CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 febbraio 2020, n. 3913
Cessione del trattamento di fine rapporto – Limite del quinto – Art. 1260 c.c. – Libera cedibilità dei crediti – Credito strettamente personale – d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 – Cessione degli stipendi e dei salari degli impiegati e salariati dello Stato – Cessionaria erogatrice del finanziamento
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza pubblicata in data 11 aprile 2013, ha confermato la pronuncia del locale Tribunale che, nell’ambito del procedimento di accertamento dell’obbligo del terzo intrapreso da S.L. nei confronti della V. Lavori Srl, datrice di lavoro del debitore principale G.M., aveva accertato che detta società, terzo pignorato con atto notificato del 18 dicembre 2009, era debitrice verso il dipendente delle seguenti somme: euro 1.000,00 a titolo di retribuzioni indebitamente trattenute; euro 61,75 per pagamenti di sanzioni al codice della strada; euro 3.528,00 per trattamento di fine rapporto in seguito a dimissioni intervenute in data 15 dicembre 2009.
2. La Corte, in particolare, avuto riguardo alla somma di maggiore importo, ha ritenuto che la progressiva assimilazione legale del trattamento riservato alla tutela degli emolumenti dei dipendenti pubblici a quella dei dipendenti privati, garantisca la loro incedibilità oltre il quinto, anche per quanto attiene il TFR, sicché la società datrice di lavoro, quale debitore ceduto, non poteva pagare alla Finanziaria C. una somma oltre la soglia di 1/5 del TFR maturato dal M.
Inoltre la Corte fiorentina ha affermato che non era stata raggiunta la prova, da parte della V., dell’avvenuto pagamento alla Finanziaria della somma di euro 3.528,00 pari al totale delle competenze di fine rapporto maturate dal M. in data antecedente al pignoramento della L.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la V. Lavori srl con 2 motivi; non hanno svolto attività difensiva né S.L. né G.M.
4. In prossimità dell’adunanza camerale del 3 aprile 2019 la società ha depositato memoria ed il P.G. ha concluso per la trattazione della causa in pubblica udienza; all’esito della camera di consiglio il Collegio ha rinviato la causa a nuovo ruolo, ritenendo che non sussistessero i presupposti per la trattazione con il rito camerale.
Ragioni della decisione
1. I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati.
1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia “violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c. ed in particolare dell’art. 52 l. n. 311/2004, della l. n. 266/2005 e dell’art. 1, 5 e 52 d.P.R. n. 180/1950”.
Si sostiene in particolare che, per espressa previsione dell’art. 52, comma 2, d.P.R. n. 180 del 1950 e successive modificazioni “alla cessione del trattamento di fine rapporto … non si applica il limite del quinto”.
Ciò posto si deduce l’irrilevanza del fatto che la società abbia o meno pagato a C. la somma di euro 3.582,00, in quanto la cessione del credito determina che il debitore ceduto, dal momento in cui è a conoscenza della cessione, “è tenuto per legge a pagare al cessionario”.
1.2. Con il secondo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione di legge, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. e/o omessa motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5 c.p.c., per non avere la sentenza impugnata speso alcuna argomentazione sullo specifico motivo di appello concernente “la errata valutazione delle risultanze istruttorie in merito alla trattenuta dell’appellante dell’acconto e della multa del Sig. M.”.
2. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Con esso si pone questione del se la cessione del credito avente ad oggetto il trattamento di fine rapporto sia ammissibile ed eventualmente se essa sia sottoposta al limite del quinto dell’importo complessivo.
2.1. Con la sentenza n. 4930 del 2003 questa Corte ha affermato che, in mancanza di espliciti divieti legali in ordine alla cessione del credito per trattamento di fine rapporto, opera la regola posta dall’art. 1260 c.c. che è quella della cedibilità dei crediti, salvo che si tratti di crediti di carattere strettamente personale o il loro trasferimento sia vietato dalla legge.
Detti divieti, costituendo eccezione alla regola generale della libera cedibilità dei crediti, non possono, a norma dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, essere applicati oltre i casi espressamente contemplati, né è possibile ritenere che il credito del lavoratore in ordine al trattamento di fine rapporto sia di natura strettamente personale, dovendo intendersi per tali – secondo la citata pronuncia che rammenta la “definizione datane da autorevole dottrina” – “quelli volti al diretto soddisfacimento di un interesse fisico o morale della persona”, per i quali l’incedibilità “è sancita in generale a tutela del debitore, in considerazione della rilevanza che assume la persona del creditore ai fini del contenuto della prestazione”. “Tanto non può di certo affermarsi – continua la Corte – per il trattamento di fine rapporto, prestazione il cui contenuto, determinato in base alla disciplina dettata dall’art. 2120 cod. civ., è collegato, sotto il profilo causale, al rapporto di lavoro e senza che, ai fini della determinazione della prestazione, abbia alcuna incidenza la persona del creditore. Né la qualificazione di credito strettamente personale può derivare dal fatto che avendo il trattamento di fine rapporto natura di retribuzione differita, a cui deve aggiungersi, secondo costante giurisprudenza, una funzione latamente previdenziale, esso assolve anche ad una funzione alimentare del lavoratore e della sua famiglia, poiché soltanto il credito alimentare che trova la sua fonte nella legge (art. 433 cod. civ.) non è cedibile, e poiché la funzione alimentare che al trattamento di fine rapporto deriva dalla sua natura retributiva va riferita soltanto a parte del trattamento di fine rapporto, ed è anche eventuale”.
2.2. Successivamente questa Corte ha enunciato il principio (sent. n. 685 del 2012) in ragione del quale: “In tema di espropriazione forzata presso terzi, le modifiche apportate dalla l. n. 311 del 2004 e l. n. 80 del 2005 (di conversione del d.l. n. 35 del 2005) al d.P.R. n. 180 del 1950 (approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni) hanno comportato la totale estensione al settore del lavoro privato delle disposizioni originariamente dettate per il lavoro pubblico”.
Da tale principio, in quanto confermato anche dalle Sezioni unite con la sent. n. 1545 del 2017, il Collegio non ravvisa ragione per discostarsi.
2.3. Pertanto occorre procedere alla ricognizione del quadro normativo posto dal d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, nella versione di testo prò tempore vigente, applicabile anche ai crediti di un lavoratore alle dipendenze di azienda privata quale è quello che ci occupa.
Detto Decreto, nel Titolo I dedicato a talune disposizioni generali, all’art. 1 stabilisce: “Non possono essere sequestrati, pignorati o ceduti, salve le eccezioni stabilite nei seguenti articoli ed in altre disposizioni di legge, gli stipendi, i salari, le paghe, le mercedi, gli assegni, le gratificazioni, le pensioni, le indennità, i sussidi ed i compensi di qualsiasi specie che lo Stato, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e qualsiasi altro ente od istituto pubblico sottoposto a tutela, od anche a sola vigilanza dell’amministrazione pubblica, comprese le aziende autonome per i servizi pubblici municipalizzati, e le imprese concessionarie di un servizio pubblico di comunicazioni o di trasporto nonché le aziende private corrispondono ai loro impiegati, salariati e pensionati ed a qualunque altra persona, per effetto ed in conseguenza dell’opera prestata nei servizi da essi dipendenti”.
Pertanto viene stabilita la regola generale circa la insequestrabilità, impignorabilità e incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti, anche se corrisposti da “aziende private”, “salve le eccezioni” stabilite negli articoli che seguono nel Decreto o in altre disposizioni di legge.
L’art. 2 contiene le “eccezioni alla insequestrabilità e all’impignorabilità”, con i relativi limiti.
L’art. 5, dedicato a “Facoltà e limiti di cessione di quote di stipendio e salario”, stabilisce: “Gli impiegati e salariati dipendenti dallo Stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell’art. 1 possono contrarre prestiti da estinguersi con cessione di quote dello stipendio o del salario fino al quinto dell’ammontare di tali emolumenti valutato al netto di ritenute e per periodi non superiori a dieci anni, secondo le disposizioni stabilite dai titoli II e III del presente testo unico”.
Il rinvio è al Titolo II, che concerne la “cessione degli stipendi e dei salari degli impiegati e salariati dello Stato”, nonché al Titolo III che riguarda, invece, la “cessione degli stipendi e salari dei dipendenti dello Stato non garantiti dal Fondo, degli impiegati e dei salariati non dipendenti dello Stato e (dopo la modifica introdotta dalla L. n. 311 del 2004) dei dipendenti di soggetti privati”.
Ne consegue che nel Titolo III del testo unico in esame deve essere individuata la disciplina della fattispecie concreta che riguarda il dipendente di un soggetto privato.
La norma di esordio di detto Titolo II, l’art. 51, è rubricato “Facoltà dei non dipendenti dello Stato di contrarre prestiti” e prevede: “Gli impiegati e salariati delle amministrazioni indicate nell’art. 1 e non contemplati nel Titolo II, possono contrarre prestiti alle condizioni e per la durata stabilite nell’art. 6″.
L’art. 52, ai primi due commi, recita:
“Gli impiegati e salariati delle amministrazioni indicate nel precedente articolo, assunti in servizio a tempo indeterminato a norma della legge, sul contratto d’impiego privato od in base a contratti collettivi di lavoro, possono fare cessione di quote di stipendio o di salario non superiore al quinto per un periodo non superiore ai dieci anni, quando siano addetti a servizi di carattere permanente, siano provvisti di stipendio o salario fisso e continuativo.
Nei confronti dei medesimi impiegati e salariati assunti in servizio a tempo determinato, la cessione del quinto dello stipendio o del salario non può eccedere il periodo di tempo che, al momento dell’operazione, deve ancora trascorrere per la scadenza del contratto in essere. Alla cessione del trattamento di fine rapporto posta in essere dai soggetti di cui al precedente e al presente comma non si applica il limite del quinto”.
Ne consegue che mentre per la “cessione di quote di stipendio o di salario”, sia nel caso di lavoro a tempo indeterminato che a tempo determinato, è espressamente previsto che essa non sia superiore al quinto dell’importo, altrettanto espressamente è previsto che tale limite non operi per la “cessione del trattamento di fine rapporto”, fungendo essa da forma di garanzia per l’estinzione del debito contratto dal cedente.
Tanto trova conferma nel successivo art. 55 che, nel disciplinare la “Estensione degli effetti della cessione nei casi di cessazione dal servizio”, al comma 2 dispone: “Alla cessazione dal servizio, la cessione di quote di stipendio o salario in corso di estinzione estende i suoi effetti, a termini del penultimo comma dell’art. 43, anche sulle indennità che siano dovute agli impiegati o ai salariati indicati nell’art. 52, in base alla legge sul contratto di impiego privato o ai contratti di impiego o di lavoro”.
Il richiamato penultimo comma dell’art. 43 stabilisce che: “Qualora la cessazione dal servizio, anziché ad una pensione o altro assegno continuativo equivalente, dia diritto ad una somma una volta tanto, a titolo di indennità o di capitale assicurato, a carico dell’amministrazione o di un istituto di previdenza o di assicurazione, tale somma è ritenuta fino alla concorrenza dell’intero residuo debito per cessione”.
Questa Corte ha già avuto modo di interpretare il combinato disposto delle due norme affermando che nella nozione di “indennità che siano dovute agli impiegati o ai salariati indicati nell’art. 52, in base alla legge sul contratto di impiego privato o ai contratti di impiego o di lavoro” è senz’altro riconducibile il trattamento di fine rapporto e che l’inciso “a termini dell’art. 43, penultimo comma” (cioè del comma 3 di esso), si spiega “nel senso di disporre l’estensione della cessione sulle dette indennità per tutto il residuo dovuto e, quindi, senza il limite dei quinto, previsto dall’art. 43, comma 2, per l’estensione sulle pensioni e sulle erogazioni continuative equivalenti” (in termini: Cass. n. 4465 del 2011, in motivazione).
2.4. Ciò posto in diritto circa l’assenza di un limite di legge alla cedibilità del trattamento di fine rapporto oltre il quinto del suo importo, perde di rilievo l’assunto della Corte territoriale secondo cui la V. Lavori Srl non avrebbe fornito la prova dell’effettivo pagamento alla società cessionaria del credito prima della notificazione dell’atto di pignoramento.
Infatti, per consolidato orientamento, il contratto di cessione di credito ha natura consensuale, di modo che il suo perfezionamento consegue al solo scambio del consenso tra cedente e cessionario, il quale attribuisce a quest’ultimo la veste di creditore esclusivo, unico legittimato a pretendere la prestazione (anche in via esecutiva), finanche ove sia mancata la notificazione prevista dall’art. 1264 c.c. che è necessaria al solo fine di escludere l’efficacia liberatoria del pagamento eventualmente effettuato in buona fede dal debitore ceduto al cedente anziché al cessionario (Cass. n. 4713 del 2019; Cass. n. 15364 del 2011; Cass. n. 23463 del 2009; Cass. n. 1312 del 2015).
Quindi perfezionata la cessione, unico creditore avente diritto non era più il lavoratore M. bensì la cessionaria C. erogatrice del finanziamento, indipendentemente dalla successiva fase di adempimento, né viene posta questione che la cessione del credito per TFR fosse stata notificata al debitore ceduto o accettata dal medesimo successivamente al pignoramento, a mente dell’art. 2914 c.c., comma 1, n, 2.
Pertanto, in relazione all’accoglimento del primo motivo di ricorso, deve essere enunciato il seguente principio di diritto:
“Ai sensi dell’art. 52, comma 2, d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, come modificato dall’art. 13-bis del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla I. 14 maggio 2005, n. 80, alla cessione del trattamento di fine rapporto dei lavoratori pubblici e privati non si applica il limite del quinto“.
3. Parimenti fondato risulta il secondo motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte territoriale ignorato il motivo di appello così sintetizzato nell’impugnazione della società: “errata valutazione delle risultanze istruttorie in merito alla trattenuta dell’appellante dell’acconto e della multa del sig. M.; violazione di legge in ordine all’art. 2709 c.c., delle norme in materia di prova, argomento di prova e presunzioni del c.c. e del c.p.c.
Invero l’omesso esame di un motivo di appello è idoneo a concretare la violazione del canone processuale della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato imposto dall’art. 112 c.p.c. (cfr. da ultimo Cass. n. 1539 del 2018), determinando un error in procedendo che causa la nullità della sentenza, per cui il giudice del rinvio sarà chiamato a pronunciarsi sul mezzo di gravame articolato in relazione alle altre poste oggetto di accertamento dell’obbligo del terzo.
4. Conclusivamente la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio al giudice indicato in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, provvedendo anche sulle spese dei giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese.
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