CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 maggio 2018, n. 12285
Tributi – Accertamento – Riscossione – Notificazione – Acquisti in Paesi a fiscalità privilegiata – Operazioni infragruppo
Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate, con ricorso tempestivo e ritualmente notificato, impugnava la sentenza n. 17/14/2013, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia il 08.03.2013;
riferiva che alla B. A. M. Electronics s.r.l. – Barnes era stato notificato un avviso di rettifica ai fini Irpeg ed Irap relativo all’anno d’imposta 2003, con il quale erano recuperati a tassazione costi pari ad € 41.222.771,01 ritenuti indeducibili perché relativi ad acquisti di forniture da imprese ubicate in Paesi a fiscalità privilegiata (compresi nella cd Black list), senza che ricorressero i requisiti richiesti dall’art. 76 co. 7 ter del d.P.R. n. 917 del 1986, ratione temporis vigente (ora art. 110, co. 11, del medesimo d.P.R.), nonché costi relativi ad operazioni infragruppo per € 4.851.868,44 (oltre ulteriori importi non più oggetto di controversia), perché ritenuti indimostrati e privi del requisito di inerenza agli obiettivi aziendali, ex art. 75 (ora 109) del medesimo d.P.R.
La società, che al contrario insisteva sulla regolarità delle operazioni e l’insussistenza delle condizioni per il recupero a tassazione dei predetti importi, impugnava l’atto impositivo promuovendo ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che con sentenza n. 326/26/2010 accoglieva le doglianze della contribuente. La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, adita dalla Agenzia, confermava la sentenza del giudice di prime cure con la pronuncia qui impugnata.
Avverso la sentenza del giudice regionale l’Ufficio propone ricorso con diciotto motivi, chiedendo la cassazione della sentenza.
La Barnes non si è costituita.
All’udienza pubblica del 27 febbraio 2018, dopo la discussione, il P.G. e la parte ricorrente concludevano. La causa era trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
Con riferimento ai primi dodici motivi, prima del loro esame è opportuno chiarire che la B.-Bames era una società fornitrice di servizi di produzione manifatturiera in outsourcing. In concreto acquistava materiale da assemblare per conto di altre società (principalmente IBM ed Enel), fornendo a queste il prodotto finito. Il materiale assemblato era acquistato da società produttrici, alcune delle quali con sede in Stati inclusi nella cd. black list.
Ciò premesso, per priorità logica e in osservanza del principio della ragione più liquida è utile trattare i motivi di ricorso riguardanti il contrasto insorto tra le parti in ordine alla sussistenza o meno del requisito dell’effettivo interesse economico delle operazioni concluse con le imprese incluse nella cd. black list (motivi 4-12).
Secondo la prospettazione difensiva della contribuente nei precorsi gradi di giudizio, era la stessa cliente cessionaria del prodotto finito ad indicare le società presso cui acquistare la componentistica da assemblare. Tanto era sufficiente a provare l’effettivo interesse economico all’acquisto del materiale dalle suddette società. Secondo il ricorso dell’Ufficio mancavano invece le prove dell’obbligo di acquisto della componentistica dalle suddette imprese, e comunque gli obblighi avrebbero riguardato i componenti strategici e non tutto il materiale acquistato.
Ciò chiarito, con il quarto motivo l’Agenzia denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., perché il giudice regionale avrebbe posto a base del riconoscimento del requisito dell’effettivo interesse economico alla conclusione di operazioni di fornitura da imprese sedenti in Paesi inclusi nella black list il vincolo di acquisto previsto nei contratti quadro stipulati tra i committenti dei prodotti assemblati e la contribuente, senza distinguere tra componenti strategiche e no, impostazione neppure prospettata dalla stessa contribuente.
Il motivo è inammissibile, perché, a parte che le difese della contribuente nei precedenti gradi non circoscrivono affatto in modo netto i vincoli d’acquisto da determinati fornitori alle sole componenti strategiche, come pretende la ricorrente, trattasi di un argomento utilizzato dal giudice regionale, peraltro in un contesto argomentativo complesso e caratterizzato da collegamenti con altri elementi probatori, che esula dal vizio processuale, potendo incidere al più sul vizio motivazionale.
Parimenti inammissibile è il quinto motivo, con il quale si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c. Con esso l’Agenzia afferma che, anche se il giudice regionale avesse ritenuto che tutti gli acquisti fossero riferiti a componenti strategiche, ciò sarebbe stato dichiarato assertivamente ed in carenza di motivazione. Sennonché la ricorrente invoca un vizio processuale laddove denuncia un vizio motivazionale, dovendosi del tutto escludere la radicale assenza di motivazione o la motivazione meramente apparente.
Con il sesto motivo censura l’omesso esame su un fatto decisivo per il giudizio, del quale le parti hanno discusso, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. In sintesi la ricorrente lamenta il vizio di motivazione in ordine alla natura strategica di tutte le componenti acquistate. Il motivo è infondato perché, a parte che non risulta affatto chiaro, nei passaggi del ricorso d’appello dell’Ufficio, l’essenzialità della distinzione tra componenti strategiche e no (nei passaggi dell’atto d’appello, riportati nelle pagine 11-12 del ricorso per cassazione, si critica l’efficacia probante dei file excell, si evidenzia che non vi erano criteri che imponessero la scelta di imprese sedenti in Paesi a fiscalità privilegiata quando gli stessi elenchi comprendevano anche imprese stabilite in paesi esclusi dalla black list, ma non vi è alcuna chiara ripresa della distinzione per qualità delle componenti), trattasi comunque di una critica che non coglie nel segno. La Commissione tributaria regionale ha riconosciuto la sussistenza del requisito dell’interesse economico alle operazioni di acquisto valorizzando il contratto tra la Barnes e la IBM, nonché i contratti quadro di altri clienti (cfr. pag. 2 della sentenza), nei quali si parla degli accordi-quadro e dei vincoli conseguenti, ossia dell’obbligo di fornitura da specifiche imprese; si valorizza la lista dei fornitori, ossia la loro appartenenza a un elenco di soggetti produttori di componentistica, a loro volta obbligati all’osservanza di specifiche tecniche per la funzionalità dei prodotti da fornire e dei relativi prezzi da praticare (fornitori LOA); si sottolinea il continuo aggiornamento di quelle liste. Si tratta cioè di una serie di elementi dal cui complesso la Commissione Tributaria trae il convincimento della sussistenza del requisito dell’interesse economico effettivo della contribuente a fornirsi dalle predette imprese, quand’anche residenti in Paesi a fiscalità privilegiata.
Ebbene, in materia di vizio di motivazione la Corte ha affermato che la sua deduzione non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima (in riferimento alla previgente formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c.), può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cfr. Cass., Sez 5, ord. n. 19547/2017; sent. n. 17477/2007).
D’altronde costituisce principio altrettanto reiterato quello secondo cui la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è tenuto a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie, dovendo solo fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti.
Erra pertanto l’Agenzia a concentrare l’attenzione su un unico e specifico aspetto, che non è affatto decisivo nell’ottica degli elementi complessivi presi in considerazione dal giudice di merito. Né nella motivazione si evidenziano errori materiali o salti logici che compromettano l’argomentare del giudice regionale. In conclusione il motivo è infondato.
Inammissibili sono poi il settimo, l’ottavo ed il nono motivo, con i quali rispettivamente è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727- 2729 c.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., perché erroneamente la sentenza avrebbe riconosciuto che gli acquisti erano stati eseguiti presso fornitori LOA; è denunciata la nullità della sentenza impugnata per inosservanza dell’art. 112 c.p.c. e 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. per omessa motivazione in ordine alla contestazione dell’ufficio sull’esistenza della prova che gli acquisti fossero stati tutti operati con fornitori LOA; è denunciata la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., 7 e 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. per l’omessa motivazione sulla contestazione dell’ufficio in ordine alla rispondenza delle operazioni di acquisto all’interesse economico effettivo della contribuente. Infatti, a parte l’incomprensibile riferimento alla disciplina sulle presunzioni atteso che nel caso che ci occupa vengono valutati elementi di prova e non indiziari (sia pur gravi precisi e concordanti), per quanto già chiarito sul tenore e sul contenuto delle argomentazioni supportanti la decisione del giudice regionale, con le censure si tenta di ricondurre a violazioni di legge e violazioni processuali questioni relative alla valutazione delle prove, che sono invece eminentemente riferibili a vizi motivazionali. D’altronde è appena il caso di rammentare che in tema di ricorso per cassazione il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Sez. 1, ord. n. 24155 del 2017; Sez. L., sent. 195 del 2016; Sez. 5, sent. 26110 del 2015).
Parimenti inammissibili sono il decimo, l’undicesimo e il dodicesimo motivo del ricorso, con i quali l’Agenzia rispettivamente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. per aver valorizzato la vantaggiosità dei prezzi di acquisto dai fornitori LOA, mai dedotta, dalla contribuente a sua difesa; denuncia la nullità della sentenza per inosservanza dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. per aver collegato alla vantaggiosità economica dei prezzi di acquisto l’effettivo interesse economico alle operazioni concluse con i medesimi fornitori, senza dare una spiegazione, dunque con motivazione apparente; denuncia infine la violazione e falsa applicazione dell’art. 76 del d.P.R. n. 917 del 1986, dell’art. 1 preleggi, degli artt. 2697, 2727-2729 c.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. per avere la sentenza erroneamente ritenuto che a carico della Amministrazione vi fossero oneri probatori al fine di escludere vincoli organizzativi e produttivi nella scelta dei fornitori. Anche in riferimento a tali censure infatti, stante le argomentazioni complesse e complessive a supporto della decisione del giudice regionale, la ricorrente tenta di ricondurre nell’alveo delle violazioni processuali e di legge circostanze invece al più censurabili sotto l’aspetto del vizio motivazionale. Peraltro si tratta di argomentazioni che, quand’anche ultronee, certamente non viziano la motivazione della sentenza nella sua necessaria lettura unitaria, e, con riferimento alla dodicesima censura, più che di un obbligo probatorio posto a carico dell’Ufficio, il periodo censurato della sentenza aveva il tenore di una sollecitazione critica alla valutazione complessiva degli interessi economici in gioco, di per sé non pertinente, ma non per questo in grado di viziare l’intero supporto argomentativo della decisione.
In conclusione vanno rigettati tutti i motivi di censura relativi al riconoscimento dell’effettivo interesse economico delle operazioni concluse con le imprese incluse nella cd. black list.
Da tali conclusioni discende anche l’inammissibilità dei primi tre motivi per difetto di interesse, atteso che, ai fini della deducibilità delle spese sostenute per operazioni commerciali con imprese sedenti in Paesi a regime di fiscalità privilegiata, i requisiti richiesti dall’art. 110, co. 11 del d.P.R. 917 del 1986, all’epoca vigente, si ponevano su un piano di alternatività e non di cumulatività, come desumibile dall’utilizzo della disgiuntiva “ovvero”, sicché, dimostrata la concreta esecuzione e l’effettivo interesse all’operazione con le suddette imprese, non era necessario dimostrare anche il requisito della prevalente attività commerciale effettiva esplicata dalle fornitrici nei suddetti Paesi (cfr. Cass., Sez. 5, sent. n. 20081 del 2014).
Esaminando ora i motivi di ricorso relativi alla parte della sentenza che tratta del secondo rilievo mosso alla contribuente, quello relativo al sostenimento delle spese infragruppo, il cui disconoscimento ha fondato il recupero a tassazione di costi pari ad € 4.851.868,44, va chiarito che l’oggetto della controversia è riferito alle cd. spese di regia sopportate dalla società controllante (la Celestina Inc.) a beneficio della società controllata, odierna contribuente, e la conseguente ripartizione dei costi, che la B.-Bames ha dedotto.
L’Amministrazione finanziaria ha ritenuto indebita la contabilizzazione dei costi per mancata dimostrazione della loro esistenza e dell’inerenza ex art. 75 cit.
Premesso ciò, possono essere unitariamente trattati il tredicesimo, quattordicesimo, quindicesimo e sedicesimo motivo, con i quali rispettivamente l’Agenzia lamenta: 1) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727-2729 c.c., dell’art. 75 del d.P.R. n. 917 del 1986, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. perché -a fronte della contestazione sulla prova d’esistenza delle spese di regia-erroneamente la sentenza aveva ritenuto sufficienti le prove presuntive rappresentate da un cost sharing agreement, regolamentante i servizi collegati ed erogati dalla controllante alla controllata e la ripartizione dei costi, nonché la correttezza degli addebiti certificata da una società di revisione esterna, laddove tali elementi non avrebbero consentito di evidenziare la prova presuntiva per carenza di gravità precisione e concordanza degli indizi; 2) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727-2729 c.c., dell’art. 75 del d.P.R. n. 917 del 1986, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., perché erroneamente la sentenza avrebbe riconosciuto l’inerenza dei costi sulla base di una relazione predisposta da una società di revisione senza la prova che tale relazione fosse stata confezionata in occasione della certificazione del bilancio; 3) la nullità della sentenza per inosservanza dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. per l’apodittico riconoscimento dell’esistenza delle prestazioni e della inerenza dei costi, basato sulla relazione della società di revisione, senza altra motivazione; 4) per l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio del quale le parti hanno discusso, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., per l’insufficiente o omessa spiegazione del come e perché fosse stata riconosciuta l’esistenza e l’inerenza delle spese.
È pacifico che competa alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007).
Quanto all’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova. Nel caso di specie la ricorrente ritiene che ci si trovi dinanzi ad indizi privi di precisione e concordanza, donde mancherebbe la prova presuntiva richiesta dall’art. 2729 c.c.
La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Occorre allora verificare se nella sentenza gravata sia stato fatto buon governo dei principi appena esposti.
Il giudice regionale lombardo ha ritenuto provata l’esistenza dei costi di regia valorizzando un cost sharing agreement intervenuto tra società estera controllante e società controllate, tra cui la nostra contribuente, regolamentante i servizi collegati ed erogati, nonché la ripartizione dei costi infragruppo, nonché la correttezza degli addebiti certificata da una società di revisione esterna. Trattasi ovviamente di elementi indiziari, che, se astrattamente idonei alla prova dei costi e della loro inerenza, nel percorso logico della inferenza degli uni con gli altri, evidenziano una falla, perché l’accordo infragruppo intanto può avere rilevanza in quanto autorevole sia la certificazione proveniente dalla società di revisione.
Sennonché non vi è alcun elemento, evidenziato dalla sentenza, che provi il grado di autorevolezza di quella relazione. Sul punto la giurisprudenza, opportunamente richiamata dalla difesa della Agenzia, ha chiarito che la legittimità della deduzione, da parte di una società di una quota delle spese generali (c.d. spese di regia) sostenute dalla società capogruppo e da questa ripartite “prò quota” tra le società partecipate, esige che il requisito della inerenza dei costi sostenuti all’oggetto dell’attività – prescritto dall’art. 75, co 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 (ora 109) sia dimostrato da idonea attestazione tecnico-contabile e dalla inesistenza di duplicazione di costi. Tale prova può dirsi raggiunta quando la natura e la composizione dei servizi prestati alla stabile organizzazione e la loro funzionalità all’attività di questa risultino dai prospetti redatti dalla capogruppo e certificati da una società internazionale di revisione, tenuto conto della funzione di controllo pubblicistico che questa svolge, in posizione di indipendenza rispetto al soggetto conferente l’incarico e della responsabiltà, civile e penale, In cui incorre il revisore, iscritto in apposito Albo tenuto dalla CONSOB, che attesti dati non veritieri. Ne consegue che la revisione, articolata mediante relazioni sulla corrispondenza dei dati di bilancio e del conto profitti e perdite alle risultanze delle scritture contabili, rende affidabili le relative attestazioni che, assumendo valore di prova decisiva, non possono essere disattese dall’Amministrazione Finanziaria o dal giudice, se non contrastate da prove di eguale portata (Sez. 5, sent. n. 6532 del 2009). Nel caso di specie la sentenza non rende chiaro se e in quale occasione la società internazionale di revisione abbia formalizzato le sue valutazioni, mentre era necessario comprendere in che ruolo e in quale veste, anche sul piano delle responsabilità, quella certificazione di esistenza ed inerenza di costi sia stata redatta.
In conclusione la sentenza non è chiara sulla autorevolezza delle prove a supporto delle conclusioni raggiunte, e ad un tempo evidenzia il malgoverno degli elementi indiziari pur a disposizione., Le censure mosse dalla Agenzia vanno pertanto accolte.
L’accoglimento dei motivi predetti assorbe i motivi diciassettesimo e diciottesimo.
La sentenza va pertanto cassata nei limiti dei motivi accolti e il processo va rinviato dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione.
P.Q.M.
Rigetta i motivi dal quarto al dodicesimo; dichiara inammissibili i motivi dal primo al terzo per difetto di interesse; accoglie i motivi dal tredicesimo al sedicesimo, assorbiti il diciassettesimo e diciottesimo. Cassa la sentenza limitatamente ai motivi accolti e rinvia alla Commissione Tributaria della Lombardia, che anche sulle spese deciderà in diversa composizione.
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