CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 maggio 2018, n. 12939
Rapporto di lavoro – Dirigente Usl – Diverso inquadramento professionale – Principio di parità di trattamento ex art. 45, D.Lgs. n. 165/2001
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza n. 1422/2012, ha confermato la pronuncia del Giudice del lavoro del Tribunale di Lucca che aveva respinto la domanda proposta dall’ing. L. A., dirigente della Azienda USL n. 12 di Viareggio, appartenente al ruolo professionale del S.S.N., il quale – sulla premessa di svolgere mansioni aventi un contenuto assimilabile ai compiti e alle funzioni dei dipendenti appartenenti al ruolo sanitario – aveva chiesto l’accertamento del suo diritto ad un diverso inquadramento professionale, con condanna dell’Azienda convenuta alla corresponsione degli emolumenti corrispondenti alle funzioni proprie dei dirigenti appartenenti a detto ruolo, oltre al risarcimento dei danni professionali, patrimoniali, biologici e morali.
2. La Corte territoriale preliminarmente ha rigettato il primo motivo dell’appello incidentale proposto dall’Azienda sanitaria, avente ad oggetto il capo della sentenza di primo grado che aveva riconosciuto la giurisdizione del Giudice ordinario in ordine al periodo successivo al 30 giugno 1998 e ha ritenuto assorbito l’esame del secondo motivo vertente sul difetto di legittimazione passiva della medesima Azienda convenuta.
3. La Corte di appello ha poi rigettato il primo motivo dell’appello proposto dal dirigente, avente ad oggetto il capo della sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda principale. Ha argomentato, in sintesi, come segue:
– alla stregua della costante giurisprudenza di legittimità, gli inquadramenti del personale contrattualizzato sono affidati alla contrattazione collettiva nel settore pubblico, le cui scelte sono sottratte al sindacato giurisdizionale e al principio di non discriminazione di cui all’art. 45 d.lgs. n. 165/01;
– pertanto, è da ritenere totalmente infondata la pretesa di parte appellante incentrata sulla critica della classificazione data dalla contrattazione collettiva, in conformità alla precedente classificazione di cui al d.p.r. 761/1979, al d.p.r. 483/1997 e al d.lgs. 502/92, relativi alla dirigenza sanitaria, e all’art. 26 T.U. 165/01, dettato per l’area della dirigenza professionale, tecnica ed amministrativa, distinguendo i ruoli sanitario, professionale, tecnico e amministrativo (art. 1, commi 2 e 3, CCNL Sanità);
– neppure è applicabile l’art. 52 d.lgs. 165/01, che consente il riconoscimento delle differenze economiche nell’ipotesi di esercizio di fatto di mansioni superiori a quelle attribuite e che opera soltanto nell’ambito del ruolo di inquadramento posseduto e non è concepibile nel contesto della valutazione di un ruolo rispetto ad un altro;
– erroneamente il ricorrente aveva sovrapposto le mansioni all’inquadramento sul falso presupposto che, una volta dimostrata l’assimilabilità, se non l’identità, di mansioni con quelle di altro dipendente appartenente al diverso ruolo, ne doveva discendere l’omologazione del trattamento a prescindere dalla distinzione dei diversi ruoli di inquadramento;
– “l’unica via per ottenere un mutamento di inquadramento è quella collettiva, non potendosi il giudice sostituire, nel pubblico impiego, alle determinazione delle parti sociali”.
3.1. La Corte di appello ha altresì rigettato il secondo motivo dell’appello principale, avente oggetto la domanda subordinata di indebito arricchimento ex artt. 2041 e 2042 cod. civ., proposta sull’assunto dell’essersi l’Azienda avvantaggiata, retribuendo il ricorrente in misura inferiore rispetto ai sanitari, pur a fronte di mansioni assimilabili. Al riguardo, ha osservato che l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto ai danni dell’altro che sia avvenuta senza causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto; che, nella specie, la retribuzione relativa alle mansioni svolte è stata conforme alle previsioni della contrattazione collettiva vigente per cui, da un lato, non può parlarsi di azione generale di arricchimento in presenza di negoziazione tra le parti e, dall’altro, l’azione non è esperibile per difetto di residualità, atteso che l’azione di indebito arricchimento non è esercitabile ove l’ordinamento prevede più specifici rimedi.
4. Per la cassazione di tale sentenza l’originario ricorrente ha proposto ricorso affidato a otto motivi. Resiste con controricorso l’Azienda USL n. 12 di Viareggio, che ha proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo.
5. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 69 d.lgs. n. 165/01 (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) per avere la sentenza impugnata, con il rigetto dell’appello incidentale dell’Azienda sanitaria intimata, erroneamente limitato la giurisdizione del giudice ordinario al solo segmento successivo al discrimen temporale del 30 giugno 1998. Deduce che tale soluzione è in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel segno della effettività della tutela giurisdizionale e del principio costituzionale del giusto processo, occorre riconoscere una tendenziale unicità della giurisdizione e dunque la concentrazione della tutela giurisdizionale in relazione all’intera domanda proposta.
2. Anche il secondo motivo verte sulla questione della giurisdizione. Viene denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 69 d.lgs. n. 165/01, violazione e falsa applicazione dell’art. 59 I. 69/2009 (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.). La sentenza impugnata, confermando il principio secondo cui la data del 15 settembre 2000 è stata fissata quale termine di decadenza sostanziale per la proponibilità della domanda giudiziale, non ha disposto per la translatio iudicii al giudice amministrativo, per quanto di competenza della controversia oggetto del dichiarato difetto di giurisdizione ordinaria.
3. Con il terzo e il quarto motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 165 del 2001, artt. 26, 45 e 52, e violazione dell’art. 36 Cost. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.), censura la sentenza che, pur avendo rilevato come circostanza pacifica in giudizio la sostanziale assimilazione contenutistica tra le mansioni da lui disimpegnate e quelle svolte dai dirigenti appartenenti al ruolo sanitario e incardinati nella medesima unità funzionale, ha ritenuto non configurabile la possibilità di equiparazione di mansioni e di inquadramento fra l’uno e gli altri. Deduce di avere svolto attività di prevenzione sanitaria relativa “all’espressione dei pareri circa la compatibilità dei nuovi insediamenti produttivi per la salute dei lavoratori”, cui si riconosceva la valenza di prevenzione dei tumori: risultava comprovata, oltre all’effettiva partecipazione del ricorrente all’approntamento delle prestazioni sanitarie dell’azienda, anche la sua effettiva parità funzionale, quanto a poteri, doveri e responsabilità, alla posizione dei sanitari dirigenti del SSN, per cui, a fronte di tale parificazione dei ruoli, doveva essere riconosciuto lo stesso trattamento economico e normativo dei dirigenti del ruolo sanitario, in virtù del principio di parità di trattamento, inteso come generalizzato divieto di trattamenti ingiustificatamente differenziati, e quindi discriminatori.
4. Con il quinto motivo si denuncia violazione falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) per avere la sentenza seguito una soluzione giuridica che ha completamente omesso di considerare l’effettivo svolgimento di funzioni e compiti quali dedotti ricorso introduttivo e neppure contestati alla controparte.
5. Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., artt. 2103 e 2697 cod. civ., art. 52 d.lgs. n. 165/01, nonché omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod. proc. civ.) per la mancata ammissione della prova testimoniale diretta a comprovare che il ricorrente, in via autonoma, opera valutazioni e detta prescrizioni per la certificazione di autorizzazioni riguardanti le strutture convenzionate ad operare per il servizio sanitario nazionale; detta prescrizioni ed esprime valutazioni finalizzate alla idoneità, sotto il profilo della prevenzione, di strutture ed impianti; effettua verifiche periodiche di prevenzione di impianti; redige e rilascia i relativi verbali; rilascia pareri specialistici al pubblico, quando richiesto; redige e invia agli enti che le hanno richieste le certificazioni sulla idoneità e conformità delle costruzioni alle leggi e ai regolamenti vigenti quanto ad agibilità e abitabilità; riscontra le richieste di intervento che pervengono dalle aziende intimate in occasione di esposti e denunce per molestie causate da emissioni provenienti da impianti ed attività; svolge controlli inerenti il parco impianti tecnici del territorio della provincia e ne verifica l’idoneità e il funzionamento in sicurezza; partecipa alle inchieste sugli infortuni sul lavoro, effettuate su delega della Procura della Repubblica e su indagini di iniziativa del Responsabile primario del Servizio di Prevenzione. Si deduce che la prova testimoniale avrebbe consentito di dimostrare che si tratta di attività tutte svolte dal ricorrente indifferentemente con i medici del lavoro, con i medici igienisti, con i medici veterinari e con gli altri operatori tecnici della prevenzione, appartenente a ruolo sanitario.
6. Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697 cod. civ. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) nella parte in cui la sentenza di appello ha affermato che la retribuzione relativa alle mansioni svolte era stata conforme alle previsioni della contrattazione collettiva vigente, mentre invece il ricorrente aveva allegato e richiesto di provare per testi che lo svolgimento di funzioni e compiti erano corrispondenti a quelli effettuati dai colleghi appartenenti al ruolo sanitario, per cui si verteva in un’ipotesi di marcata prevalenza, se non totalità, delle mansioni espressamente previste dalle declaratorie contrattuali concernenti i dirigenti sanitari.
7. L’ultimo motivo del ricorso principale verte sul rigetto della domanda subordinata, avente ad oggetto il riconoscimento dell’indennizzo per indebito arricchimento dell’Amministrazione datrice di lavoro. In proposito, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2041, 2042 cod. civ., art. 2103 cod. civ. e dell’art. 52 d.lgs. 165/01, in quanto vale in materia il principio secondo cui l’azione di indebito arricchimento assume, rispetto all’azione contrattuale specifica, i connotati di una domanda non solo sussidiaria, ma anche distinta, risultando diversi tanto il bene cui tende l’azione quando i fatti giuridici posti a suo fondamento e quindi deve riconoscersi la possibilità di proporre cumulativamente, con l’atto introduttivo del giudizio, l’azione contrattuale e quella di arricchimento, ferma restando la subordinazione della seconda alla prima e dunque nel caso in cui l’azione tipica proposta in via principale abbia esito negativo per carenza del titolo posto a suo fondamento.
8. I primi due motivi del ricorso principale, vertenti sulla questione della giurisdizione, sono inammissibili, in quanto non risulta dalla sentenza di appello che il capo della sentenza di primo grado con cui il Giudice del lavoro del Tribunale di Lucca ebbe ad affermare il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario in relazione alle domande relative al periodo anteriore al 30 giugno 1998 fosse stato impugnato dall’odierno ricorrente con specifico motivo di gravame. Dal tenore dalla sentenza emerge che solo l’Azienda sanitaria propose impugnazione avverso il capo della sentenza di primo grado che aveva riconosciuto la sussistenza della giurisdizione per il periodo successivo al 30 giugno 1998. L’attuale ricorrente non denuncia una omessa pronuncia in ordine a motivi di appello (in ipotesi) proposti e non esaminati dalla Corte territoriale, per cui ogni questione che attiene al periodo anteriore al 30 giugno 1998 è coperta da giudicato interno. L’ipotesi prospettata del giudicato implicito sulla (sussistenza della) giurisdizione (per il periodo anteriore al 30 giugno 1998) non è configurabile in presenza di una statuizione espressa del primo Giudice che ha declinato la propria giurisdizione. Del pari, non risulta che, a fronte di tale statuizione, il dipendente avesse lamentato in appello la mancata translatio iudicii al giudice amministrativo per quanto oggetto di difetto di giurisdizione ordinaria. Né può essere invocato, in sede di ricorso per cassazione, il principio della unitarietà della giurisdizione ove si sia formato sulla statuizione di primo grado (di diniego della giurisdizione) il giudicato interno, ancorché tale statuizione possa considerarsi (in ipotesi) errata.
9. Sempre in via pregiudiziale, è inammissibile il ricorso incidentale per cassazione dell’Azienda sanitaria n. 12 di Viareggio, avente ad oggetto il capo della sentenza di appello che ha confermato la pronuncia di primo grado in ordine alla dichiarata sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario sulle pretese relative al periodo successivo al 30 giugno 1998.
9.1. Al riguardo, deve rilevarsi il difetto di specificità del motivo rispetto alla sentenza impugnata (art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.). Questa ha fatto applicazione del principio espresso da Cass. n. 8521 del 2012 secondo cui, ove il dipendente agisca per il riconoscimento di differenze retributive correlate ad una certa qualifica, non rileva, ai fini dell’individuazione del giudice fornito di potestas iudicandi ex art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, l’anteriorità degli atti di inquadramento rispetto alla data del 30 giugno 1998, poiché il fatto costitutivo del diritto alla maggiore retribuzione è il possesso della qualifica corrispondente al profilo professionale. Ha quindi ritenuto non rilevante, in relazione alla pretesa concernente le differenze retributive rivendicate per il periodo successivo al discrimen temporale, la circostanza che l’atto di inquadramento contestato fosse anteriore, essendo il giudice ordinario stato investito di un rapporto che era proseguito oltre tale data.
9.2. A fronte di tale preciso ordine argomentativo, supportato da riferimenti giurisprudenziali, il motivo del ricorso incidentale si è limitato ad opporre che l’atto di inquadramento dal quale prendeva origine ogni pretesa (anche di ordine economico) si collocava in epoca anteriore al 30 giugno 1998, senza in alcun modo confutare, con idonei argomenti, le ragioni per cui la giurisprudenza di cui i giudici di primo e di secondo grado avevano fatto applicazione sarebbe stata errata. Nessun argomento è stato opposto al ragionamento secondo cui il protrarsi dell’inadempimento dell’Amministrazione oltre il discrimine temporale radica la giurisdizione presso il giudice ordinario.
9.3. In conclusione, l’inammissibilità dei primi due motivi del ricorso principale per preclusione da giudicato interno e l’inammissibilità del ricorso incidentale dell’Azienda per difetto di specificità del motivo radica la giurisdizione nei termini di cui alla statuizione dei giudici di merito.
10. Tutto ciò premesso, i restanti motivi del ricorso principale, che possono essere trattati congiuntamente, in quanto tra loro connessi, sono infondati.
11. Più volte questa Corte si è pronunciata in fattispecie in cui i lavoratori del pubblico impiego avevano lamentato la violazione dell’art. 45, comma 2, del t.u. n. 165 del 2001 per disparità di trattamento rispetto ad altri lavoratori addetti a mansioni analoghe. Il principio che costantemente è stato espresso in tali fattispecie è che l’art. 45 cit., secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera nell’ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, in quanto la disparità trova titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive, come tali, della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell’autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato, di regola sufficiente, salva l’applicazione di divieti legali, a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle situazioni concrete (Cass. S.U. 10454 del 2008, Cass. nn 472, 479 e 1037 del 2014, nn. 10105 e 26140 del 2013, n 4971 del 2012).
11.1. Il principio opera come limite per l’Amministrazione pubblica che, ai sensi dell’art. 45, secondo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001, deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e, comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (Cass. n. 5097 del 2011), mentre la materia degli inquadramenti del personale è stata affidata dalla legge allo speciale sistema di contrattazione collettiva che nel settore pubblico può intervenire senza incontrare il limite della inderogabilità delle norme in materia di mansioni concernenti il lavoro subordinato privato, sicché le scelte della contrattazione collettiva sull’inquadramento del personale sono sottratte al sindacato giurisdizionale, dovendosi escludere che il principio di non discriminazione di cui all’art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 costituisca parametro di giudizio sulle eventuali differenziazioni operate in tale sede (Cass. S.U. n. 16038 del 2010; Cass. 19007 del 2010, Cass. 1241 del 2016).
11.2. Il legislatore ha lasciato piena autonomia alle parti sociali di prevedere trattamenti differenziati in determinate situazioni, afferenti alla peculiarità del rapporto, ai diversi percorsi formativi, alle specifiche esperienze maturate e alle carriere professionali dei lavoratori (cfr. Cass. ord. 19043 del 2017).
12. Nel caso in esame, non è in discussione che l’attuale ricorrente abbia percepito il trattamento contrattuale previsto per il proprio inquadramento contrattuale nel ruolo professionale del SSN, mentre non può lo stesso rivendicare – per quanto si è detto – il trattamento previsto per gli appartenenti al ruolo sanitario, per i quali la contrattazione collettiva ha disposto diversamente.
12.1. Non è neppure contestato in giudizio che le mansioni assegnate e svolte dal ricorrente fossero riconducibili nella qualifica contrattuale di inquadramento, mentre resta irrilevante che le attività demandate possano essere convergenti o sovrapponibili a quelle svolte dagli appartenenti al ruolo sanitario, una volta stabilito che non si tratta di svolgimento di mansioni superiori nell’ambito del sistema di inquadramento proprio del ruolo di appartenenza, ma di rivendicazione di un trattamento diverso, proprio dei dipendenti di un altro ruolo.
13. Alla stregua di tali considerazioni, aventi carattere assorbente di ogni altro rilievo, deve concludersi che non si può ravvisare un contrasto con il principio di parità di trattamento di cui all’art. 45 del citato d.lgs. n. 165, in quanto tale principio non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate dalle parti collettive, né è ipotizzabile un contrasto con il principio di non discriminazione, non avendo tale principio valenza di clausola aperta, idonea a vietare ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, rilevando sotto tale profilo specifiche previsioni normative. Neppure sono suscettibili di essere sindacate da parte del giudice le scelte operate dalla contrattazione collettiva in materia di classificazione professionale dei lavoratori, giacché è assente un parametro di giudizio cui rapportare detto sindacato: proprio il potere di classificazione professionale e di regolamentazione economica demandato dalla legge ai contratti collettivi rende le scelte compiute in proposito dalla contrattazione collettiva non suscettibili di sindacato da parte del giudice.
14. Resta assorbito l’esame dei motivi che vertono sul mancato ingresso delle istanze istruttorie e sul mancato accertamento dei contenuti delle mansioni svolte e della sostanziale assimilazione di queste a quelle svolte dai dirigenti appartenenti al ruolo sanitario, poiché la questione non è di fatto, ma di diritto, e va risolta alla luce del principi sopra esposti.
15. E’ altresì infondato l’ottavo motivo, vertente sul mancato accoglimento della domanda formulata ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., atteso che l’ingiustificato arricchimento postula un correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile nel caso del pubblico dipendente che percepisca la retribuzione prevista per la qualifica rivestita (Cons. St., V, 7 aprile 2011, n. 2166; e, inoltre, Cons. St., VI, 3 febbraio 2011 n. 758, Cons. St., VI, 24 gennaio 2011, n. 467, Cons. St., V, 19 giugno 2009, n. 4063).
16. In conclusione, il ricorso principale va rigettato, mentre quello incidentale va dichiarato inammissibile. Stante la reciproca soccombenza, le spese sono integralmente compensate tra le parti.
17. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale; compensa tra le parti le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e del ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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