita la certezza dell’irrecuperabilità derivante dall’infruttuosità di procedura concorsuale
Fatti di causa
Il giudizio nasce dall’impugnazione, da parte della società cooperativa a r.l. O., della cartella di pagamento concernente IVA dichiarata per il 1996 e non versata. A fondamento dell’impugnazione la società aveva esposto che l’iva non versata concerneva fatture emesse e regolarmente registrate nei confronti della s.r.l. I., che non le aveva totalmente pagate, perché in stato di decozione, che l’aveva poi condotta alla dichiarazione di fallimento.
La Commissione tributaria provinciale di Roma respinse il ricorso, mentre quella regionale accolse l’appello della contribuente, facendo leva sulla tardività della notificazione della cartella, eccepita con motivi aggiunti in primo grado.
La sentenza relativa è stata cassata da questa Corte (si veda Cass. 26 gennaio 2010, n. 1829) e, in esito alla riassunzione del giudizio, la contribuente ha fatto presente che il 20 aprile 2005 il Tribunale di Napoli ha disposto la chiusura del fallimento della s.r.l. I. per insufficienza di attivo, sicché il proprio credito, ammesso in chirografo, è rimasto insoddisfatto.
La Commissione tributaria regionale del Lazio, tuttavia, ha respinto l’appello poiché, ha sottolineato, la O., a fronte del decreto di chiusura del fallimento, che comportava la «certezza della quantificazione del proprio credito», avrebbe potuto -recte, dovuto- attivare la procedura di variazione in diminuzione.
Contro questa sentenza la contribuente propone ricorso per ottenerne la cassazione, che affida a due motivi, cui l’Agenzia risponde con controricorso.
Motivi della decisione
1. – Con i due motivi di ricorso, che vanno esaminati congiuntamente, perché connessi, la contribuente lamenta, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l’omessa motivazione circa i fatti controversi e decisivi del decreto di chiusura del fallimento della s.r.l. I. e dell’annotazione da parte del curatore della variazione nel registro delle fatture dell’imponibile non pagato, col conseguente addebito dell’iva al fallimento (primo motivo), nonché, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 26 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, là dove il giudice d’appello ha escluso che si possa impugnare la cartella concernente iva non più dovuta in ragione del sopravvenuto fallimento, sebbene l’emittente della fattura non abbia fatto ricorso alla procedura di variazione prevista dall’art. 26 del d.P.R. n. 633/72 (secondo motivo).
La censura, di là dalla ricostruzione contenuta in sentenza, calibrata sulla condotta che la O. avrebbe dovuto tenere, fa leva sulla condotta che si assume abbia tenuto il curatore del fallimento di I. e sotto questo versante si rivela fondata.
2. – Nella prospettazione della sentenza impugnata, quando la O. ha ricevuto la cartella di pagamento non vi sarebbe stato il presupposto per la variazione dell’imponibile; ma neanche quando questo si sarebbe verificato la società vi ha provveduto. Di qui la legittimità della pretesa del fisco.
Al fondo, la pretesa poggia sull’obbligo dei soggetti passivi di assolvere l’iva esposta in una fattura indipendentemente da qualsiasi obbligo di versarla in ragione di un’operazione soggetta a iva (tra varie, Corte giust. 18 giugno 2009, causa C-566/07, Stadeco, punto 26; 31 gennaio 2013, causa C-642/11, Stroy trans, punto 29; 11 aprile 2013, causa C-138/12, Rusedespred OOD, punto 23).
2.1. – Il principio risponde all’esigenza di eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, che può derivare dall’esercizio del diritto di detrazione; rischio che, secondo la Corte di giustizia, sussiste «fintantoché il destinatario di una fattura che espone un’iva non dovuta possa utilizzarla al fine di siffatto esercizio» (Corte giust. 19 settembre 2000, causa C-454/98, Schmink & Cofreth, punto 57).
3. – La base imponibile dell’iva, peraltro, è ragguagliata al corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo e l’amministrazione tributaria non può riscuotere a tale titolo un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo.
Di qui il paragrafo 1 dell’art. 90 della direttiva n. 2006/112 (corrispondente all’art. 11, parte C, della sesta direttiva), che obbliga gli Stati membri a ridurre la base imponibile e, quindi, l’importo dell’iva dovuta dal soggetto passivo, ogni volta che, successivamente alla conclusione di un’operazione, una parte o la totalità del corrispettivo non sia da lui percepita.
3.1. – Il successivo paragrafo 2 consente agli Stati membri di derogare a tale norma in caso di mancato pagamento, totale o parziale: ciò perché in tale ipotesi l’acquirente o committente resta debitore del prezzo convenuto e il venditore o prestatore dispone sempre del proprio credito, che può far valere in sede giurisdizionale.
La facoltà di deroga si riferisce ai casi in cui l’omesso pagamento, totale, o parziale, sia difficile da verificare oppure abbia carattere puramente temporaneo (tra le ultime, Corte giust. 11 giugno 2020, causa C-146/19, SCT, punto 23; Corte giust. 6 dicembre 2018, causa C-672/17, Tratave, punto 38; in termini nella giurisprudenza interna, tra le più recenti, Cass. 10 maggio 2019, n. 12468). In generale, quindi, della conseguente incertezza si tiene conto privando il soggetto passivo del suo diritto alla riduzione della base imponibile finché il credito non presenti un carattere definitivamente irrecuperabile.
4. – Nel diritto interno, l’art. 26 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nel testo applicabile fino al 1 marzo 2007, stabilisce che:
«Se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli articoli 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili, (…) il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’art. 25. Il cessionario o committente, che abbia già registrato l’operazione ai sensi di quest’ultimo articolo, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’art. 23 o dell’art. 24, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa»-, successivamente (e fino al 12 dicembre 2014), riferisce le regole all’ipotesi in cui «…un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli articoli 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, …per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose…».
Sicché, sostiene il giudice d’appello, e ribadisce l’Agenzia, la O. avrebbe dovuto far ricorso alla procedura di variazione, allegando l’irrecuperabilità del credito che vantava nei confronti della I.; in tal modo, avrebbe maturato il diritto di detrazione dell’imposta corrispondente alla variazione.
4.1. – E per procedervi, si specifica, la società avrebbe dovuto far leva sul decreto di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo, idoneo a fornire la certezza dell’irrecuperabilità del credito vantato; decreto che, peraltro, è intervenuto soltanto nel 2005.
4.2. – Anche questa Corte, d’altronde, richiede a tal fine la prova dell’infruttuosa ripartizione finale dell’attivo o, appunto, della definitività del provvedimento di chiusura del fallimento (Cass. 27 gennaio 2014, n. 1541; sulla medesima falsariga, con riguardo in generale sia alle procedure esecutive individuali, sia a quelle concorsuali, Cass. 16 dicembre 2011, n. 27136).
5. – In realtà, quanto alle procedure concorsuali, alla luce della giurisprudenza unionale l’applicabilità dell’art. 26 del d.P.R. n. 633/72 non necessita della certezza dell’irrecuperabilità derivante dall’infruttuosità della procedura.
La Corte di giustizia (con sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, Di Maura), con riferimento giustappunto alla normativa italiana, ha difatti stabilito che l’art. 11, parte C, par. 1, comma 2, della sesta direttiva deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’iva all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni. Si costringerebbero altrimenti gli imprenditori italiani a sopportare, nei casi di mancato pagamento di una fattura, uno svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri, idoneo a compromettere l’obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla sesta direttiva.
5.1. – Per accordare il diritto alla riduzione della base imponibile, allora, è sufficiente che il soggetto passivo evidenzi l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque (punto 27 della sentenza Di Maura). E ciò proprio perché la certezza della definitiva irrecuperabilità del credito può essere acquisita, in pratica, solo dopo una decina di anni, a causa della durata, in Italia, delle procedure fallimentari.
Spetta quindi alle autorità nazionali stabilire, nel rispetto del principio di proporzionalità e sotto il controllo del giudice, quali siano le prove di una probabile durata prolungata del mancato pagamento che il soggetto passivo deve fornire in funzione delle specificità della vicenda.
6. – Nel caso in esame, peraltro, il fatto che la O. non abbia applicato l’art. 26 del d.P.R. n. 633/72 né prima né dopo il decreto di chiusura del fallimento della I. non giova alle ragioni del fisco.
E ciò proprio in base alla ratio del meccanismo di rettifica, che serve pur sempre a garantire la precisione delle detrazioni e, quindi, la neutralità dell’imposta.
6.1. – A questa finalità difatti risponde non soltanto il diritto del fornitore di ridurre la base imponibile, ma anche l’obbligo di rettifica della detrazione operata inizialmente quando questa sia inferiore o superiore a quella a cui il soggetto passivo cessionario abbia diritto (art. 184 della direttiva iva). La rettifica va quindi compiuta (art. 185, paragrafo 1, della direttiva iva) quando, successivamente alla dichiarazione dell’iva, intervengano mutamenti degli elementi presi in considerazione per determinare l’importo della detrazione (Corte giust. 18 ottobre 2012, causa C- 234/11, TET5 Haskovo, punto 32).
Coerentemente, il diritto interno, si è visto, a fronte dei presupposti – sostanziali – di variazione contemplati dall’art. 26 del d. P.R. n. 633/72, contempla non soltanto il diritto del cedente/prestatore di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, ma anche l’obbligo del cessionario/committente di registrare la variazione.
6.2. – Insomma, la detrazione dell’iva inizialmente operata si deve rettificare quando, grazie alla modifica, l’importo della detrazione corrisponda a quello cui il soggetto passivo avrebbe avuto diritto se il mutamento degli elementi utili alla determinazione dell’ammontare della detrazione fosse stato considerato sin dall’inizio (Corte giust. 28 maggio 2020, causa C- 684/18, World Comm Trading Gfz SRL, punto 36).
6.3.- Né rileva che anche in relazione alla posizione del cessionario/committente, «In deroga al paragrafo 1, la rettifica non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate» (art. 185, paragrafo 2): si tratta di disposizione speculare a quella del paragrafo 2 dell’art. 90, e va interpretata allo stesso modo (Corte giust. 22 febbraio 2018, causa C-396/16, T-2, punto 41).
7. – Ciò posto, la condotta del cessionario/committente è destinata a riverberare i propri effetti sulla posizione del cedente/prestatore: e ciò perché si tratta di due facce di una stessa operazione economica, che devono essere valutate in modo coerente (Corte giust. in causa C-396/16, cit., punto 35).
7.1. – Indubbiamente l’obbligo di rettifica del cessionario/committente non dipende dalla rettifica dell’iva dovuta dal fornitore, perché l’emittente della fattura è debitore dell’iva ivi indicata (Corte giust. 13 marzo 2014, causa C-107/13, Firin OOD; ne fanno applicazione, tra varie, Cass. 13 maggio 2016, n. 9845 e Cass. 7 dicembre 2017, n. 29380).
Ma l’obbligo di assolvere l’iva imposto a chi la indichi in una fattura non deve eccedere quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo dell’eliminazione del rischio di perdita di gettito fiscale e, in particolare, non deve arrecare un pregiudizio eccessivo al principio di neutralità dell’iva, perfino quando si tratti dell’emittente di una fattura relativa a un’operazione inesistente (Corte giust. 8 maggio 2019, causa C-712/17, Srl EN.SA, punti 33-35).
7.2. – Sicché se sia stato completamente eliminato, in tempo utile, il rischio di perdita di gettito fiscale, si propone comunque la necessità di garantire il principio di neutralità (Corte giust. in causa C-107/13, cit., punto 55; coerenti, nella giurisprudenza interna, tra le ultime, Cass. 18 aprile 2019, n. 10974; 12 marzo 2020, n. 7080; 30 settembre 2020, n. 20843).
E ciò vale anche se il fornitore non ha proceduto alla rettifica.
7.3. – Non si può, difatti, ritenere dovuta l’iva esposta in fattura, che sia stata oggetto della procedura di variazione da parte del curatore del fallimento del cessionario/committente a causa della mancanza dei fondi necessari al pagamento del corrispettivo dovuto al cedente/prestatore.
L’omesso pagamento è difatti in tal caso certo e definitivo, perché emerso in esito a una procedura concorsuale infruttuosa; e la condotta del curatore che, mediante la procedura di variazione, evidenzi un debito pari alla detrazione in precedenza operata, che sarebbe così neutralizzata, è idonea a escludere il rischio di perdita di gettito fiscale, poiché esplicita che egli non ha diritto alla detrazione dell’iva (in termini, Cass. 11 dicembre 2013, n. 27698).
8. – Né occorre che il cedente/prestatore che non abbia provveduto alla variazione dell’imponibile proceda comunque ad assolvere l’iva relativa alle operazioni compiute col cessionario/committente fallito, per poi richiederla a rimborso, perché non dovuta, in ragione dell’infruttuosità della procedura concorsuale.
Si tratterebbe, difatti, di una riproduzione del meccanismo del solve et repete, del quale le sezioni unite di questa Corte (con sentenza 8 settembre 2016, n. 17757, punto 5.2) hanno già sottolineato la distonia con diritto unionale.
9. – È decisivo, quindi, il fatto, rappresentato in ricorso, dell’annotazione della variazione da parte del curatore.
Ininfluente è, invece, che l’annotazione sia avvenuta in corso di giudizio, poiché quel che importa è che l’annotazione sia avvenuta in tempo utile ad eliminare la perdita di gettito.
9.1. – Né rileva il richiamo alla “competenza temporale” della detrazione contenuto in controricorso, poiché in questo giudizio, proprio perché non è stato attivato il meccanismo della variazione dell’imponibile da parte del fornitore, non si discute del diritto di costui di detrarre l’iva corrispondente all’imposta oggetto della variazione, né tampoco della detrazione dell’iva assolta dal cessionario.
10. – Il ricorso va per conseguenza accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:
“In tema di iva, è illegittima la pretesa del fisco di ottenere l’imposta dal cedente o dal prestatore che non abbia fatto ricorso al meccanismo previsto dall’art. 26 del d.P.R. n. 633/72 per mancato pagamento a causa di procedure concorsuali rimaste infruttuose, qualora questo meccanismo sia stato utilizzato dal cessionario o committente, e sia stato eliminato in tempo utile il rischio di perdita di gettito per l’erario“.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.
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