CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 aprile 2022, n. 12223
Tributi – IRPEF – Rinuncia del socio amministratore al trattamento di fine mandato – Assoggettamento a tassazione – Legittimità
Fatti di causa
la Commissione Tributaria Provinciale respingeva il ricorso del contribuente S.E. avverso un avviso di accertamento relativo ad IRPEF per l’anno d’imposta 2011 che traeva origine dalla rinuncia del contribuente al trattamento (in qualità di amministratore) di fine mandato accantonato a suo favore dal 1998 al 2006 dalla società P.F. s.r.l., di cui era anche socio;
la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con sentenza n. 1861/1/2019, accoglieva l’appello della parte contribuente affermando che il nostro ordinamento giuridico ammette ipotesi di fictio che però sono espressamente previste dal Legislatore e la capacità contributiva che legittimamente può essere colpita deve essere concreta e non meramente astratta e virtuale.
Avverso la suddetta sentenza proponeva ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a due motivi di impugnazione, mentre la parte contribuente non si costituiva.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., l’Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 88 e 94 del d.P.R. n. 917 del 1986, in quanto il credito, anche se non materialmente incassato, viene comunque utilizzato, sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia.
Con il secondo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., l’Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 53 della Costituzione per violazione del principio della capacità contributiva in quanto la rinuncia al trattamento di fine mandato costituisce un incasso in senso giuridico come tale suscettibile di tassazione.
I motivi di impugnazione, che possono essere trattati congiuntamente in quanto ruotano entrambi intorno alla non violazione da parte dell’Ufficio del principio della capacità contributiva, in quanto la rinuncia al trattamento di fine mandato da un lato costituisce un incasso in senso giuridico e dall’altro arricchisce il socio stesso sotto forma di aumento del valore della partecipazione sociale, sono fondati.
Secondo questa Corte, infatti: «in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’art. 55 (oggi art. 88), quarto comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, come modificato dal d.l. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito in legge 26 febbraio 1994, n. 133, che esclude debbano considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci nei confronti della società, dovendo essere letto in correlazione con i successivi artt. 61, quinto comma (oggi 94, sesto comma) e 66, quinto comma (oggi 101, settimo comma), non vale ad alterare il regime fiscale del credito che costituisce oggetto di rinuncia, per cui, ove si tratti di crediti da lavoro autonomo del socio nei confronti della società, i quali, sebbene materialmente non incassati, siano, mediante la rinuncia, comunque conseguiti ed utilizzati, sussiste l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi dell’art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta (Cass. n. 26842 del 2014); la rinuncia al credito da parte del socio costituisce una prestazione che viene ad aumentare il patrimonio della società e può comportare anche l’aumento del valore delle sue quote sociali. In tale contesto, allora, appare corretto ritenere che la rinuncia del credito da parte di un socio sia espressione della volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla compagine sociale. Pertanto la rinuncia presuppone, in tali casi, il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene, comunque, “utilizzato” (Cass. n. 7636 del 2017);
con il motivo l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 44, 45 e 88 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per avere ritenuto la CTR che presupposto per l’imposizione è l’incasso “reale” e non invece l’”incasso giuridico”.
La censura è fondata.
Questa Corte, pronunciandosi su controversie analoghe, ha affermato (Cass. n. 26842/2014) con riferimento alla rinuncia ai compensi per royalties da parte del socio di maggioranza, che la stessa “ne presuppone logicamente il conseguimento con ineludibile soggezione al proprio regime fiscale”. Ciò in quanto tale rinuncia costituisce “una prestazione che viene ad aumentare il patrimonio della società e può comportare anche l’aumento del valore delle sue quote sociali“. Ne deriva che “la rinuncia presuppone, in tali casi, il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene, comunque, utilizzato”. Pertanto “ne consegue la tassabilità in capo al socio rinunciatario del credito, anche se non materialmente incassato ma conseguito ed utilizzato, tramite la rinuncia, in favore della società e, quindi, la obbligatorietà in capo a quest’ultima di operare la ritenuta D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 25” (Cass. n. 26842/2014). Nello stesso senso, con riferimento alle rinunce effettuate da due soci-amministratori al trattamento di fine mandato, la Corte ha riconosciuto la valenza della teoria dell’incasso giuridico sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, richiamando la sentenza appena citata ed affermando che “in tema di determinazione dei reddito d’impresa, il TUIR, art. 55 (oggi art. 88), comma 4, che esclude debbano considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci nei confronti della società, dovendo essere letto in correlazione con i successivi art. 61, comma 5 (oggi art. 94, comma 6) e art. 66, comma 5 (oggi art. 101, comma 7), non vale ad alterare il regime fiscale del credito che costituisce oggetto di rinuncia, per cui, ove si tratti di crediti da lavoro autonomo del socio nei confronti della società, i quali, sebbene materialmente non incassati, siano, mediante la rinuncia, comunque conseguiti ed utilizzati, sussiste l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 25, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta” (Cass. n. 1335/2016: Cass. 7636/2017)» (Cass. n. 2057 del 2020).
La sentenza della Commissione Tributaria Regionale – affermando che il nostro ordinamento giuridico ammette ipotesi di fictio che però sono espressamente previste dal Legislatore e la capacità contributiva che legittimamente può essere colpita deve essere concreta e non meramente astratta e virtuale – non ha considerato che la rinuncia da parte del socio-amministratore al trattamento di fine mandato costituisce dal punto di vista giuridico un incasso, come tale suscettibile di essere tassato, in quanto per un verso presuppone la possibilità di disporre di una somma di denaro, costituisce espressione della volontà di patrimonializzare la società e pertanto presuppone il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene, comunque, “utilizzato” e per un altro verso arricchisce un soggetto giuridico – la società – che appartiene al rinunciante in quanto socio della stessa, il quale altrimenti si gioverebbe, attraverso lo schermo della personalità giuridica (cfr. Cass. 33234 del 2018; Cass. n. 13 del 2022) e in violazione del principio della capacità contributiva, dell’incremento della partecipazione sociale. Tale potenziale distorsione si coglie in particolare nell’ipotesi di società a ristretta base partecipativa, in cui tutti i soci fossero anche amministratori e tutti rinunciassero al compenso loro dovuto in tale qualità oppure nell’ipotesi di amministratore-unico socio: in tali casi infatti il socio-amministratore che rinunciasse al compenso, rimarrebbe, per il tramite della società, proprietario dell’intera somma a cui ha rinunciato e che rimarrebbe irragionevolmente non sottoposto ad imposizione fiscale.
Ritenuto dunque la fondatezza di entrambi i motivi di impugnazione, il ricorso dell’Agenzia delle entrate va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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