Corte di Cassazione, sez. III, ordinanza n. 12910 depositata il 22 aprile 2022
Responsabilità civile – Responsabilità della pubblica amministrazione – Assunzione di lavoratori a tempo indeterminato – Sgravi contributivi di cui alla legge reg. sic. n. 30 del 1997 – Mancata istruzione delle istanze relative alle assunzioni successive al 31.12.1999 – Responsabilità dell’Assessorato regionale – Esclusione
FATTI DI CAUSA
1. La S.M. S.r.l. convenne in giudizio, nel 2007, avanti il Tribunale di Palermo, l’Assessorato del Lavoro, della Previdenza sociale, della Formazione professionale e dell’Emigrazione della Regione Sicilia chiedendone la condanna al pagamento della somma di € 22.632.907,65 (oltre interessi), pari all’importo degli sgravi contributivi cui deduceva di aver diritto ai sensi dell’art. 5 legge reg. Sicilia 7 agosto 1997, n. 30, per l’assunzione di unità lavorative nell’ambito di contratti di formazione lavoro per le annualità 2001 – 2003; instava, in subordine, per la condanna dell’ente convenuto al risarcimento del danno, per la mancata concessione dell’autorizzazione allo sgravio.
Con sentenza n. 1084/2013 del 12 marzo 2013, il tribunale rigettò le domande, avendo ritenuto non provato il fondamento del diritto fatto valere, avuto riguardo alla Decisione della Commissione Europea del 15 maggio 2003 che aveva autorizzato lo sgravio contributivo solo per le assunzioni non connesse ad un’operazione di investimento.
2. Con sentenza n. 1249/2018, depositata l’11 giugno 2018, la Corte d’appello di Palermo ha confermato tale decisione, rigettando il gravame interposto dalla società e condannandola alle spese del grado.
Conformemente al primo giudice ha, infatti, ritenuto che l’amministrazione avesse correttamente applicato la normativa regionale alla luce delle Decisioni Comunitarie intervenute in materia, in tal senso in particolare evidenziando che:
— con Decisione del 4 Luglio 2002 la Commissione Europea aveva approvato il rifinanziamento degli sgravi contributivi di cui alla legge reg. n. 30 del 1997 per il periodo 2000-2006 limitatamente alla parte “A” del regime; richiamandosi ad essa l’assessorato, con raccomandata a.r. del 29 aprile 2003, aveva comunicato che le agevolazioni contributive erano consentite limitatamente «ai posti di lavoro non connessi all’investimento»;
— con successiva comunicazione del 9 settembre 2005, lo stesso ente, facendo ancora riferimento alle Decisioni Comunitarie, aveva confermato che «l’attuale normativa regionale limita il beneficio alle assunzioni e trasformazioni fino alla data del 31 dicembre 1999»;
— nella prima occasione l’assessorato aveva anche precisato che la mancata disamina delle istanze di autorizzazione allo sgravio contributivo era dipesa dalla insufficienza delle risorse finanziarie poste a carico dei bilanci regionali per gli anni 2000 e 2001 e dalla mancata previsione di stanziamento nel bilancio della Regione Sicilia, a carico del capitolo di pertinenza, per l’esercizio finanziario 2002;
— l’autorizzazione della spesa limitatamente alle assunzioni compiute sino al 31 dicembre 1999, con il conseguente esaurimento degli appositi fondi di bilancio per gli impieghi successivi, costituisce «legittima causa di impedimento della erogazione del beneficio»;
— la società appellante avrebbe potuto beneficiare degli sgravi contributivi, a norma dell’art. 5 della legge reg. cit., solo se avesse provato che le assunzioni effettuate negli anni 2001-2003 non erano collegate ad investimenti, trattandosi di elemento costitutivo del diritto azionato.
Ha quindi osservato che tale prova non era stata offerta, a nulla rilevando che si trattava di provare un fatto negativo, e che anzi l’esistenza di un collegamento tra le assunzioni e le operazioni di investimento aziendale era stata sostanzialmente riconosciuta dalla società in una nota del 15 aprile 2003, con la quale, rivolgendosi all’Assessorato regionale del lavoro, Agenzia per l’impiego, essa aveva precisato che «tutte le assunzioni della … azienda in Sicilia sono in genere complementari a nuovi investimenti di ampliamento del sito nell’isola».
Ha infine confermato anche il rigetto della subordinata domanda risarcitoria su base extracontrattuale sul rilievo che «l’impossibilità, allo stato degli atti, di determinare se e in che misura le assunzioni effettuate negli anni 2000-2003 da STM fossero collegate ad investimenti o meno ha giustamente indotto il primo giudice a reputare … privo di riscontro il danno che sarebbe derivato dal mancato esame delle istanze».
3. Per la cassazione di tale sentenza la S.M. S.r.l. propone ricorso, articolando sei motivi, cui resiste l’assessorato regionale, depositando controricorso.
La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ..
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Il controricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 5, 15 e 16 legge reg. Sicilia 7 agosto 1997, n. 30.
Sostiene che proprio alla luce delle citate disposizioni della legge regionale, il diritto all’erogazione degli incentivi de quibus non poteva considerarsi condizionato alla dimostrazione, ad onere dell’istante, che le assunzioni non fossero connesse ad investimenti, ma doveva al contrario ritenersi automaticamente sorto «con decorrenza dalla data di presentazione dell’istanza» (art. 15-ter legge reg. cit.), purché la stessa fosse corredata dalla documentazione comprovante il possesso dei requisiti fissati dalla legge e in particolare da apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà del datore di lavoro, attestante il possesso dei requisiti da parte del richiedente. Spettava invece all’amministrazione concedente l’onere di «svolgere un programma annuale di controlli tesi alla verifica dell’esistenza e della permanenza dei requisiti previsti per usufruire degli incentivi» (art. 16 legge reg. cit.).
Ciò sarebbe anche confermato dal successivo art. 18, prevedente le sanzioni applicabili ove fosse riscontrata «alternativamente o cumulativamente, la inesistenza o la non permanenza dei requisiti di cui agli articoli 3, 4 e 5».
Anche in sede processuale, pertanto, avrebbe dovuto ritenersi pienamente assolto l’onere probatorio su di essa incombente attraverso la produzione delle istanze con le allegate dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà attestanti il possesso dei requisiti, redatte ai sensi dell’art. 21 d.P.R. n. 445 del 2000.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. «con riferimento alla prova di fatti negativi».
Premesso che l’assessorato non aveva mai specificatamente contestato che le assunzioni operate fossero connesse ad un qualsivoglia investimento e, comunque, non aveva mai indicato la sussistenza di un ipotetico investimento al quale tali assunzioni fossero astrattamente riconducibili, rileva che essa aveva impugnato la sentenza di primo grado non già perché il giudice avesse ritenuto non fornita una prova negativa, ma perché si pretendeva di dover provare un fatto negativo (ossia, la non connessione delle assunzioni con l’operazione di investimento) senza, però, indicare in sentenza quale sarebbe stata la presunta operazione di investimento, eventualmente risultante dall’istruttoria processuale, in relazione alla quale l’attrice avrebbe dovuto provare la mancata connessione.
Lamenta quindi che la Corte d’appello, non avendo colto tale significato della censura, si è inutilmente limitata sul punto a richiamare il principio affermato da Cass. 09/06/2008, n. 15162 (secondo cui «la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere» e tuttavia «non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo»), dal momento che tale principio avvalorava anzi la sua tesi censoria.
Argomenta in tal senso che essa aveva, infatti, offerto elementi da cui trarre induttivamente l’assolvimento di detto onere probatorio, rappresentati, in tesi, da un lato, dalla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà presentata in allegato ad ogni istanza e, dall’altro, dal fatto che le diverse verifiche condotte dall’Ispettorato con riferimento alle precedenti cinque istanze già autorizzate, non avevano mai riscontrato alcuna connessione tra le assunzioni effettuate e gli investimenti in ipotesi coevamente realizzati dalla società, con ciò dimostrandosi, se non altro in via presuntiva, la regolarità anche delle assunzioni successive per cui è causa.
Sotto altro profilo, e con riferimento al criterio di vicinanza della prova, la ricorrente lamenta l’irragionevolezza della regola di giudizio applicata dai giudici di merito, che pone l’onere della prova a carico di chi aveva maggiori difficoltà a procurarsela e non invece a carico della parte che, nella specie, aveva l’obbligo di procedere a verifiche e controlli.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 167 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., «in relazione alla mancata applicazione del principio di non contestazione».
Rileva che l’Amministrazione resistente non aveva mai formulato alcuna eccezione e/o contestazione specifica sulla presunta mancanza dei requisiti per l’ottenimento dello sgravio, tanto meno con riferimento alla «non connessione» con investimenti delle assunzioni per le quali esso era stato chiesto.
Soggiunge che, con il primo motivo d’appello, essa aveva contestato «in sostanza» che il giudice di primo grado aveva fondato la propria decisione facendo riferimento ad un presunto investimento mai eccepito da parte avversa e del quale, quindi, non esisteva alcuna traccia nell’istruttoria processuale.
Lamenta quindi che la corte territoriale, aderendo in modo acritico alle argomentazioni del tribunale, ha totalmente disatteso tali circostanze, ritenendo anch’essa priva di prova la domanda, nonostante la mancata contestazione specifica dei fatti posti a fondamento della stessa.
4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., «violazione o falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 2697 cod. civ. ed agli artt. 5, 15 e 16 della legge reg. Sicilia 7 agosto 1997, n. 30», per avere la Corte d’appello posto a fondamento del proprio convincimento anche il menzionato atto di interpello datato 15 aprile 2003, attribuendogli un significato ed un tenore (quello, dell’ammissione dell’esistenza di un collegamento tra le assunzioni e le operazioni di investimento aziendale) esattamente contrario al suo contenuto.
Afferma che quella nota, come precisato nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado e poi ribadito anche con l’atto di appello, si riferiva in realtà, nella parte menzionata, ad un ulteriore e diverso contributo riconosciuto dalla Regione Sicilia con legge reg. n. 9 del 2002, che, per espressa previsione dell’art. 1, «non si cumula con le provvidenze di cui alla legge reg. 7 agosto 1997, n. 30, e successive modifiche ed integrazioni», ed osservava inoltre che in essa si faceva riferimento ad un generico concetto di complementarità di tutte le assunzioni a nuovi investimenti, mentre il più volte citato discrimine introdotto dalla Commissione Europea per l’applicabilità della legge reg. n. 30 del 1997 si riferisce alle assunzioni «connesse» ad operazioni di investimento.
Rileva che la distinzione tra i due concetti era stata fornita dalla stessa Commissione UE che, in una comunicazione dell’8 ottobre 2002, aveva precisato che «ai sensi del punto 4.11 degli orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionale (G.U.C.E. C74 del 10 marzo 1998), si ritiene che un posto di lavoro sia connesso con la realizzazione di un investimento quando riguarda l’attività per la quale è stato effettuato l’investimento e venga creato nel corso dei tre anni successivi alla realizzazione integrale dell’investimento».
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 cod. civ. e degli artt. 5, 15 e 16 della legge reg. Sicilia 7 agosto 1997, n. 30, in relazione al rigetto della domanda subordinata di risarcimento del danno.
Premesso che con il quarto motivo di appello essa aveva censurato il rigetto della subordinata domanda risarcitoria poiché motivato, in modo contraddittorio, carente e comunque errato in diritto, sul solo rilievo che era rimasto «privo di riscontro il danno che sarebbe derivato dal mancato esame delle istanze», lamenta che la corte di appello si è sul punto limitata a riportare per intero le stesse argomentazioni, incorrendo nel medesimo errore.
Rammenta che la tesi esposta nell’atto introduttivo era che l’assessorato — avendo omesso di procedere alle verifiche e controlli sulla sussistenza dei requisiti ed avendo omesso, comunque, nelle more del completamento di dette verifiche, di procedere all’immediata autorizzazione allo sgravio o all’erogazione diretta dei benefici — aveva con ciò stesso dato «luogo all’illegittimo inadempimento del suo obbligo nascente ex lege di consentire l’erogazione e la fruizione dei contributi in argomento, conseguentemente cagionando un danno ingiusto»: danno da considerarsi in re ipsa e da commisurarsi all’entità dei contributi versati dalla società all’ente previdenziale e non rimborsati dall’Assessorato, comprensivi di interessi e rivalutazione.
Ciò premesso, lamenta che erroneamente entrambi i giudici di merito hanno disatteso tale domanda per mancata prova del danno pur avendo espressamente riconosciuto il colpevole inadempimento dell’assessorato.
6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., «nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.».
Premette che con l’atto di appello aveva chiesto, in via preliminare, che fosse espunta o, comunque, non utilizzata ai fini del decidere la memoria autorizzata di controparte datata 15 febbraio 2008 (in allegato alla quale controparte aveva prodotto anche la già menzionata nota del 15 aprile 2003, poi valorizzata ai fini della decisione), poiché — come eccepito nella propria memoria integrativa ex art. 183, comma sesto, num. 2, cod. proc. civ. del successivo 6 marzo 2008 — depositata da controparte in aperta violazione di tale disposizione; soggiunge di avere anche precisato, nell’appello, che su tale specifica eccezione preliminare, ribadita oralmente in udienza ed in ultimo in comparsa conclusionale, il primo giudice aveva omesso di pronunciarsi.
Ciò premesso, lamenta che anche la corte di appello ha totalmente omesso di valutare e decidere sul punto.
7. Il primo motivo è infondato.
La tesi che ne è posta a fondamento si appalesa infatti contraddittoria e comunque certamente implausibile in punto di diritto.
La stessa ricorrente non sembra contestare che, alla luce delle decisioni della Commissione Europea intervenute in materia, il beneficio richiesto presupponga che l’assunzione di lavoratori non sia connessa ad un’operazione di investimento. Essa invero si imita a sostenere che non spetterebbe all’istante dar prova di tale presupposto, ma piuttosto all’amministrazione (la quale avrebbe l’obbligo di soddisfare la richiesta per effetto della mera presentazione dell’istanza) di provarne l’insussistenza, all’esito dei dovuti controlli, applicando, nel caso, le previste sanzioni (una sorta di solve et repete).
7.1. Una tale ricostruzione rivela la sua insostenibilità già negli argomenti che ne sono posti a fondamento, esclusivamente fondati su una lettura del testo di alcune norme della legge regionale n. 30 del 1997, che si appalesa in sé superficiale e del tutto opinabile.
Prevedere, infatti, che l’erogazione del beneficio debba avere decorrenza dalla data di presentazione dell’istanza (art. 15-ter) non significa certo che, ai fini del riconoscimento dello stesso, si possa o si debba prescindere dalla valutazione della sussistenza dei suoi presupposti; allo stesso modo, prevedere che l’amministrazione abbia l’obbligo di procedere a controlli annuali diretti alla verifica dell’esistenza e della permanenza di detti presupposti (art. 16), non significa certo che spetti, nel momento iniziale del vaglio della domanda, anche all’amministrazione ricercare la prova della loro insussistenza; né significa che il diritto possa solo essere negato a posteriori, attraverso la ripetizione di quanto, in tesi, andrebbe immediatamente concesso sulla base della sola domanda.
7.2. Ma soprattutto si tratta di lettura evidentemente avulsa da ogni considerazione, invece necessaria, delle decisioni della Commissione europea (successive alla legge regionale) e della loro rilevanza sul piano dell’esegesi e della applicazione del diritto interno. È noto, infatti, che la primazia del diritto dell’Unione all’interno degli Stati membri postula (ed obbliga il giudice nazionale ad) una interpretazione conforme delle norme interne, le quali anzi andranno disapplicate ove tale interpretazione conforme non sia possibile. Ciò in conformità all’articolo 4 n. 3 T.U.E. — che, come noto, obbliga gli Stati membri ad adottare «ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione» (v. Corte giust. Ord. 6 dicembre 1990, causa C-2/88, Imm., J.J. Zwartveld e altri, punto 10) — ed agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost..
Ne deriva che, una volta che sia affermata dalle fonti unionali, tra le quali rientrano le Decisioni della Commissione europea rese in materia, la compatibilità di un determinato beneficio con la disciplina in tema di aiuti di Stato (art. 87 T.U.E.) solo entro determinati limiti, il rispetto di questi ultimi va valutato alla stregua di presupposto del richiesto beneficio e non già quale mera ragione di eventuale revoca dello stesso beneficio e recupero del relativo esborso (o mancato incasso).
Accordare il beneficio senza la preventiva verifica della sua compatibilità alle norme comunitarie, ovvero affidando tale controllo solo ad un momento successivo con oneri a carico dell’amministrazione dello Stato membro, significherebbe infatti compromettere in gran parte l’effettività dell’applicazione del diritto unionale.
7.3. Al riguardo varrà evidenziare che la legge regionale 7 agosto 1997, n. 30, al titolo I reca disposizioni in materia di incentivi, sotto forma di sgravi contributivi, ai datori di lavoro che pongono in essere nuova occupazione aggiuntiva.
Le modifiche e le integrazioni legislative introdotte nel tempo anche a carattere finanziario (art. 8, legge reg. Sic. 19 agosto 1999, n. 18; art. 48 legge reg. 27 aprile 1999, n. 10; art. 18 legge reg. 23 dicembre 2000, n. 32; art. 4 legge reg. 31 marzo 2001, n. 2; art. 6, legge reg. 5 novembre 2001, n. 17) hanno comportato la relativa notifica alla Commissione della Comunità europea ai sensi degli artt.
87 e seguenti e successive modificazioni del trattato istitutivo della stessa Comunità.
L’efficacia delle misure in questione era, pertanto, subordinata all’autorizzazione ed agli eventuali vincoli posti dal predetto organo di controllo comunitario, anche relativamente al rifinanziamento del regime per il periodo 2000-2006.
Orbene, la Commissione europea con provvedimento del 4 luglio 2002, nell’autorizzare le predette modifiche, ha approvato il rifinanziamento degli sgravi contributivi ex lege regionali n. 30 del 1997 per il periodo 2000-2006 limitatamente alla parte cosiddetta “A”, relativa ad aiuti alla creazione di posti di lavoro non connessi ad un investimento.
Con decisione del 13 maggio 2003 la Commissione europea ha invece dichiarato incompatibile con il mercato comune la cosiddetta parte “B” del regime in questione concernente gli aiuti alla creazione di posti di lavoro connessi ad un investimento.
Conseguentemente gli sgravi contributivi ex lege reg. n. 30 del 1997 richiesti per la creazione di posti di lavoro connessi ad investimento non possono essere concessi, trattandosi di regime di aiuti per il quale l’organo di controllo comunitario non ha autorizzato l’esecuzione.
La ricaduta di tale quadro normativo sulla ricostruzione della fattispecie legale non può che essere quella per cui la «non connessione» ad un investimento della creazione di nuovi posti di lavoro debba intendersi quale elemento costitutivo del diritto all’agevolazione contributiva la cui sussistenza in concreta, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., va provata dal soggetto richiedente.
7.4. Quanto poi alla tesi secondo cui l’onere probatorio avrebbe dovuto considerarsi assolto attraverso la produzione delle istanze con le allegate dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà attestanti il possesso dei requisiti, redatte ai sensi dell’art. 21 d.P.R. n. 445 del 2000, è sufficiente rammentare – per rilevarne l’infondatezza – il principio costantemente affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, non ha attitudine certificativa e probatoria in sede giurisdizionale, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi (v. Cass. Sez. U. n. 12065 del 29/05/2014; v. anche, ex multis, Cass. n. 4556 del 26/02/2014; Cass. 10/05/2018, n. 11276; n. 26370 del 29/09/2021).
8. Il secondo motivo è in parte inammissibile, in altra parte infondata.
8.1. Nella parte in cui argomenta, peraltro in modo non perspicuo attorno alle implicazioni operative dell’essere la prova riferita a fatto negativo, la censura di violazione della regola sull’onere della prova non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, § 14, secondo cui «la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni»; v. anche Cass. n. 23594 del 2017, cit.; Cass. 17/06/2013, n. 15107).
La contestazione — peraltro generica e contraddittoria (da un lato infatti si dice che la prova della «non connessione» con investimenti non poteva essere data senza l’indicazione dei posti di lavoro cui riferirla, dall’altro si dice invece che essa doveva considerarsi adeguatamente offerta con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà e in via presuntiva ricavabile dall’esito negativo delle verifiche condotte con riferimento alle precedenti cinque istanze già autorizzate) — attiene infatti comunque al merito della valutazione operata circa l’assolvimento di tale onere e come tale impinge nel diverso piano della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell’onere probatorio.
8.2. Nella seconda parte, là dove intende trarre dal c.d. principio di «vicinanza della prova» argomenti per un opposto criterio di riparto dell’onere della prova, la censura (sostanzialmente ripetitiva a quella già svolta con il primo motivo) è bensì pertinente rispetto al tipo di vizio evocato, ma è manifestamente infondata.
L’attribuzione dell’onere della prova in capo alla società richiedente il beneficio è, infatti, come s’è detto, implicazione necessaria e coerente, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., della configurazione della fattispecie legale come attributiva alla «non connessione» dei nuovi posti di lavoro con operazione di investimento del ruolo di elemento costitutivo del diritto allo sgravio.
Non può condurre a diverso convincimento il generico richiamo al c.d. principio di vicinanza della prova.
8.2.1. Ci si potrebbe arrestare al riguardo al rilievo della intrinseca inconsistenza argomentativa, nella specie, di tale richiamo, non vedendosi ragione logica o empirica che possa giustificare il convincimento che la prova della connessione sia più agevole e vicina alla sfera di controllo dell’ente regionale, di quanto invece non lo sia per la società richiedente quella della «non connessione».
8.2.2. Appare opportuno tuttavia, più in generale, osservare — con acuta dottrina — che il c.d. principio di vicinanza della prova (definito, come noto, da Cass. Sez. U. 30/10/2001, n. 13533, come quel criterio per cui l’onere della prova deve essere «ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione») non autorizza deroghe alla regola di ripartizione dei temi di prova che impone all’attore la conferma dei fatti costitutivi della situazione attiva invocata e al convenuto la dimostrazione dell’inefficacia dei primi o dell’operare di fatti estintivi, modificativi o impeditivi.
Esso, dunque, è destinato a operare quando le disposizioni attributive delle situazioni attive non offrano indicazioni univoche per identificare i fatti costitutivi.
L’interprete deve, in tal caso, in primo luogo, sottoporre il testo agli strumenti di analisi della dogmatica al fine di sceverare gli elementi della fattispecie da considerare costitutivi, anche alla luce del confronto con le caratteristiche categoriali delle situazioni soggettive affini e di quelle diverse.
Di fronte a una pluralità di significati plausibilmente ricavabili dalla disposizione di riconoscimento dell’interesse di cui viene domandata tutela, l’interprete è chiamato a privilegiare quel senso che individua i fatti costitutivi in funzione della maggiore accessibilità ai relativi mezzi di prova da parte dell’attore.
Al cospetto, però, di scelte normative che, come nella specie, identificano in maniera inequivocabile i fatti costitutivi oppure di ragioni di ordine dogmatico che subentrano tanto più nel silenzio del legislatore, il principio di vicinanza della prova nulla può invece; e certamente esso non consente all’interprete di riscrivere la ripartizione operata dalla norma attributiva.
Il principio di vicinanza della prova dunque non si contrappone ma è anzi consustanziale alla regola di cui all’art. 2697 cod. civ., rispetto alla quale la vicinanza o riferibilità funge da criterio ermeneutico che aiuta nell’individuazione dei fatti costitutivi rispetto a quelli estintivi, modificativi o impeditivi, introducendo il canone per cui, nel rispetto delle possibili varianti di senso della disposizione attributiva della situazione soggettiva, i primi vanno identificati in quelli più prossimi all’attore e dunque nella sua disponibilità, mentre i secondi, tutt’al contrario, coincidono con quelli meno prossimi e quindi più facilmente suffragabili dal convenuto.
La vicinanza, in altre parole, riguarda la possibilità di conoscere in via diretta o indiretta il fatto e non già la possibilità concreta di acquisire la prova.
9. Anche il terzo motivo deve ritenersi inammissibile, sotto diversi profili.
9.1. Già il primo giudice, come detto, aveva rigettato la domanda per mancanza di prova del fatto costitutivo.
La violazione del principio di non contestazione avrebbe pertanto dovuto essere dedotta come motivo di gravame.
Nella illustrazione del motivo la ricorrente afferma di averlo proposto, ma trattasi di affermazione evidentemente generica (pretendendosi di ricavare la prospettazione di una simile doglianza in appello dal fatto che si era con il primo motivo contestata la motivazione della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto non provato detto fatto costitutivo) e, comunque, inosservante dell’onere di specifica indicazione dell’atto richiamato ex art. 366 n. 6 cod. proc. civ..
9.2. La sentenza d’appello ha poi confermato, come detto, la decisione di primo grado, proprio in ragione della mancanza di prova di quanto asserito (ed anzi, come detto, della emergenza di prova contraria), con ciò implicitamente ritenendo che da tale onere la società appellante non potesse ritenersi sollevata, ma senza tuttavia accennare al detto motivo di gravame con il quale si poneva la questione della non contestazione del fatto costitutivo.
Una tale sequenza deduttiva-argomentativa avrebbe dunque richiesto che, in questa sede, la doglianza (relativa alla mancata applicazione del principio di non contestazione) fosse veicolata da censura di omessa pronuncia su motivo di gravame: denunci che però non è dato rinvenire tra le pur varie considerazioni svolte in ricorso.
9.3. In ogni caso l’argomento censorio si rivela inosservante dell’onere di specificità imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., occorrendo al riguardo rammentare che il motivo di ricorso per cassazione con il quale si intenda denunciare l’omessa considerazione, nella sentenza impugnata, della assenza di contestazioni della controparte su una determinata circostanza, deve indicare specificamente il contenuto degli atti difensivi dai quali tale non contestazione possa evincersi, evidenziando in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto (v. e pluribus Cass. 22/05/2017, n. 12840; 31/08/2020, n. 18074); con la precisazione che tale onere di specifica indicazione avrebbe dovuto anche osservarsi con riferimento all’effettivo contenuto delle allegazioni di parte attrice: ricordato, infatti, che l’onere di contestazione riguarda i fatti allegati, nella specie, per potersi in astratto configurare, sarebbe stato necessario che a fondamento della domanda fosse stato anche dedotto il fatto negativo in questione ossia che si trattava di nuovi posti di lavori «non connessi» ad investimenti.
9.4. Infine, ma con valenza logica in realtà preliminare, va rilevato che per pacifica acquisizione il principio di non contestazione non opera ove si verta in tema di diritti indisponibili (cfr. Cass. n. 12287 del 18/05/2018), e tale certamente deve considerarsi quello di cui si discute, trattandosi di aiuto di Stato soggetto al rispetto della rigorosa disciplina comunitaria e di evidente rilievo pubblicistico.
10. Il quinto motivo è inammissibile.
Esso muove da una premessa interpretativa delle norme evocate secondo cui da esse dovrebbe trarsi l’obbligo, per l’amministrazione regionale, nelle more del completamento delle verifiche, di procedere all’immediata autorizzazione allo sgravio o all’erogazione diretta dei benefici.
Si tratta di una ricostruzione esattamente opposta a quella accolta in sentenza, della cui correttezza si è peraltro già detto, secondo cui, in buona sostanza, in assenza di prova che le assunzioni effettuate negli anni 2000-2003 da STM non fossero collegate ad investimenti, non poteva considerarsi sorto alcun diritto allo sgravio e non poteva pertanto configurarsi alcun danno.
Ebbene il motivo in esame ignora totalmente tale parte della motivazione, che nemmeno evoca, e pertanto non si fa carico di essa.
Si tratta, dunque, di motivo inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un motivo di impugnazione.
Devesi al riguardo richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.
In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un «non motivo», è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
11. Discende dalle esposte considerazioni l’assorbimento dei restanti motivi di ricorso (quarto e sesto).
Entrambi infatti investono, sotto diversi profili, l’alternativa ratio decidendi esposta in sentenza, rappresentata dalla ritenuta emergenza di prova positiva della «connessione» dei posti di lavori per i quali è chiesto lo sgravio con nuovi investimenti aziendali.
Quand’anche, infatti, dovesse riconoscersi la fondatezza delle censure e dovesse dunque elidersi dalla motivazione detto fondamento giustificativo, la decisione rimarrebbe tuttavia giustificata da quello alternativo (attinto dai primi tre motivi che si è detto infondati o inammissibili) rappresentato dal mancato assolvimento della società istante dell’onere della prova contraria (ossia della «non connessione») su di essa incombente.
12. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio.
13. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 25.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.