CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 marzo 2019, n. 8514
Tributi – Accertamento – Istanza di rimborso – Riscossione – Regime di tassazione – Disciplina agevolativa – Presupposti – Verifica
Fatti di causa
1. La Banca del F. S.p.A. ricorre con nove motivi avverso l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 249/38/11 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sezione n.38, emessa il 13 aprile 2011, depositata l’8 giugno 2011 e non notificata, che, in controversia relativa all’impugnativa del silenzio rifiuto dell’istanza di rimborso di Irpeg ed Ilor per l’anno 1996, versate sugli interessi corrisposti ex art. 1 I. n.313/1993, ritenuti non imponibili dalla contribuente, ha accolto l’appello dell’Ufficio.
2. Con la sentenza impugnata la C.T.R. del Lazio, contrariamente alla C.T.P. di Roma, che aveva accolto il ricorso della banca sul presupposto della non imponibilità degli interessi di cui alla legge n.313/1993, riteneva invece che tali interessi non godessero di alcuna specifica disciplina agevolativa, fossero diversi dagli interessi previsti dall’art. 31 d.P.R. n.601/73 (che originano da investimenti in titoli di Stato e sono esenti da imposta), fossero, quindi, assoggettati al regime di tassazione ordinaria, in forza del divieto di estensione analogica in tema di agevolazioni ed esenzioni fiscali.
3. La società ricorrente censura la sentenza della C.T.R. lamentando plurime violazioni di legge. In particolare, deduce l’inammissibilità
dell’appello per aver censurato solo una delle due autonome rationes decidendi della sentenza di primo grado, nonché la sostanziale equiparazione degli interessi di cui all’art. 1 legge n.313/1993, che avrebbero natura corrispettiva, e quelli di cui all’art.31 d.P.R.n.601/73, con la conseguente applicabilità del regime di esenzione ad entrambi.
4. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
5. La banca ricorrente ha depositato memorie.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo, la ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 4), c.p.c., la nullità dell’impugnata sentenza per omessa pronuncia sull’eccezione d’inammissibilità dell’appello, sollevata dalla Banca del F. S.p.a. nel proprio atto di controdeduzioni nel giudizio d’appello.
Nello specifico, secondo la ricorrente i Giudici di secondo grado avevano omesso del tutto di pronunciarsi sul motivo, proposto dalla Banca del F. S.p.a., nel proprio atto di controdeduzioni, relativo all’inammissibilità dell’appello dell’Ufficio derivante dalla circostanza che quest’ultimo si era limitato a censurare soltanto una delle due autonome rationes decidendi, su cui si fondava la sentenza di primo grado.
Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia l’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., consistente nell’inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, per omessa impugnazione di tutte le rationes decidendi, poste a fondamento della sentenza di primo grado.
Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione, ai sensi dell’art. 360, c. 1, n. 3), c.p.c., dell’art. 329, c. 2, c.p.c., per il mancato rilievo da parte della C.T.R. dell’inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, per omessa impugnazione di tutte le rationes decidendi, poste a fondamento della sentenza di primo grado.
1.2. i motivi sono connessi e vanno esaminati insieme;
il terzo è infondato, con conseguente inammissibilità del primo e del secondo;
1.3. Nella sentenza dei giudice di primo grado non vi erano due rationes decidendi da sole idonee a sostenere e giustificare la decisione, ma una sola ratio.
Con la sentenza n. 504/51/09, pronunciata il 14 ottobre 2009 e depositata il 17 dicembre 2009, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma accoglieva il ricorso, proposto dalla Banca del F., condannando l’Agenzia delle Entrate al rimborso della somma di 3.863.581,89 euro, oltre interessi, e alla rifusione delle spese processuali. I Giudici di primo grado, infatti, affermavano: “Gli interessi, percepiti relativamente al periodo intercorso tra il termine di scadenza dei titoli ed il termine di prescrizione decennale degli stessi, sono in esenzione di imposta, avendo la stessa natura degli interessi corrisposti sui titoli del debito pubblico, in quanto rappresentano il corrispettivo, che l’emittente paga, a fronte della prolungata disponibilità del capitale. […] La stessa Agenzia delle Entrate, dopo un iniziale parere favorevole, ha mutato avviso, negando il rimborso richiesto senza motivazione sostanzialmente valida, apparendo, più che altro, un ripensamento dettato dal timore di assumere la responsabilità di rimborsare”.
Invero, la C.T.P. di Roma non ha accolto il motivo di ricorso attinente alla violazione dell’art.10 L. n.212/00 e le ulteriori argomentazioni (sulla assenza di una motivazione valida per il diniego di rimborso) hanno valore meramente rafforzativo dell’unica ratio decidendi (sostanziale equiparabilità degli interessi, che avrebbero natura corrispettiva, ed estensibilità del regime di esenzione), chiaramente espressa nel provvedimento a supporto della decisione adottata.
Di conseguenza, essendo infondato il terzo motivo, sono inammissibili il primo ed il secondo per assoluta carenza di interesse della ricorrente all’impugnazione.
E’ appena il caso di osservare che, comunque, il primo motivo sarebbe stato inammissibile, poiché, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, “il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo nel caso di mancato esame, da parte della sentenza impugnata, di questioni di merito, e non già nel caso di mancato esame di eccezioni pregiudiziali di rito. Pertanto la sentenza che si assuma avere erroneamente rigettato l’eccezione d’inammissibilità dell’appello non è censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 1701 del 23/01/2009 ; S.U. n.15982/01; Cass. n.3667/06; n. 1701/09; n.25154/2018).
Inoltre, sotto altro profilo, è stato anche detto che “non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Nella specie, la S.C. ha ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame)” ( Sez. 5 , Ordinanza n. 29191 del 06/12/2017).
Anche il terzo motivo, relativo al vizio di motivazione di cui all’art. 360 n.5 c.p.c., sarebbe stato comunque inammissibile, riguardando la motivazione in diritto (nel caso di specie, la motivazione attinente all’ammissibilità dell’appello) e non in fatto.
2.1. Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia, la violazione e falsa applicazione dell’art. 31, D.P.R. n. 601 del 1973, dell’art. 6, c. 2, D.P.R. n. 917 del 1986 e dell’art. 1, L. n. 313 del 1993, in relazione all’art.360, comma 1, n.3, c.p.c.
2.2. il motivo è infondato.
2.3. Giova premettere che ai sensi dell’art. 1, L. n. 313 del 1993, gli interessi maturati a seguito della procedura di ammortamento dei titoli di Stato, in caso di distruzione, smarrimento o furto di questi ultimi, sono dovuti, nella misura legale, qualora sia decorso il termine di prescrizione, senza che il titolo risulti rimborsato, ed il termine per la presentazione della istanza di rimborso decorre dalla intervenuta prescrizione dei titoli e delle cedole. Inoltre, ai sensi del secondo comma dell’art. 2006 c.c., chi denuncia all’emittente lo smarrimento o la sottrazione di un titolo al portatore e gliene fornisce la prova, ha diritto alla prestazione del titolo.
Con la sentenza n. 249/38/11, depositata l’8 giugno 2011, la Commissione Tributaria Regionale di Roma accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate ritenendo che gli interessi disciplinati dall’art. 31, D.P.R 601/1973, che originano da investimenti di titoli di Stato, fossero diversi da quelli previsti dall’art. 1 della L. 313/1993, che sono dovuti, invece, in base ad una puntuale e precisa previsione di legge e per i quali è previsto un diverso rendimento ed una differente disciplina giuridica. Si tratterebbe, secondo i Giudici di appello, di “fattispecie totalmente distinte: da un lato, i frutti scaturenti dai rimborsi dei titoli smarriti o trafugati, dall’altro, gli interessi direttamente scaturenti dagli investimenti in titoli di Stato.”
Infatti, “per gli interessi derivanti dall’art. 1 della L. 313/93 non è stata prevista alcuna disciplina speciale di favore a carattere agevolativo e, pertanto, in forza del divieto di estensione analogica della disciplina tributaria in tema di agevolazioni ed esenzioni fiscali, permane per essi la soggezione al regime giuridico ordinario di tassazione dei redditi di capitale.”
Secondo la ricorrente, la C.T.R si è limitata, in maniera apodittica, ad affermare la diversità degli interessi disciplinati dall’art. 31. D.P.R. n. 601 del 1973, rispetto a quelli previsti dall’art. 1, L. n. 313 del 1993, senza individuare la ratio legis del trattamento fiscale di favore né i motivi per cui lo stesso non potrebbe applicarsi a caso di specie.
In altri termini, il fatto che il legislatore abbia ritenuto opportuno disciplinare, con la L. n. 313 del 1993, il rimborso dei titoli del debito pubblico, la cui disponibilità viene meno per causa non imputabile alla volontà dell’emittente e del sottoscrittore, ed abbia previsto, quindi, la corresponsione di interessi, nella misura del saggio legale, per il periodo compreso tra il termine di scadenza e quello di prescrizione dei titoli stessi, deve essere valutato come espressione della volontà di continuare a riconoscere ai sottoscrittori un corrispettivo per la disponibilità forzatamente prolungata del capitale iniziale, in favore dell’emittente dei titoli.
Ne conseguirebbe che tali interessi, essendo strettamente e direttamente collegati ai titoli sottratti e costituendo la remunerazione degli stessi, non potrebbero non avere la stessa natura degli interessi corrisposti durante la vita dei titoli di Stato. Pertanto, secondo la ricorrente, gli interessi in questione, corrisposti dal Ministero del Tesoro, in applicazione della L.n. 313 del 1993 sui titoli di Stato sottratti, smarriti o distrutti, calcolati in relazione al periodo intercorrente tra il termine di scadenza ed il termine di prescrizione dei titoli stessi, devono essere considerati anch’essi esenti da imposizione.
Ritiene, invece, il Collegio che la decisione impugnata non sia incorsa nella dedotta violazione di legge.
Invero, gli interessi, che originano da investimenti in titoli di Stato, rappresentano un atto di autonomia privata, si producono, in via predeterminata, per tutta la durata dell’investimento e nella misura stabilita pattiziamente.
Gli interessi previsti dall’art. 1 L. n. 313 del 1993, invece, originano da una puntuale e precisa previsione di legge e per essi non è espressamente previsto un trattamento tributario agevolativo.
Appare evidente che gli interessi previsti dall’art. 31, D.P.R. n. 601 del 1973 e quelli previsti dall’art. 1, L. n. 313 del 1993 hanno diversa natura e sono ricollegati al verificarsi di differenti presupposti (gli uni sono collegati al possesso del titolo, sono dovuti nella misura stabilita all’acquisto e decorrono da tale momento alla scadenza, gli altri sono ricollegati alla perdita del titolo, sono dovuti al saggio legale e decorrono dalla scadenza del titolo stesso al termine di prescrizione).
Inoltre, come rilevato dall’Amministrazione, gli interessi legali in questione, non possono considerarsi come un provento, conseguito in sostituzione dei redditi perduti, né sono sostitutivi di quelli che originariamente dovevano incassarsi alla scadenza; infatti essi si riferiscono ad un periodo diverso e si sommano agli interessi scaturenti dai titoli di Stato, senza sostituirli.
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che la banca, dopo il decorso del termine di prescrizione, abbia ricevuto il valore dei titoli e delle cedole, nonché gli interessi legali di cui all’art. 1 L. n.313/93, sui quali ha versato le imposte di cui chiede la restituzione.
Detto questo, appare palese come alla categoria di tali interessi non possa in alcun modo estendersi il regime di tassazione più favorevole, di cui all’art. 31 del D.P.R. 601/1973.
Inoltre, deve rilevarsi che i regimi di esenzione ed agevolativi sono norme eccezionali, insuscettibili di applicazione analogica, per cui, nel silenzio del Legislatore, una disciplina tributaria speciale, di carattere agevolativo, non può applicarsi in via analogica o estensiva.
Permane, quindi, per gli interessi legali di cui all’art. 1 L. n.313/1993 la soggezione al regime giuridico ordinario di tassazione dei redditi di capitale.
Alla luce di tali considerazioni, si può affermare il seguente principio di diritto, secondo cui non sono equiparabili gli interessi previsti dall’art. 1, L. n. 313 del 1993 a quelli previsti dall’art. 31 D.P.R. n. 601 del 1973, che hanno diversa natura e sono ricollegati al verificarsi di differenti presupposti, né è possibile l’estensione, agli interessi dovuti ai sensi dell’art. 1, L. n. 313 del 1993, del regime di esenzione previsto per gli interessi individuati dall’art. 31, D.P.R. n. 601 del 1973, che è disciplina di carattere eccezionale.
3.1. Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia, ai sensi dell’art.360, comma 1, n.5, c.p.c., l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nell’applicabilità della norma, di cui all’art. 31, D.P.R. n. 601 del 1973 agli interessi previsti dall’art. 1, L. n. 313 del 1993.
3.2. Il motivo è inammissibile.
3.3. Invero, lungi dal denunziare vizi della sentenza impugnata rilevanti sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente sostanzialmente lamenta un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di Cassazione).
Nel caso in esame, il motivo non evidenzia un vizio della motivazione, ex articolo 360 nr. 5 c.p.c., attinente alla ricostruzione del fatto, che è pacifico ed incontroverso tra le parti nei termini illustrati nella sentenza impugnata, ma riguarda un vizio di sussunzione (comunque infondato, per quanto detto sopra in relazione al quarto motivo) con riferimento all’applicazione delle norme di diritto (regime fiscale agevolativo) in relazione al fatto (interessi di cui all’art. 1 L. n.313/93) nei termini in cui è accertato in sentenza.
4.1. Con il sesto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art.360, comma 1, n.3, c.p.c.
Secondo la ricorrente, il mancato esame delle prove e della documentazione in atti e l’apodittica ed acritica adesione alle conclusioni dell’Ufficio dimostra quanto sia evidente l’errore in cui è incorsa la C.T.R., la quale avrebbe omesso di considerare la circostanza che era stata la stessa Direzione Regionale del Lazio ad affermare, in un parere espresso in precedenza su richiesta della banca, “che gli interessi ex lege n. 313 del 1993 seguono la sorte degli altri interessi, comunque derivanti dai titoli e, nel caso di specie, quindi, sarebbero esenti”, posto che “la logica della normativa è quella di permettere all’originario sottoscrittore dei titoli, di avere, oltre che il rimborso della quota capitale, anche un equo ammontare di interessi a titoli di remunerazione del godimento delle somme già versate”.
4.2. Il motivo è infondato.
4.3. Preliminarmente deve rilevarsi che, come è stato detto, “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” (Sez. 3 , Sentenza n. 13395 del 29/05/2018).
La sentenza impugnata non è incorsa in alcuna violazione delle norme sul riparto dell’onere probatorio, poiché incombe a chi chiede il rimborso la dimostrazione di averne diritto, (vedi Cass. n. 27580 del 30/10/2018; n. 1420/2013; n.18427/12).
Nel caso in esame la C.T.R. ha ritenuto legittimo il diniego di rimborso dell’Amministrazione, motivando la propria decisione nel senso che gli interessi disciplinati dall’art. 31, D.P.R 601/1973, che originano da investimenti di titoli di Stato, fossero diversi da quelli previsti dall’art. 1 della L. 313/1993 e che “per gli interessi derivanti dall’art. 1 della L. 313/93 non è stata prevista alcuna disciplina speciale di favore a carattere agevolativo e, pertanto, in forza del divieto di estensione analogica della disciplina tributaria in tema di agevolazioni ed esenzioni fiscali, permane per essi la soggezione al regime giuridico ordinario di tassazione dei redditi di capitale.”
La sentenza, quindi, correttamente parte dal presupposto che l’onere di dimostrazione della sussistenza del diritto al rimborso incombe sulla società istante ed, evidentemente, ha ritenuto che la banca non avesse assolto a tanto, in base alla riportata interpretazione della normativa in oggetto (peraltro confermata da questo Collegio).
La doglianza sull’omesso esame del parere favorevole al rimborso, espresso dall’Agenzia delle Entrate a seguito di una richiesta della banca avanzata al di fuori del procedimento instaurato con l’istanza di rimborso, è, invece, inammissibile, poiché si traduce in una censura sulla valutazione delle prove, demandata al giudice di merito (anche in termini di decisività) ed impugnabile solo nei limiti del vizio motivazionale ex art. 360, comma 1, n.5, c.p.c.
5.1. Con il settimo motivo, la ricorrente denunzia la nullità della impugnata sentenza per omessa pronuncia sulla illegittimità del provvedimento di diniego per violazione dell’art. 10, c. 1, L. n. 212 del 2000. Art. 360, C. 1, N. 4), C.P.C.
Con l’ottavo motivo, la ricorrente denunzia l’omessa motivazione, ai sensi dell’art.360, comma 1, n.5, c.p.c., circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nell’illegittimità dei provvedimenti di diniego impugnati per violazione dell’art. 10, c. 1, L. n. 212 del 2000.
Con il nono motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 10, c. 1, L. n. 212 del 2000, dei principi di buona fede ed affidamento nei rapporti tributari, in relazione all’art. 360, comma 1, n.3, c.p.c.
Secondo la ricorrente, la sentenza della C.T.R. è del tutto illegittima per violazione dell’art. 10, c. 1, n. 212 del 2000, atteso che nell’ordinamento tributario il limite all’applicabilità retroattiva di un ripensamento interpretativo in peius dell’Amministrazione finanziaria è imposto, in presenza di una situazione di affidamento tutelabile, sia dal principio di buona fede oggettiva, sia dal principio costituzionale dell’affidamento nella certezza del diritto, principio quest’ultimo che, nel sistema delle fonti, si colloca sullo stesso piano della norma che riserva alla legge la disciplina delle prestazioni patrimoniali imposte.
5.2. I motivi sono, esaminati insieme perché connessi, sono in parte infondati ed in parte inammissibili.
5.3. In particolare, prima dell’entrata in vigore dell’art. 10 L. 212/2000, in tema di interpello, la Banca del F. S.p.a., dopo aver presentato l’istanza di rimborso, formulava, in via del tutto astratta, un quesito alla Direzione Regionale del Lazio (attinente al regime di tassazione degli interessi, previsti dalla L. n. 313/1993), al quale l’interpellata rispondeva in modo, anch’esso astratto, ipotizzando, con ampie riserve, la possibile applicazione di una esenzione anche per gli interessi, di cui si chiedeva.
L’Ufficio di Roma 4, poi, comunicava alla ricorrente odierna di essere al corrente del parere astrattamente favorevole della DRE del Lazio, ma si riservava, comunque, la disposizione del rimborso a seguito dell’esame delle istanze.
Dopo aver acquisito il parere della D.R.E. del Lazio, questa volta negativo, l’Ufficio di Roma 4 comunicava alla banca formale diniego al rimborso, evidenziando l’irrilevanza della precedente nota della Direzione Regionale, insuscettibile di configurarsi in termini di risposta ad istanza d’interpello, tenuto conto sia dell’inoperatività alla data di presentazione dell’istanza della disciplina recata dall’art. 11, L. 212/2000, che della carenza dell’elemento della preventività del quesito, formulato dopo la presentazione dell’istanza di rimborso.
Ritiene il Collegio che non possa ritenersi illegittimo il diniego di rimborso sol perché, ad un precedente quesito della banca, presentato, peraltro, al di fuori della procedura attivata con l’istanza di rimborso, la Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate aveva risposto in termini, generali ed astratti, in senso favorevole alla possibilità di applicazione del regime di esenzione agli interessi di cui all’art. 1 I. n. 313/93.
Il precedente parere, per altro espresso al di fuori della procedura previamente attivata con l’istanza di rimborso della banca, non vincola l’Amministrazione, né può negarsi all’Ufficio, a seguito di verifica ed approfondimento, la possibilità di cambiare orientamento e decidere, adeguatamente motivando, per il diniego di rimborso, cosa avvenuta nel caso di specie.
Ad ogni modo, appare opportuno chiarire che l’art. 10 della L. 212 del 2000 (introdotto successivamente all’istanza di rimborso del 31/7/1997 per gli importi relativi all’anno di imposta del 1996), che disciplina il principio di collaborazione e buona fede tra Fisco e Contribuente, stabilisce, al secondo comma, che non sono dovute le sanzioni o gli interessi moratori al contribuente, che abbia rispettato le indicazioni contenute negli atti dell’Amministrazione Finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’Amministrazione stessa, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere successivamente a fatti direttamente conseguiti a ritardi, omissioni od errori dell’Amministrazione stessa.
Ai sensi dell’art. 10 della Legge 212 del 2000, quindi, non può ritenersi che un eventuale mutamento dell’orientamento interpretativo dell’Amministrazione possa far diventare dovuto un rimborso che non lo è.
Nel caso di specie, inoltre, è pacifico tra le parti che il quesito, dal quale è scaturito il parere favorevole dell’Amministrazione, sia successivo all’istanza di rimborso, presentata quando non vi era alcuna aspettativa tutelabile della banca.
Come affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 23031/2007, in tema di circolari, con ragionamento adattabile anche alla fattispecie in esame, l’interpretazione amministrativa della norma tributaria non vincola il contribuente, né la stessa autorità che l’ha emanata, la quale resta libera di modificarla, correggerla e anche completamente disattenderla.
Ciò perché la materia tributaria è regolata soltanto dalla legge, con esclusione di qualunque potere o facoltà discrezionale dell’amministrazione finanziaria (in questa prospettiva cfr. Cass., Sez. 1A, 25 marzo 1983, n. 2092 e 17 novembre 1995, n. 11931; Cass. Sez. 5A, 10 novembre 2000, n. 14619 e del 14 luglio 2003 n. 11011).
Secondo le Sezioni Unite, l’eventuale tutela del contribuente sotto il profilo dell’affidamento di fronte al mutamento di indirizzo interpretativo adottato dall’amministrazione, va coniugato con il concetto di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, di vincolatezza della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta” (Cass. S.U. sent. n.23031/07 cit.).
Come chiarito dalle S.U. nella citata pronuncia, ammettere che “l’amministrazione, quando esprime opinioni interpretative (ancorché prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sé e i Giudici tributari, equivale a riconoscere all’amministrazione stessa un potere normativo che è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall’art. 23 Cost.. Tutt’al più, come è stato pure affermato, potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa esse valutato) ai fini della applicazione delle sanzioni“.
Ne a diversa soluzione si perviene con riferimento ai principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, che fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione ed ai quali fa specifico richiamo il nuovo art. 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, con il riferimento ai “principi dell’ordinamento comunitario”.
In particolare, il principio dell’affidamento è ormai da tempo consolidato nella giurisprudenza comunitaria ed è un principio non scritto, in quanto nulla sarebbe esplicitamente previsto al riguardo nei Trattati (la presenza di tale principio è confermata dall’affermazione esplicita sul piano sostanziale in materia doganale, contenuta nel Regolamento (CEE) n. 1967/72 della Commissione, del 14 settembre 1972, e ribadita dal Regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, ed è desumibile dall’art. 5, n. 2, del regolamento CEE n. 1697/7 del Consiglio, del 24 luglio 1979, e dall’art. 220, par. 2, lettera b), del regolamento CEE n. 2913/9 del Consiglio, del 12 ottobre 1993, che preclude all’Amministrazione il recupero dei diritti doganali non riscossi, purché il debitore abbia agito in buona fede ed osservato le disposizioni previste dalla regolamentazione vigente per la sua dichiarazione alla dogana).
Il principio comunitario dell’affidamento si presenta affine alla rule of law del sistema giuridico inglese, secondo la quale l’amministrazione, soprattutto in sede di esercizio del potere di autotutela, deve salvaguardare le situazioni soggettive che si sono consolidate per effetto di atti o comportamenti della stessa amministrazione, idonei ad ingenerare un ragionevole affidamento nel destinatario dell’atto, ed è il frutto di una lunga elaborazione giurisprudenziale (prende le mosse dalla sentenza CGCE del 12 luglio 1957 Algera ed altri c. Assemblea Comune, cause congiunte 7/56 e 3-7/57, in Racc., 1957, 81, con cui la Corte giunge ad affermare che, se il provvedimento è conforme alle norme che ne disciplinano l’emanazione ed ha determinato la produzione degli effetti previsti dall’ordinamento, facendo sorgere diritti in capo ad un determinato soggetto, allora non possa essere revocato; vedi , in seguito, CGCE, sent. 13 luglio 1965, Lemmerz-Werke c. Alta Autorità, causa 111/63, in Racc. 1965, 972; sent. 3 marzo 1982, Alpha Steel c. Commissione, causa 14/81, in Racc. 1982, 749; sent. 26 febbraio 1987, Consorzio Cooperative. D’Abruzzo c. Commissione, causa 15/85, in Racc. 1987, 1005, punti 12-17; sent. 20 giugno 1991, Cargill c. Commissione, causa C-248/89, in Racc. 1991, 1-2987, punto 20; sent. 17 aprile 1997, De Compie c. Parlamento, in causa C-90/95, in Racc. 1997, I- 1999, punto 35; Trib. I grado, sent. 21 luglio 1998, Mellet c. CGCE, cause riunite T-66/96 e T-121/97, in Racc. 1998, 11-1305, punti 120-121).
In ogni caso, la tutela dell’affidamento risponde, anche in ambito comunitario, a ragioni di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, prevedendo il consolidamento della situazione di vantaggio nell’ambito della sfera del cittadino, in particolare dei cd. vested rights (diritti quesiti), che non possono essere successivamente sacrificati, in quanto hanno determinato la convinzione di essere diritti “acquisiti” al patrimonio del cittadino beneficiario (vedi CGCE, sent. 26 febbraio 1987, Consorzio Cooperative d’Abruzzo/Commissione, C-15/85, secondo cui “la revoca di un atto illegittimo è consentita solo entro un termine ragionevole e se l’istituzione da cui emana ha adeguatamente tenuto conto della misura in cui il destinatario dell’atto ha potuto eventualmente fare affidamento sulla legittimità dello stesso).
Nel caso In esame, è evidente che la banca non possa invocare la tutela del legittimo affidamento, come elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, per ottenere l’emanazione di un provvedimento contra legem.
In conclusione, come rilevato dall’Agenzia delle Entrate, l’eventuale violazione del principio di buona fede nello svolgimento dell’attività amministrativa, propedeutica all’esame dell’istanza di rimborso, non determina la conseguenza che l’Amministrazione debba essere tenuta a corrispondere un rimborso non dovuto per il solo fatto che in fase di istruttoria preliminare aveva erroneamente valutato la disciplina applicabile.
Il rigetto del nono motivo, rende inammissibile il settimo per assoluta carenza di interesse della ricorrente all’impugnazione.
Infine, l’ottavo motivo è evidentemente inammissibile, poiché censura la motivazione in diritto, deducendo un vizio motivazionale, ex art. 360, comma 1, n.5, c.p.c..
Per quanto fin qui detto il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 23.000,00, oltre spese prenotate a debito.
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