CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 aprile 2018, n. 9403
Rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato – Illegittima apposizione del termine – Regime risarcitorio – Applicazione dell’art. 32, co. 5, L. n. 183/2010
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 689/2011, depositata il 18 febbraio 2011, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, riteneva illegittimo il termine apposto al contratto stipulato da C.R. e dalla società P.I. S.p.A., relativamente al periodo dall’1/2/2002 al 30/4/2002, per “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonché all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio”, conseguentemente dichiarando sussistente fra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con decorrenza 1/2/2002 e condannando la società al pagamento, a favore dell’appellante, delle retribuzioni mensili alla medesima spettanti a decorrere dalla data della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione e contestuale offerta della prestazione di lavoro.
2. La Corte osservava, per quanto di interesse, come la società datrice di lavoro, sulla quale incombeva il relativo onere, non avesse provato il rispetto della percentuale, stabilita nel CCNL 11 gennaio 2001, tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato, avendo prodotto un prospetto, e su di esso avendo articolato prova testimoniale, in cui risultava indicata unicamente la media delle assunzioni a tempo determinato effettuate nell’anno 2002 e cioè un parametro diverso da quello fissato dalla norma collettiva, la quale aveva previsto che la percentuale non potesse essere superata in alcun momento.
3. Osservava, poi, la Corte come non potesse trovare applicazione in grado di appello la disciplina sopravvenuta di cui all’art. 32 L. n. 183/2010, con conseguente richiamo, in ordine agli effetti di carattere risarcitorio, delle regole generali.
4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza P.I. con cinque motivi, cui la lavoratrice ha resistito con controricorso, assistito da memoria.
5. Il ricorso, già fissato per l’adunanza camerale del 24 maggio 2017, è stato rinviato a nuovo ruolo per consentirne la trattazione in pubblica udienza.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, deducendo la nullità della sentenza in relazione agli artt. 112 e 346 cod. proc. civ., la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia esaminato la questione relativa al rispetto della clausola di contingentamento senza che la stessa avesse formato oggetto di impugnazione.
2. Con il secondo motivo, deducendo vizio di motivazione nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che la società non avesse offerto la prova del rispetto della clausola di contingentamento, nonostante lo specifico capitolo di prova per testi articolato in proposito.
3. Con il terzo motivo, P.I. S.p.A. censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 3 I. n. 230/1962, avendo erroneamente attribuito l’onere probatorio circa il rispetto della clausola di contingentamento alla società anziché al lavoratore.
4. Con il quarto motivo, Poste deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 25 CCNL 2001 e 23 I. n. 56/1987, per avere la sentenza erroneamente ritenuto che la questione del rispetto della clausola di contingentamento venisse ad incidere in via diretta sul piano della relazione negoziale fra le parti del rapporto anziché su quello dei rapporti tra le parti stipulanti il relativo accordo collettivo.
5. Con il quinto, infine, Poste deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 I. n. 183/2010, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto inapplicabile ai giudizi di appello lo ius superveniens in tema di conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine.
6. Il primo motivo è infondato, posto che, diversamente da quanto dedotto dalla società, l’appellante ha espressamente e specificamente riproposto avanti al giudice di appello, con il secondo motivo di impugnazione, la questione dell’osservanza, da parte del datore di lavoro, della clausola di contingentamento, secondo quanto risulta dal testo del ricorso di secondo grado (pp. 14-19) trascritto dalla stessa P.I. S.p.A. nel corpo del proprio ricorso per cassazione.
7. Il secondo motivo è infondato.
8. Al riguardo si deve premettere che la società ricorrente non censura in alcun modo quella parte di motivazione della sentenza impugnata in cui la Corte di appello di Roma ha ritenuto che il “disposto contrattuale collettivo è assolutamente chiaro nel prevedere che la percentuale prevista di assunti a termine rispetto ai dipendenti in forza con contratti a tempo indeterminato non debba essere superata mai – e cioè in nessun momento – e non già che tale percentuale non debba essere superata come media in un arco di tempo annuale, o di altra durata” (cfr. sentenza, p. 5, primo capoverso).
9. Ne consegue il difetto di decisività del capitolo di prova, di cui la ricorrente lamenta la mancata ammissione con il motivo in esame, in quanto diretto proprio all’accertamento unicamente di un “numero medio di assunzioni a tempo determinato”, nell’anno 2002, inferiore al limite stabilito dalla clausola di contingentamento di cui all’art. 25 CCNL 2001.
10. Parimenti infondati risultano il terzo e il quarto motivo.
11. Quanto al terzo motivo, si richiama, fra le altre, Cass. n. 4764/2015, la quale ha precisato che, in tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine di cui all’art. 23 I. n. 56/1987, l’onere della prova dell’osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione dell’oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro.
12. Con riferimento al quarto, si deve ribadire quanto già affermato da Cass. n. 4916/2016 e cioè che il rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 25 CCNL 2001 costituisce condizione per una valida apposizione del termine e che, pertanto, la mancata osservanza di essi integra una evidente violazione della disciplina contrattuale e di quella legale; con l’ulteriore precisazione che “la facoltà delle OO.SS. di individuare ulteriori ipotesi di apposizione del termine è subordinata al rispetto della quota di lavoratori prevista sicché ne costituisce una condizione legittimante che, una volta non rispettata, determina l’illegittimità dell’apposizione del termine e la trasformazione del rapporto (cfr. Cass. n. 839/2010)”.
13. E’ invece fondato, e deve essere accolto, il quinto motivo di ricorso.
14. Si richiama, in proposito, Sez. U n. 21691/2016 e Cass. n. 5226/2017: “In tema di contratto a termine, l’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010 è applicabile in sede di legittimità, ancorché sopravvenuto all’emanazione della sentenza di appello, poiché la censura ex art. 360, comma 1°, n. 3 cod. proc. civ. può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, atteso che essa non richiede necessariamente un errore, avendo il giudizio di legittimità ad oggetto non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico; né, ove sia stato proposto appello limitatamente al capo della sentenza concernente l’illegittimità del termine, è configurabile il giudicato in ordine al capo concernente le conseguenze risarcitorie, legato al primo da un nesso di causalità imprescindibile, atteso che, in base al combinato disposto degli artt. 329, comma 2, e 336, comma 1, cod. proc. civ., l’impugnazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del giudicato interno sulla parte da essa dipendente”.
15. Ne consegue che l’impugnata sentenza della Corte di appello di Roma n. 689/2011 deve essere cassata, in relazione al quinto motivo di ricorso, e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio, alla medesima Corte in diversa composizione, la quale si atterrà al principio di diritto sopra richiamato, facendo applicazione del nuovo regime risarcitorio di cui all’art. 32, comma 5, l. n. 183/2010.
P.Q.M.
Accoglie il quinto motivo di ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
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