CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 settembre 2018, n. 23271
Reddito d’impresa – Associazione in partecipazione – Scioglimento – Rimborso agli associati – Fruizione di utili
Fatti di causa
Il dott. G.C.M., di professione farmacista, in data 30.10.1992 acquistava una farmacia sita in Villasanta (MI) e, per reperire i finanziamenti necessari, costitutiva, nella stessa data, una associazione in partecipazione, in cui si stabiliva che ciascuno degli associati avrebbe conferito la somma di lire 1.105.000.000, riconoscendo agli associati una partecipazione agli utili dell’impresa. Nel dicembre 1996 le parti concordavano che la quota da conferire a carico degli associati sarebbe stata elevata a lire 1.209.000.000. Infine, nel gennaio 2000 le parti si accordavano per lo scioglimento dell’associazione in partecipazione e concordavano che, oltre agli utili maturati al dicembre 1999, il dott. M. avrebbe rimborsato agli associati la somma di lire 2.500.000.000. La differenza di lire 1.291.000.000 rispetto alla quota apportata dagli associati era una ulteriore remunerazione a favore di questi ultimi per i vantaggi economici che l’associante avrebbe conseguito a fronte della cessazione dell’associazione, e cioè la intera fruizione degli utili da quel momento.
L’associante iscriveva quest’ultima somma di lire 1.291.000.000 tra i costi del reddito di impresa come sopravvenienza passiva, in riferimento all’anno di imposta 2000.
L’ufficio recuperava a tassazione tale somma, ritenendola non deducibile dal reddito di impresa in quanto non inerente e non di competenza in quel periodo di imposta.
La CTP accoglieva il ricorso del contribuente, mentre la CTR accoglieva l’appello dell’ufficio, ritenendo la medesima somma priva di giustificazione, non inerente e non di competenza.
Contro tale sentenza ricorre a questa Corte il contribuente sulla base di tre motivi.
Con il ricorso, chiede anche la riunione al procedimento avente identico oggetto, ma relativo ad altra annualità, sempre pendente davanti a questa Corte.
L’Agenzia non ha depositato controricorso e si è costituita al solo fine della partecipazione all’udienza.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 2549 e ss. c.c. e dell’art. 75, comma 5, dpr 917 del 1986, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., laddove la CTR ha dichiarato “priva di giustificazione” la corresponsione del suddetto importo, e quindi non inerente e non di competenza.
Le parti, infatti, sono libere di stabilire il contenuto del contratto. Con tale importo l’assodante ha voluto remunerare, oltre agli utili, gli associati per il fatto che, attraverso lo scioglimento dell’associazione, egli avrebbe goduto interamente degli utili dell’impresa. In quanto giustificato, il pagamento di tale somma era anche pienamente inerente alla attività di impresa.
Con il secondo motivo deduce insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., ed, in particolare, sulla mancanza di “giuridica giustificazione” della corresponsione della somma di lire 1.291.000.000.
In particolare, la CTR non ha motivato in maniera compiuta per quale motivo ha ritenuto ingiustificata la dazione di lire 1.291.000.000 agli associati in occasione dello scioglimento dell’associazione.
Con il terzo motivo deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 329, comma 2, e 112 c.p.c., ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., avendo la CTR statuito che il costo in questione era anche “non di competenza”, per quanto tale profilo, contenuto nell’avviso di accertamento, non era poi stato oggetto specifico di appello da parte dell’Agenzia contro la sentenza della CTR Su di esso doveva, pertanto, ritenersi sceso il giudicato, e la sentenza della CTR è incorsa nel vizio di ultrapetizione.
Va, innanzi tutto, premesso che non è necessario procedere alla riunione del presente procedimento con quello connesso, relativo ad altro periodo di imposta, atteso che essendo i due procedimenti trattati alla stessa udienza dallo stesso relatore, non vi è rischio di contrasto di giudicati, né la mancata riunione influisce sull’economia processuale.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamente attesa la comunanza delle questioni in essi dedotte, sono infondati.
In linea di diritto, la questione consiste nello stabilire se un compenso come quello oggetto di causa, che eccede gli utili “ordinari”, corrisposto nell’ambito di una associazione in partecipazione, sia deducibile per l’assodante secondo la disciplina vigente all’epoca (anni 2000 e 2001).
L’art. 62 comma 4 tuir, nella versione applicabile ratione temporis, affermava:
Le partecipazioni agli utili spettanti ai lavoratori dipendenti e agli associati in partecipazione sono computate in diminuzione del reddito dell’esercizio di competenza, indipendentemente dalla imputazione al conto dei profitti e delle perdite.
La norma, come emerge dalla sua stessa lettera senza bisogno di particolari interpretazioni, si riferisce, quindi, esclusivamente agli “utili” corrisposti agli associati, mentre nulla dice in merito a somme ulteriori, ed in particolare a quelle corrisposte, per esempio, a titolo di compenso per il recesso, come lo stesso contribuente ha qualificato l’importo di cui si discute nel caso di specie.
Già sulla base di questo solo argomento, quindi, si può concludere per la indeducibilità dell’importo per l’associante, senza addentrarsi in ulteriori analisi quale quella sulla tipologia di apporto degli associati nell’associazione in partecipazione in questione.
Nella norma suddetta, infatti, la tipologia dell’apporto non è un discrimine per la deducibilità delle somme, come, invece, avviene nella normativa oggi vigente.
L’art 109 comma 9, lett. b), tuir, oggi in vigore, afferma, infatti, che non è deducibile ogni tipo di remunerazione dovuta:
b) relativamente ai contratti di associazione in partecipazione ed a quelli di cui all’articolo 2554 del codice civile allorché sia previsto un apporto diverso da quello di opere e servizi.
Se quindi la stessa si riferisce non solo agli utili, ma ad ogni tipo di remunerazione, per contro la sua formulazione esclude chiaramente la deducibilità per l’associante dei compensi corrisposti agli associati in partecipazione che abbiano apportato solo capitale, come, per inciso, – da quanto emerge dagli atti – sembra essere avvenuto nella specie.
Nella normativa vigente all’epoca dei fatti, invece, come detto, la norma non faceva alcun riferirmento alla qualità dell’apporto degli associati, ma, per contro, prevedeva come deducibili solo “gli utili” senza alcun riferimento ad altre remunerazioni.
La giurisprudenza non è risolutiva per chiarire il problema oggetto della presente analisi.
Sez. V, n. 16454 del 2014 (che si riferisce ad una vicenda riguardante l’anno di imposta 1983, e quindi anteriore alla disciplina dell’art 109 tuir oggi vigente) riconosce la deducibilità degli utili corrisposti agli associati sulla base della considerazione per cui lo stesso art. 59 tuir non nega la natura di “costo dell’impresa” degli stessi, ma anch’essa si riferisce espressamente solo a questo tipo di costo, e, inoltre, riguarda un caso in cui si tratta chiaramente di associazione con apporto di solo lavoro, quindi riguarda una fattispecie oggettivamente diversa da quella qui in esame.
Anche qualora si ritenesse che i requisiti per la deduzione delle quote di utili nei contratti di associazione in partecipazione nel regime previgente consistano nel fatto:
– che il contratto di associazione in partecipazione risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata.
– che il contratto di associazione in partecipazione contenga la specificazione dell’apporto e, qualora questo sia costituito da denaro ed altri valori, contenga elementi certi e precisi comprovanti l’avvenuto apporto;
– che, qualora l’apporto sia costituito da prestazione di lavoro, gli associati non siano familiari dell’associante, ai sensi dell’art. 62, comma 2, del TUIR, tuttavia ci si riferirebbe pur sempre ad un tipo di costo diverso da quello di cui si discute nella presente controversia.
Anche una analisi alla luce dei criteri generali di cui all’art. 75 TUIR che, poi, è il predecessore dell’art. 109 TUIR, non depone in senso favorevole alla deducibilità, sotto il profilo per cui il costo in questione dipende dalla mera volontà del contribuente ai fini del soddisfacimento di un mero interesse personale (godere degli utili interamente, senza doverli condividere con altri associati) e non appare, quindi, in questo senso, strettamente “strumentale” alla attività di impresa, nel senso in cui deve essere interpretata l’espressione secondo cui i costi sono deducibili se “si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito”.
Ben diverso è infatti il costo rappresentato dalla corresponsione degli utili agli associati che hanno apportato lavoro, perché il reddito della associazione in partecipazione è stato prodotto anche grazie a tale apporto, rispetto al costo rappresentato dalla ricompensa agli associati per il fatto lasciare l’associazione e permettere all’imprenditore di godere del reddito in via esclusiva.
Afferma al riguardo Sez. V, n. 13601 del 2018 che
Ai fini della deducibilità, inoltre, va considerato che un bene o servizio è strumentale rispetto all’attività d’impresa non in virtù della volontà espressa dalla contribuente … ma “in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili” (Cass. n. 20049/2017).
Nel caso di specie, il costo in questione, anche nell’accezione più ampia del concetto di inerenza quale relazione tra un costo ed un’attività imprenditoriale idonea a produrre reddito – e non un ricavo in senso stretto -, non influisce sulla produzione degli utili per l’impresa in senso oggettivo, cioè non è strumentale alla produzione di utili per l’impresa, ma è un mero “veicolo” per la distribuzione del reddito, perché attraverso esso, l’utile non verrà più ripartito tra gli associati, ma viene goduto dal solo imprenditore. E’, quindi, legato al mero interesse personale dell’imprenditore di godere in misura esclusiva e individuale dei suddetti utili dell’impresa, (si veda, sulla distinzione, sez. V, n. 6548 del 2012).
In altri termini, il costo in questione non è finalizzato alla produzione del reddito, ma alla ripartizione o distribuzione dello stesso o, se si vuole, in ultima analisi, alla modalità di godimento dello stesso.
Si tratta di un interesse che, per essere chiari, è di per sé legittimo e non è espressione di un disvalore, ma che fa sì che il costo debba essere considerato estraneo all’oggetto dell’attività di impresa, e, in quanto tale, non inerente (Sez. V., ord. n. 13882 del 2018).
In questo senso, la affermazione di non inerenza compiuta dalla CTR non è errata, seppure alla luce di argomentazioni differenti da quelle utilizzate da quest’ultima.
Al riguardo, va anche rilevato che il secondo motivo, come dedotto, è infondato perché la sentenza della CTR non è carente di motivazione. La stessa ha infatti raggiunto il minimo livello di argomentazione richiesto per spiegare per quale ragione ha ritenuto priva di valida giustificazione la dazione del compenso agli associati per il loro recesso. Non viene qui in discussione, infatti, il merito della motivazione, ma l’esistenza o meno della stessa, e non vi è dubbio che, nella specie, una motivazione sia stata data.
Il terzo motivo, poi, si presenta anche carente di autosufficienza, atteso che era onere del ricorrente non solo enunciare, ma anche almeno evidenziare, riportando i passi rilevanti degli atti processuali cui ha fatto riferimento, la fondatezza del motivo. Nella specie, invece, il ricorrente si è limitato ad enunciare l’addotto vizio, ma non ha fornito elementi che permettessero, fin dalla lettura del ricorso, di avere una visione completa delle ragioni su cui esso si fonda.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza.
Sono, pertanto, a carico del ricorrente e, tenuto conto del valore della causa, si liquidano in euro 3.500, oltre spese prenotate a debito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in euro 3.500 oltre spese prenotate a debito.
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