CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 giugno 2018, n. 16024
Licenziamento – Indennità sostitutiva della reintegrazione – Rito Fornero – Esercizio di opzione
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 9 ottobre 2015, ha confermato la pronuncia di primo grado che, previa revoca del decreto ingiuntivo ottenuto da F. F. nei confronti della datrice di lavoro E. M. Srl per euro 114.951,45, aveva comunque condannato la società al pagamento della somma netta di euro 67.500,00 a titolo di indennità sostitutiva della reintegrazione ai sensi dell’art. 18 l. n. 300 del 1970.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’ordinanza pronunciata a conclusione della fase sommaria prevista dal rito ex lege n. 92 del 2012, con cui alla società era stato ordinato di reintegrare il F. nel posto di lavoro, con condanna al risarcimento del danno, costituisse valido presupposto da parte del lavoratore per esercitare l’opzione per le quindici mensilità prevista dal comma 3 dell’art. 18, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.
2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso E. M. Srl con unico articolato motivo. Ha resistito F. F. con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con l’articolato mezzo di gravame si denuncia violazione dell’art. 360, n. 3, c.p.c., in relazione agli artt. 633 e 634 c.p.c. ed all’art. 18, co. 3, l. n. 300 del 1970, per avere la Corte territoriale errato a ritenere l’ordinanza di reintegrazione pronunciata all’esito della fase sommaria del cd. rito “Fornero” equipollente alla sentenza richiesta dalla norma statutaria ai fini dell’esercizio di opzione. Si argomenta diffusamente che detta ordinanza non sarebbe parificabile alla sentenza per dato testuale ed in quanto priva del requisito della stabilità perché suscettibile di riesame in sede di opposizione.
La censura è infondata.
Il rito introdotto dalla l. n. 92 del 2012 è espressamente applicabile “alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e successive modificazioni” (art. 1, co. 47) ed il ricorso che attiva il procedimento è evidentemente finalizzato ad ottenere, in caso di ritenuta illegittimità del licenziamento, le tutele previste dall’art. 18 St. Lav. così come novellato dalla medesima legge, tra cui anche l’eventuale ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, con le pronunce patrimoniali consequenziali.
Già con l’ordinanza resa dal giudice all’esito della fase sommaria può essere accolta la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento, con provvedimento immediatamente esecutivo (art. 1, co. 49) e, ricorrendone i presupposti, può essere disposta la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 l. n. 300 del 1970.
Non vi è ragione per ritenere che da tale ordine di reintegrazione non debbano discendere anche gli effetti previsti dal comma 3 dell’art. 18, come modificato, in base al quale “al lavoratore è data facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale”.
Il contenuto di tale provvedimento giudiziale è del tutto sovrapponibile a quello reso con sentenza all’esito di un giudizio a cognizione ordinaria prima dell’entrata in vigore del procedimento previsto dalla l. n. 92 del 2012 ed è dotato di “efficacia esecutiva” che “non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce il giudizio” di opposizione (art. 1, co. 50).
Inoltre, in caso mancata opposizione nel termine fissato “a pena di decadenza” (art. 1, co. 51), l’ordine di reintegrazione pronunciato nella fase sommaria diviene irretrattabile e fisiologicamente può accadere che solo da esso derivino le conseguenze previste dall’art. 18, tra cui anche la facoltà di opzione.
Invero, secondo le Sezioni unite di questa Corte, la prima fase del procedimento di impugnativa di licenziamento, di cui alla l. n. 92 del 2012, pur caratterizzata da sommarietà dell’istruttoria, ha natura semplificata e non cautelare in senso stretto, non riferendosi la sommarietà anche alla cognizione del giudice, né sussistendo un’instabilità dell’ordinanza conclusiva di tale fase, che è idonea al passaggio in giudicato in caso di omessa opposizione (Cass. SS.UU. nn. 17443 e 19674 del 2014; conf. Cass. SS.UU. n. 4308 del 2017).
Non appare di ostacolo alla conclusione qui patrocinata la circostanza che il terzo comma dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970 faccia espresso riferimento alla richiesta di indennità da farsi entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della “sentenza”, atteso che l’ordinanza in discorso ne ha tutto il contenuto, compresa l’efficacia esecutiva, e questa Corte ha già avuto modo di estendere analogicamente la facoltà di opzione all’ipotesi di provvedimento di reintegrazione emesso nell’ambito di una procedura ex art. 700 c.p.c., pur non presentando * necessariamente contenuto ed efficacia analoghi a quelli di un ordine di reintegrazione emesso con la sentenza di merito ex art. 18 cit. (cfr. Cass. n. 1254 del 2003; conf. Cass. n. 24350 del 2010).
Quanto alle possibili revoche dell’ordine di reintegrazione all’esito del giudizio di opposizione, ciò non può rappresentare certo ostacolo all’interpretazione accolta, come non lo è la circostanza che anche la sentenza di reintegrazione di primo grado possa essere riformata in appello ovvero quella che dispone la reintegrazione in appello possa essere cassata o riformata a seguito di rinvio.
Infatti è noto (per tutte v. Cass. n. 4874 del 2015; conf. Cass. n. 203 del 2016) che l’opzione in discorso non è insensibile alle vicende del provvedimento giudiziale con cui è stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento e ordinata la reintegrazione. Al contrario, tanto il diritto alla reintegrazione quanto quello all’indennità sostitutiva presuppongono l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e ne seguono la sorte. Solo il diritto del lavoratore di scegliere tra la prosecuzione del rapporto o la sua definitiva estinzione, mediante il pagamento dell’indennità sostitutiva, una volta esercitato, non è più suscettibile di revoca né di reviviscenza.
L’opzione esegetica qui affermata appare infine coerente con la finalità del meccanismo connesso all’esercizio del diritto di opzione, finalità messa in chiara luce da SS.UU. n. 18353 del 2014, che è quella di attribuire alle parti uno strumento di semplificazione dei rapporti nel corso del processo, favorendo la composizione transattiva della controversia, nel senso che, esercitata l’opzione e sgombrato il campo dall’ordine di reintegrazione, può addivenirsi con più facilità alla conciliazione della lite.
4. Conclusivamente il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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