CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 maggio 2018, n. 12945
Lavoratori dello spettacolo – Licenziamento – Per raggiungimento dei limiti di età – Termine di impugnazione – Esercizio del diritto di opzione
Fatti di causa
C. P. adiva il Tribunale di Roma con ricorso ex art. 1 comma 47 legge n. 92/2012 ed esponeva di aver lavorato alle dipendenze della F. T. dell’O. di Roma quale ballerina sino al 31/3/2014, allorquando la F. aveva intimato il licenziamento per raggiungimento dei limiti di età. Deduceva che il recesso era da ritenersi illegittimo perché irrogato nonostante l’esercizio del diritto di opzione rinnovato annualmente, secondo i dettami di cui all’art. 3 c. 7 d.l. n. 64/2010 convertito in legge n.100/2010. Chiedeva, quindi, disporsi la reintegra nel posto di lavoro e la condanna della F. al risarcimento del danno.
All’esito della fase sommaria, il giudice adito respingeva il ricorso con pronuncia che veniva confermata in sede di opposizione.
Avverso tale decisione la lavoratrice interponeva reclamo ex art. 1 comma 58 l. 92/2012 che veniva rigettato dalla Corte distrettuale.
Nel pervenire a tali conclusioni il giudice dell’impugnazione – dopo aver rilevato la ammissibilità del reclamo, in quanto tempestivamente proposto nel termine ordinario di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza in applicazione dell’art. 61 l. 92/2012 – a fondamento del decisum osservava che l’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 convertito in legge n. 100/2010, andava interpretato nel senso che per i lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini, i quali alla data dell’entrata in vigore della legge (1/7/2010) avevano raggiunto l’età pensionabile di 45 anni, potevano entro due mesi dalla data di entrata in vigore della disposizione o tre mesi dal perfezionamento del diritto alla pensione, esercitare l’opzione rinnovabile annualmente, per restare in servizio sino al limite di 47 anni per le donne e 52 per gli uomini.
La Corte opinava che siffatta disposizione non potesse vulnerare i principi di non discriminazione fra uomini e donne sancito dagli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla direttiva 2006/54 CE, oltre a quella italiana di cui all’art. 30 d. Igs. n. 198/2006, considerata la natura meramente transitoria della disposizione legislativa scrutinata, che solo per un limitato periodo di tempo manteneva una differenza di età pensionabile fra uomini e donne al fine di consentire “la riorganizzazione e il riassetto datoriale e pensionistico”, con prescrizione in sé non irragionevole né discriminatoria.
La cassazione di tale pronuncia è domandata da C. P. sulla base di unico articolato motivo.
Resiste con controricorso la F. T. dell’O. di Roma la quale spiega ricorso incidentale condizionato sostenuto da tre motivi successivamente illustrati da memoria.
La ricorrente principale ha quindi depositato controricorso notificato ex art. 371 comma 4 c.p.c. e memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Con ordinanza interlocutoria del 9/3/2017 questa Corte ha sollevato ex art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, innanzi alla Corte di Giustizia, questione pregiudiziale sulla conformità dell’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 convertito in l. 100/2010, ai principi di non discriminazione (per ragioni di genere) fra uomini e donne quale espresso dalla direttiva 2006/54 e dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Con ordinanza in data 7 febbraio 2018 l’adita Corte ha dichiarato che l’art. 14 par. l lett. C) della direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5/7/2006 riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale, come quella prevista dall’art. 3 comma 7 d.l. n. 64 del 30/4/2010 conv. in legge n. 100 del 29/6/2010 introduce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata da tale direttiva.
Entrambe le parti hanno depositato ulteriori memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Prioritaria in ordine logico, è la disamina del ricorso incidentale interposto dalla F. T. dell’O. di Roma.
Come le Sezioni Unite insegnano, qualora la parte, interamente vittoriosa nel merito, abbia proposto ricorso incidentale avverso una statuizione a lei sfavorevole, relativa ad una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione deve esaminare e decidere con priorità tale ricorso, senza tenere conto della sua subordinazione all’accoglimento del ricorso principale, dal momento che l’interesse al ricorso sorge per il fatto stesso che la vittoria conseguita sul merito è resa incerta dalla proposizione del ricorso principale e non dalla sua eventuale fondatezza e che le regole processuali sull’ordine logico delle questioni da definire – applicabili anche al giudizio di legittimità (art. 141, primo comma, disp. att. cod. proc. civ.) – non subiscono deroghe su sollecitazione delle parti (vedi Cass. S.U. 23/5/2001 n. 212 cui adde, ex plurimis, Cass. 24/1/2008 n. 1582, Cass. 9/9/2008 n. 23113).
2. Il primo motivo del ricorso incidentale sollevato dalla F. T. dell’O. di Roma denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1 commi 58-61-64 L. 92/2012 e degli artt.134-136-281 sexties e 327 c.p.c. Si critica la sentenza impugnata per aver rigettato l’eccezione di decadenza dalla proposizione del reclamo ai sensi del comma 58 art. 1 legge 28/6/2012 n. 92.
Si sostiene che il dies a quo per la decorrenza del termine di impugnazione, coincida con la data della lettura in udienza della sentenza che, ai sensi dell’art.281 sexties cod. proc. civ., si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice, del verbale che la contiene. Nell’ottica descritta, posto che la sentenza del giudice di prima istanza era stata pronunciata e pubblicata, mediante lettura integrale, all’udienza del 10/3/2015, il reclamo interposto dalla lavoratrice in data 24/7/2015, era da ritenersi tardivo perché formulato oltre il termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza, in coerenza con i dettami di cui all’art. 1 comma 58 L. 92 del 2012.
3. Il motivo è privo di fondamento. Non può sottacersi, in via di premessa, che in base ai principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, il termine breve d’impugnazione previsto dall’art.325 cod. proc. civ., decorre dalla notificazione della pronuncia anche per le sentenze emesse ex art. 281 sexies cod. proc. civ., non potendosi ritenere equipollente alla notificazione, in quanto atto ad istanza di parte, la lettura del dispositivo e della motivazione in udienza che, unitamente alla sottoscrizione del verbale contenente il provvedimento da parte del giudice, caratterizza tale tipologia di sentenze (cfr. Cass. 19/9/2014 n. 19743).
Dal combinato disposto dell’art. 326 c.p.c. (che dispone che i termini brevi per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c., decorrono dalla notificazione della sentenza, tranne che per i casi previsti dalla stessa norma che qui non rilevano) e dell’art. 285 c.p.c. (che disciplina la modalità di notificazione della sentenza) emerge con evidenza che l’impugnazione deve essere proposta entro il termine breve soltanto se è intervenuta, a seguito di istanza di una della parti in causa, la notifica da parte dell’ufficiale giudiziario della sentenza impugnata e che, in mancanza di tale notifica, l’impugnazione invece va proposta entro il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c.
Il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., per impugnare una sentenza postula, infatti, una conoscenza “legale” della sentenza e, quindi, decorre, di regola, secondo quanto previsto dall’art. 326 c.p.c., comma 1, dalla notificazione ai sensi degli artt. 285 e 170 c.p.c., a meno che la proposizione della stessa o di altra impugnazione abbia determinato il decorso del termine per chi l’ha proposta e le altre parti, ai sensi del capoverso dell’art. 326 c.p.c., (cfr. Cass., Sez. Unite, 9/6/2006, n.13431).
Nell’ottica descritta è stato quindi affermato che la disposizione di cui all’art. 281 sexties, prevedendo che il giudice, al termine della discussione, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione (comma 1) e che in tal caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria (comma 2) – introduce una deroga all’art. 133 c.p.c., il quale dispone che la sentenza è pubblicata mediante deposito in cancelleria, ma non lascia intendere, neppure implicitamente, che sia stato derogato anche il disposto dell’art. 326 c.p.c., (nel senso, cioè, che la lettura del dispositivo equivalga anche alla sua notificazione) o dell’art. 327 c.p.c., (nel senso, cioè, di rendere inapplicabile il termine “lungo” nell’ipotesi in cui sia stata adottata tale forma di decisione).
Con specifico riferimento al rito del lavoro, ed ai dettami della legge n. 92 del 2012, questa Corte ha quindi ribadito siffatti principi, affermando che il termine di trenta giorni previsto dall’art. 1, comma 51, della I. n. 92 del 2012, per l’opposizione avverso l’ordinanza, di accoglimento o di rigetto, di cui al comma 49 dello stesso articolo, decorre dalla comunicazione del provvedimento o dalla notificazione dello stesso senza che rilevi all’esito dell’udienza ne sia stata data lettura, dovendosi escludere la possibilità di una decorrenza da un momento diverso da quello previsto dalla legge (vedi Cass. 20/9/2016 n. 18403).
Al lume delle sinora esposte considerazioni, deve, pertanto, ritenersi conforme a diritto la statuizione del giudice di prima istanza che, in applicazione del comma 61 art. 1 l. 92/2012, in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza, ha ritenuto applicabile alla fattispecie il termine di impugnazione di cui all’art.327 c.p.c., pervenendo ad un giudizio di ammissibilità del reclamo, perché interposto entro il termine semestrale sancito dalla richiamata disposizione.
4. Con il secondo ed il terzo motivo si prospetta violazione dell’art. 4 comma 4 d.lgs. n. 182/1997 come modificato dall’art. 3 c. 7 L. 64 del 2010 conv. in I. 100 del 2010, nonché dell’art. 132 c.p.c.
Si deduce la decadenza della lavoratrice dal diritto azionato per mancato tempestivo esercizio dell’opzione, offrendosi una esegesi della disposizione nel senso che, una volta esercitata detta opzione nei termini di decadenza indicati dalla norma (due mesi dalla entrata in vigore della disposizione o almeno tre mesi prima del perfezionamento del diritto a pensione), essa doveva essere rinnovata annualmente, decorrendo tale termine dal momento di effettiva proposizione dell’istanza. Nello specifico, i rinnovi sarebbero intervenuti successivamente al decorso dell’anno dall’esercizio del diritto di opzione; né la lavoratrice avrebbe offerto prova della avvenuta ricezione da parte dell’Enpals, della opzione esercitata.
Inoltre, mancando un termine esterno “finale” all’esercizio del diritto potestativo di opzione, si deduce che il legislatore abbia inteso precludere l’esercizio di tale diritto e, in definitiva, la permanenza in servizio del lavoratore, una volta conclusosi il biennio dalla entrata in vigore della norma. Erronei erano, quindi da ritenersi gli approdi ai quali era pervenuto il giudice del gravame, il quale aveva interpretato la possibilità di rinnovare annualmente l’opzione di permanenza in servizio, prevista dalla legge, anche oltre i due anni successivi alla data della sua entrata in vigore.
5. Le censure, da trattarsi congiuntamente siccome connesse, non sono condivisibili.
Conformi a diritto sono, infatti, le osservazioni svolte dai giudici del gravame i quali hanno in buona sostanza rimarcato che le questioni sollevate dalla F., con riferimento alla decadenza dall’esercizio del diritto, risultavano incompatibili con il comportamento concludènte assunto dalla F. medesima, la quale aveva consentito la permanenza in servizio della lavoratrice ben oltre il biennio alla entrata in vigore della legge, e nonostante la pretesa tardività dell’esercizio del diritto di opzione rispetto al termine annuale previsto.
Ed invero, il comportamento – interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. – del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, è idoneo come tale (essendo irrilevante qualificarlo come rinuncia tacita ovvero oggettivamente contrastante con gli anzidetti principi) a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva (Cass. 28/4/2009 n. 9924, Cass. 8/4/2016 n. 6900).
Si è sostenuto al riguardo che si ha la preclusione di un’azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di stretto diritto, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenerne l’abbandono. Che poi di questo comportamento rilevi l’atteggiamento soggettivo di rinuncia tacita ovvero la valutazione oggettiva, resa dall’interprete, di non conformità alla correttezza o alla buona fede, tutto ciò non importa ai fini del risultato finale di perdita della situazione di vantaggio. E così, ad esempio il ritardo nella contestazione dell’addebito disciplinare produce la perdita del potere di licenziare per giusta causa (Cass. 10/11/1997 n. 11095), così come il ritardo nell’esercizio del diritto può portare, nell’insieme delle specifiche circostanze, a ravvisare una tacita rinuncia (cfr. Cass. 15/3/2003 n. 5240, 26/2/2004 n. 3861, 26/6/2008 n. 13549).
La circostanza che, nello specifico, la F. abbia consentito il protrarsi del rapporto per circa un biennio successivo al preteso termine ultimo di permanenza in servizio, appare inidonea ad inficiare la ritualità dell’esercizio del diritto di opzione da parte della lavoratrice, sostenuta dalla parte datoriale, onde la statuizione, conforme a diritto per quanto sinora detto, resiste alle censure all’esame.
Discende, dalle superiori argomentazioni, il rigetto del ricorso incidentale.
6. Con unico motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione del comma 7 art. 3 d.l. n. 64/2010 conv. in legge n. 100/2010 in relazione all’art. 30 comma 1 d.lgs. 198/2006, all’art. 157 T.F.U.E., alle direttive 78/2000 e 54/2006 ed al d. Igs. n. 5/2010 nonché in relazione agli artt. 3 e 37 Cost.
Deduce invero, che il discrimen operato dall’art. 3 comma 7 d.l. n. 64/2010 conv. in I. n. 100/2010 vulnera il principio di parità di trattamento fra uomo e donna sancito dall’art. 21 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; il principio di cui all’art. 157 T.F.U.E. che sancisce quello di parità retributiva fra uomini e donne; la direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomo e donna in materia di occupazione e di impiego.
7. Il motivo è fondato alla stregua delle considerazioni di seguito esposte.
Nel proprio incedere argomentativo, la Corte di Lussemburgo, richiamando precedenti approdi (v., in particolare, sentenza del 18 novembre 2010, Kleist, C-356/09, EU:C:2010:703) ha chiarito che la nozione di «licenziamento» prevista dall’articolo 14, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/54 deve essere intesa in senso ampio, comprendendo anche la cessazione del rapporto di lavoro per il raggiungimento del limite di età fissato dalla normativa nazionale.
Nell’ottica descritta ha ribadito, per quanto riguarda la direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), abrogata dalla direttiva 2006/54, che una politica generale la quale contempli il licenziamento di una lavoratrice per il solo motivo che essa ha raggiunto o superato l’età alla quale ha diritto ad una pensione di vecchiaia, che è diversa per gli uomini e per le donne ai sensi della normativa nazionale, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso vietata dalla direttiva 76/207 (sentenza del 18 novembre 2010, Kleist, C-356/09, EU:C:2010:703, punto 28).
In tale contesto, non può, infatti, essere identificata alcuna circostanza tale da conferire alla situazione dei lavoratori di sesso femminile un carattere specifico rispetto a quella dei lavoratori di sesso maschile giustificando una disparità di trattamento come quella di cui trattasi, non assumendo rilievo ai fini descritti, la volontà del legislatore di non esporre i lavoratori interessati ad un cambiamento repentino, in senso restrittivo, del pregresso regime di mantenimento in attività.
Ha quindi concluso, con riferimento alla normativa nazionale transitoria oggetto del presente scrutinio, nei sensi innanzi descritti, affermando che il licenziamento per raggiungimento dei limiti di età di 47 anni per le donne, è da considerarsi come licenziamento discriminatorio, poiché integra una discriminazione diretta per ragioni di sesso, al quale non possono opporsi legittime deroghe per finalità sociale o di interesse pubblico (punti nn. 38 e 39 della ordinanza della CDG).
8. Questa Corte ritiene non opportuno (salve le determinazioni del giudice di appello che dovrà dare effettività al decisum della Corte di giustizia disapplicando la normativa interna che realizza una disparità di trattamento tra ballerini e ballerine) seguire l’impostazione di cui alla sentenza n. 269/2017 della Corte costituzione (e quindi sollevare incidente di costituzionalità sul punto) in quanto in primo luogo la Corte ha già seguito la strada del rinvio pregiudiziale per valutare la compatibilità della normativa interna con il diritto dell’Unione cui la Corte di giustizia ha dato una univoca risposta positiva cui si tratta di dare effettività nel rispetto del principio costituzionale (e sovranazionale) del giusto processo, cui è demandato il giudice di merito.
9. In secondo luogo ritiene che il principio affermato nel punto 5.2 della citata sentenza (discussa in dottrina per i suoi effetti in ordine all’immeditato e tempestivo esercizio dei poteri che al Giudice ordinario attribuisce l’ordinamento dell’Unione onde garantire una pronta effettività ai diritti che sono garantiti a livello sovranazionale) costituisca un mero obiter dictum, in quanto la sentenza è (sul punto) di inammissibilità e sotto altro profilo di rigetto e quindi non ha natura obbligante per il Giudice ordinario offrendo solo una proposta metodologica.
10. In terzo luogo si rileva che, sebbene citata dalle parti e in sede di rinvio pregiudiziale, nello specifico la Carta dei diritti ed il suo art. 21 non hanno avuto alcun rilievo decisorio concreto, avendo la Corte di giustizia valutato il contrasto tra la normativa italiana pertinente ed il diritto dell’Unione, sulla base esclusiva dell’interpretazione dell’art. 14 direttiva 2006/54, peraltro in relazione alla precedente decisione Kleist, C-356/09 del 18 novembre 2010, che a sua volta non utilizza e richiama minimamente la disposizione della Carta dei diritti.
Pertanto il decisum della Corte di giustizia è rimasto ancorato saldamente all’esame della sola disposizione della direttiva (art. 14) il cui esame conduce alla valutazione di contrarietà della norma interna per discriminazione diretta per ragioni di sesso.
Di fatto la Carta è rimasta completamente estranea all’argomentazione della Corte del Lussemburgo ed ancor prima non è stata utilizzata come fonte primaria del diritto UE: pertanto si ricade nell’ambito del caso esaminato nella 111/2017 della Corte costituzionale (in un caso non molto dissimile di allegata discriminazione per ragioni di sesso), nel quale si è stabilito (il che poi è stato confermato nella stessa 269/2017) che il Giudice ordinario, prima di sollevare incidente di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 cost. per violazione del diritto dell’Unione, deve valutare la possibilità di disapplicare (secondo i criteri ordinari) la norma interna rientrando questo compito tra i suoi essenziali poteri.
Si auspica peraltro che la Corte delle leggi voglia apportare comunque chiarimenti in futuro su un punto rimasto comunque oscuro (anche se non rileva nel caso in esame per quanto sopra ricordato) e cioè su cosa debba fare il giudice ordinario allorché la tutela invocata operi attraverso il combinato disposto tra le direttive e le disposizioni della Carta dei diritti, posto che le prime dovrebbero essere interpretate anche alla luce della seconda che ne costituisce in realtà un parametro di legittimità sostanziale.
11. Ritiene la Corte che non siano fondati, peraltro, gli argomenti di cui alle note della F. T. dell’O., in quanto la norma sul punto qui in discorso è chiaramente autoapplicativa, poiché proibisce in caso di licenziamento (come deve essere considerato l’atto di recesso alla luce della decisione della Corte di giustizia) qualsiasi differenza di trattamento fondata sul sesso sicché gli stati certamente potevano godere di discrezionalità sia nello stabilire l’età pensionabile che nell’ approntare norme transitorie ma non potevano stabilire un diverso trattamento per uomini e donne circa le modalità di risoluzione del rapporto.
Va peraltro ricordato che alla luce della sentenza n. 153/2011 della Corte costituzionale gli enti lirici ancorché privatizzati (come confermato dal Cass. S.U. 29/12/2016 n. 27465, che ha precisato la pacifica giurisdizione del G.O. con riferimento alla disciplina della procedura selettiva indetta da un ente teatrale), mantengono carattere pubblicistico e quindi sono destinatari diretti delle norme auto applicative delle direttive, per cui non sembrano porsi questioni di applicabilità orizzontale della disposizione qui in esame (peraltro non esplicitamente sollevati nelle note ricordate). Infatti, la dimensione unitaria dell’interesse pubblico perseguito, nonché il riconoscimento della “missione” di tutela dei valori costituzionalmente protetti dello sviluppo della cultura e della salvaguardia del patrimonio storico e artistico italiano, confermano, sul versante operativo, che le attività svolte dalle fondazioni lirico-sinfoniche sono riferibili allo Stato ed impongono, dunque, che sia il legislatore statale, legittimato dalla lett. g ) del secondo comma dell’art. 117 Cost., a ridisegnarne il quadro ordinamentale e l’impianto organizzativo.
La disposizione di cui all’art. 14 della direttiva 2006/54/CE, self-executing per quanto sinora detto, non consente che si disponga applicazione della norma di diritto interno (secondo i criteri generali fissati dalla Corte di Giustizia e recepiti dalla Corte delle leggi dalla sentenza Granital in poi), la quale introduce una discriminazione fondata sul sesso, da essa vietata:
In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso proposto dalle lavoratrici deve essere accolto.
12. La sentenza impugnata va, quindi, cassata con rinvio alla Corte distrettuale designata in dispositivo la quale provvederà, attenendosi agli enunciati principi di diritto, anche in ordine alle spese del presente giudizio e di quello (incidentale) svolto innanzi alla Corte di Giustizia Europea.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente F. T. dell’O. Roma, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio e di quello svolto innanzi alla Corte di Giustizia Europea.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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