CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 maggio 2022, n. 17689
Dirigente – Licenziamento – Critiche mosse alle poste contabili di bilancio – Legittimo esercizio del diritto di critica – Denuncia di fatti di potenziale rilievo penale – Fondatezza del provvedimento espulsivo – Esclusione
Fatti di causa
1. S. R., dipendente della N. s.p.a. come direttore generale con qualifica di dirigente (v. controricorso pag. 6), ha agito in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli il 10.8.2013, per violazione dell’art. 7, l. n. 300 del 1970, nonché per difetto di giusta causa o di giustificatezza, con le conseguenze di cui al c.c.n.l. per i dirigenti di aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi del 23.1.2008 e con condanna della società al risarcimento dei danni alla salute e alla professionalità.
2. Il Tribunale di Mantova ha respinto le domande del lavoratore ritenendo il licenziamento sorretto da giusta causa.
3. La Corte d’appello di Brescia, nel respingere l’appello del R., ha dato atto: che questi era stato assunto il 26.3.2013 e nominato direttore generale a far data da aprile 2013; che dal 2010 le società italiane del gruppo N. avevano avviato un processo di ristrutturazione aziendale e di riposizionamento del debito e nel giugno 2010 avevano sottoscritto un accordo con gli istituti di credito finanziatori, in attuazione del piano di risanamento attestato ai sensi dell’art. 67, comma 3, della legge fallimentare; che nei primi giorni di ingresso in azienda il R. aveva manifestato al consigliere delegato dott.ssa B. N. le sue riserve sulla valutazione di alcune poste contabili inserite nella bozza del bilancio 2012; che in data 7.6.13 il predetto partecipò alla riunione del consiglio di amministrazione della società N., nel corso della quale diede lettura di un documento in cui manifestava critiche al bilancio del 2012; che tali critiche resero necessaria una serie di verifiche, sollecitate anche del collegio sindacale e sottoposte alla società di revisione; che le verifiche svolte rivelarono la sostanziale infondatezza delle critiche e la società provvide a muovere una contestazione disciplinare al proprio dirigente che, con lettera del 30.7.2013, fornì giustificazioni.
4. I giudici di appello hanno ritenuto che il licenziamento intimato fosse sorretto da giusta causa, o quanto meno da giustificatezza, rilevando che la pacifica facoltà del dirigente “anche al solo fine di evitare di concorrere nelle responsabilità proprie della figura del direttore generale”, di sollevare perplessità in ordine al bilancio della società datrice di lavoro, non legittimava lo stesso “specialmente nelle fasi iniziali del rapporto di lavoro a pubblicizzare le proprie perplessità, a descrivere sempre ‘pubblicamente’ le fattispecie di reato potenzialmente configurabili in caso di mancato accoglimento dei rilievi dallo stesso sollevati e ad addebitarne la responsabilità ai membri del CdA della soc. N. spa […] ciò specialmente in ragione del delicato periodo in cui si trovava la società appellata e del fatto che il bilancio 2012 era ancora in fase di definizione”, data inoltre “l’assenza di documentazione di supporto ai rilievi sollevati, in presenza di atti che erano suscettibili di modificazione e, per di più, dopo aver constatato la disponibilità del personale della società datrice di lavoro e della società di revisione a valutare la fondatezza di tali rilievi”.
5. La sentenza impugnata ha sottolineato come “le modalità comportamentali adottate dal dottor R. già nelle fasi iniziali del rapporto, rivelavano… come lo stesso si fosse volontariamente posto in contrapposizione con le scelte adottate dagli organi gestionali della società e come, quindi, non potesse sussistere alcun rapporto di fiducia” e che “l’evidente sostanziale infondatezza delle censure espresse alla bozza di bilancio corroborava la fondatezza del provvedimento espulsivo adottato”.
6. La Corte territoriale, per quanto ancora interessa, ha respinto l’eccezione di tardività della contestazione disciplinare in considerazione dei tempi necessari allo svolgimento delle verifiche sollecitate dalle critiche del dottor R.. Ha ritenuto sfornita delle necessarie allegazioni e prove la domanda di risarcimento dei danni da demansionamento oltre che lo stesso non configurabile in ragione della breve durata del rapporto di lavoro.
7. Avverso tale sentenza S. R. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. La N. s.p.a. ha resistito con controricorso. È stata depositata memoria nell’interesse del ricorrente S. R. in vista dell’adunanza camerale fissata per il 6.10.201.
8. La controversia è stata rinviata per la trattazione in pubblica udienza.
9. Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso. La N. s.p.a. ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. La difesa del R. ha eccepito l’inammissibilità della memoria avversaria, per essere state depositate le memorie in vista della adunanza camerale del 6.10.2021.
Ragioni della decisione
10. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione del principio di immutabilità della contestazione di cui all’art. 7, l. n. 300 del 1970, per avere la Corte di merito valorizzato, ai fini della legittimità del licenziamento, fatti non previamente contestati.
11. Si sostiene che il fatto contestato al R. era di aver accusato gli amministratori e dirigenti della N. s.p.a., diffondendo nella riunione del C.d.A. del 7.6.2013 il documento “Bilancio 2012”, della commissione del reato di “falso in bilancio”, attuato “tramite una serie di artifizi di carattere contabile …e di ricorso abusivo al credito” e di “aver utilizzato i medesimi fatti per ottenere l’approvazione del ceto bancario”; che invece la valutazione di legittimità del licenziamento era stata basata su ulteriori fatti non contestati, ed esattamente: sulle critiche che il dottor R. aveva espresso sia antecedentemente alla riunione del C.d.A. del 7.6.2013, sia in sede di giustificazioni; sul fatto che egli avesse adottato, già nelle fasi iniziali del rapporto, modalità comportamentali che rivelavano una contrapposizione con le scelte degli organi gestionali della società; sulla circostanza che aveva prospettato pubblicamente la potenziale commissione di reati da parte dei membri del C.d.A., in assenza di documentazione a supporto dei rilievi sollevati e benché il bilancio fosse ancora suscettibile di modificazione e, per di più, dopo aver constatato la disponibilità del personale della società datrice di lavoro e della società di revisione a valutare la fondatezza dei rilievi esposti; sulla evidente sostanziale infondatezza delle censure espresse alla bozza di bilancio.
12. Col secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 111 Cost., per motivazione apparente, nonché per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (cioè le esatte parole utilizzate dal R. nel documento “Bilancio 2012” e le affermazioni del c.t.u. di parziale fondatezza delle critiche mosse dal dirigente ed i rilievi del consulente da quest’ultimo nominato); è inoltre denunciata la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. per avere la Corte di merito considerato piena prova della infondatezza delle critiche esposte dal R. le deposizioni di due testimoni che non hanno preso posizione su alcun dato economico e contabile.
13. Si assume che nella sentenza impugnata, motivata per relationem con quella del Tribunale, senza analisi delle tesi sostenute nei motivi di appello, e quindi in modo apparente, non vi sia traccia del percorso logico che permetta di comprendere con quali parole contenute nel citato documento “Bilancio 2012” il dirigente abbia potuto accusare gli amministratori e i dirigenti della società della commissione del reato di falso in bilancio, attuato “tramite una serie di artifizi di carattere contabile”, di “ricorso abusivo al credito” e di aver “utilizzato i medesimi fatti per ottenere l’approvazione del ceto bancario”, accuse definite da parte datoriale “infondate e diffamatorie”. Si sottolinea come nel documento citato fossero solo prospettate fattispecie di reato astrattamente configurabili e non accuse concretamente riferibili a soggetti determinati e che i giudici di merito abbiano omesso di considerare le conclusioni del c.t.u., specificamente trascritte, di parziale fondatezza delle critiche sollevate dal dirigente, nonché i rilievi del consulente di parte da questi nominato.
14. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2392 cod. civ. e degli artt. 2119 cod. civ., 21 Cost., nonché della nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente.
15. Si argomenta l’erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 2392 cod. civ. in quanto tale disposizione prevede che il dissenso debba essere esplicitato e reso pubblico in sede di consiglio di amministrazione; che debba darsene immediata notizia al presidente del collegio sindacale; che la manifestazione di dissenso non richiede documentazione a supporto né deve investire solo atti definitivi, atteso che la ratio della disposizione è proprio quella di consentire modifiche e rettifiche prima della approvazione definitiva.
16. Si afferma che la valutazione di legittimità del licenziamento non abbia tenuto conto del legittimo esercizio del diritto al dissenso, di cui all’art. 2392 cit.; della peculiare posizione del dirigente e direttore generale, responsabile delle errate valutazioni di bilancio ai sensi dell’art. 2396 cod. civ.; del rispetto dei requisiti di continenza formale e sostanziale nelle critiche dal medesimo mosse e dell’elemento soggettivo alla base della condotta posta in essere.
17. Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 111 Cost., e dell’art. 7, l. n. 300 del 1970, per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto tempestiva la contestazione disciplinare del 23.7.2013 rispetto alla condotta tenuta il 7.6.2013, giorno della riunione del C.d.A. Ciò sul rilievo che già in data 17.6.2013 la società aveva giudicato “prive di riscontro fattuale” le critiche del dirigente e che nessuna prova è stata fornita sui tempi delle verifiche da parte della società di revisione e sulla effettiva esecuzione delle stesse.
18. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta l’omessa valutazione di un fatto decisivo, cioè la privazione delle mansioni del direttore generale nell’organigramma pubblicizzato nel corso dell’”Ist. Convention day”, nonché la violazione o falsa applicazione dell’art. 1223 cod. civ. e del principio del danno in re ipsa in ipotesi di lesione della reputazione per fatto illecito, in riferimento al rigetto della domanda di risarcimento del danno da demansionamento.
19. Preliminarmente, deve giudicarsi ammissibile la memoria depositata dalla società controricorrente, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. Le memorie assolvono alla esclusiva funzione di chiarire e illustrare i motivi di impugnazione e le eccezioni e gli argomenti già debitamente enunciati rispettivamente nel ricorso e nel controricorso (v. Cass. 26332 del 2016; n. 26670 del 2014) e nessuna preclusione è prevista dal codice di procedura per il caso in cui la parte abbia già depositato una memoria o, comunque, avuto la facoltà di depositarla in vista della fissazione della causa in adunanza camerale, poi conclusasi col rinvio del procedimento per la trattazione in pubblica udienza.
20. Il primo motivo di ricorso è infondato.
21. In tema di licenziamento disciplinare, il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa del lavoratore (v. Cass. 11540 del 2020; n. 8293 del 2019; n. 26678 del 2017).
22. Si è altresì precisato come la necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione debba essere garantita e presidiata, in chiave di tutela dell’esigenza difensiva del lavoratore, anche in sede giudiziale, ove le condotte in contestazione su cui è incentrato l’esame del giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in un ambito riservato alla scelta del datore di lavoro (v. Cass. n. 3079 del 2020; n. 10853 del 2019).
23. La censura oggetto del motivo di ricorso in esame non attiene ad una pretesa non corrispondenza tra il fatto contestato e il fatto posto dal datore di lavoro a base del recesso, bensì alla valutazione svolta in sede giudiziale.
24. La sentenza d’appello, tuttavia, non ha giudicato legittimo il licenziamento sul presupposto di fatti diversi da quelli contestati al lavoratore e posti a base della decisione di recesso, ma ha valutato quei medesimi fatti evidenziandone aspetti significativi, anche ai fini della ricostruzione dell’elemento soggettivo (ad es., la circostanza che l’accusa di commissione di reati era stata mossa “pubblicamente”, nel corso del C.d.A., e sebbene fosse ancora possibile una rettifica di eventuali errori) ed ha poi letto quei fatti nell’ambito della complessiva condotta del lavoratore (comportamento anteriore alla riunione del C.d.A. e contenuto della lettera di giustificazioni) ai fini della valutazione sulla giusta causa o giustificatezza.
25. La sentenza impugnata non ha alterato gli elementi fattuali della condotta contestata e ritenuta dal datore di lavoro meritevole di licenziamento e le censure oggetto del motivo di ricorso in esame si risolvono, nella sostanza, in una critica al percorso motivazionale della sentenza impugnata riguardo alla valutazione di legittimità del provvedimento espulsivo e sono, come tali, inammissibili.
26. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione logica, sono fondati e devono trovare accoglimento, nei limiti di seguito esposti.
27. È necessario riportare il contenuto del documento letto e distribuito dal R. durante la riunione del Consiglio di Amministrazione del 7.6.2013, poiché esso rappresenta il fulcro della condotta contestata: “Affrontando quindi nel merito gli argomenti legati all’approvazione del bilancio 2012 della società N. s.p.a., porto alla vostra attenzione il fatto che, a seguito di formali colloqui intrattenuti con il dottor F. L. (Responsabile Amministrazione e Controllo) sono emerse le seguenti carenze, fino a 4,2 euro milioni: 1) Il magazzino N. s.p.a. comprende circa 1,7 euro milioni di prodotti obsoleti a fronte dei quali il relativo fondo accantonato è pari a 0,6 euro milioni, con una conseguente sottostima fino a 1,1 euro milioni; 2) Il fondo garanzia prodotti di N. s.p.a. ora iscritto per 0,2 euro milioni dovrebbe essere integrato a 0,5 euro milioni, con una conseguente sottostima fino a 0,3 euro milioni; 3) Il costo della partecipazione nella società Sangalli s.p.a. iscritto ora a bilancio per 5,0 euro milioni dovrebbe essere rettificato, in relazione al patrimonio netto pro quota della stessa al 31.12.2012 a 3,9 euro milioni, con un conseguente effetto economico fino a 1,1 euro milioni; 4) Il costo della partecipazione nella società controllata N. U.K. L.t.d. iscritto ora a bilancio per 1,2 euro milioni dovrebbe essere rettificato, in relazione al patrimonio netto pro quota della stessa al 31.12.12 a 0,6 euro milioni, con un conseguente effetto economico fino a 0,6 euro milioni; 5) Il fondo svalutazione crediti di N. s.p.a ora iscritto per 0,4 euro milioni dovrebbe essere integrato a 1,5 euro milioni, con una conseguente sottostima fino a 1,1 euro milioni. Le principali posizioni critiche sono rappresentate dai seguenti nominativi […]. Sono stati inoltre capitalizzati costi legati all’I.T. per complessivi 1,6 euro milioni, totalmente privi di adeguata documentazione a supporto, come previsto dal principio contabile numero 24 in materia di Immobilizzazioni Immateriali, nella quale si evidenzino i futuri flussi di cassa attesi dallo svolgimento di tali attività. Inoltre, sulla società controllata al 100% N. I. s.r.l., sempre a seguito dei già citati colloqui intrattenuti con il dottor F. L., sono emerse le seguenti carenze fino a 1,7 euro milioni, in particolare evidenzio: 1) Il magazzino rottami della società è sovrastimato in conseguenza di una precedente differenza esistente tra giacenza fisica e contabile dello stesso, fino a 1,4 euro milioni; 2) Il fondo svalutazione crediti della società ora iscritto per 0,3 euro milioni dovrebbe essere integrato a 0,6 euro milioni, con una conseguente sottostima fino a 0,3 euro milioni a fronte del cliente Trentavizi in concordato. Infine, su entrambe le società è stata allungata la vita utile di alcuni cespiti, in assenza di perizia redatta da soggetto terzo e indipendente, con un conseguente migliorativo impatto economico pari a 2,0 euro milioni. Ritengo quindi opportuno sintetizzare i principali elementi economici – patrimoniali, accolti nella bozza di piano attestato di risanamento (ex articolo 67 L.F.) del 28 maggio 2013, redatto ai fini dell’approvazione dello stesso da parte del ceto bancario finanziatore del gruppo, con evidenti rischi connessi all’eventuale reato di “ricorso abusivo al credito”. Conseguentemente, si evince la gravità dei fatti evidenziati, configurandosi la fattispecie criminosa del “falso in bilancio”. Preciso come l’espressione “falso in bilancio” sia utilizzata per designare i reati di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., il cui ambito operativo risulta però assai più ampio, comprendendo ogni comunicazione sociale prevista dalla legge e diretta ai soci o al pubblico. In tal senso viene a configurarsi il reato di “false comunicazioni sociali” il quale è da inquadrarsi in due distinte tipologie: una contravvenzionale (art. 2621 c.c.) di “false comunicazioni sociali” per così dire semplici, senza la verificazione di danno per alcuno, punita con l’arresto fino a due anni; una delittuosa (art. 2622 c.c.), con danno per società, soci o creditori, punita a querela di parte con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
28. La contestazione disciplinare rivolta al dirigente della società con la lettera del 23.7.2013 e posta a base della decisione di recesso è formulata in questi termini: “In data 7 giugno u.s., durante una riunione del Consiglio di Amministrazione della Società, lei ha formulato giudizi gravemente lesivi della reputazione dell’azienda e dei suoi amministratori. In particolare, nel corso della predetta riunione, lei ha sostenuto (anche per mezzo di un documento scritto, consegnato in copia a tutti i consiglieri e al collegio sindacale) che la Società, tramite una serie di artifizi di carattere contabile dei propri amministratori e dirigenti, avrebbe posto in essere un’ipotesi di “falso in bilancio” e, per aver utilizzato i medesimi fatti per ottenere l’approvazione del ceto bancario, di “ricorso abusivo al credito”. Infine, lei avrebbe evidenziato la possibilità di addebitare in capo agli amministratori anche il reato di “false comunicazioni sociali”. Tali conclusioni sono state formulate nei termini che riportiamo di seguito testualmente […]. La società, dopo aver svolto approfondite indagini di carattere tecnico contabile che hanno richiesto valutazioni particolarmente lunghe e complesse, è quindi in grado di affermare che le sue affermazioni sono risultate sprovviste di qualsiasi contenuto reale e, pertanto, si sono risolte in una ingiustificata e gratuita denigrazione dell’operato dei dirigenti e amministratori dell’azienda”.
29. Sul tema del diritto di critica del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro la giurisprudenza di legittimità ha affermato principi ormai consolidati (v. da ultimo Cass. 1379 del 2019 con ampi riferimenti ai precedenti).
30. Il diritto di critica trova fondamento nella nostra Costituzione che, all’art. 21, riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. L’art. 1 dello Statuto dei lavoratori riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, e la necessità di contemperare tale libertà col rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo.
31. Nel rapporto di lavoro, l’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro deve essere contemperato col dovere di fedeltà posto dall’art. 2105 cod. civ. a carico dei lavoratori, oltre che con il rispetto dei generali canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto.
32. A partire da Cass. n. 1173 del 1986 la giurisprudenza ha individuato regole volte a contemperare il diritto stabilito dall’art. 21 Cost. con altri diritti concernenti beni di pari rilevanza costituzionale, tra i quali, in particolare, i diritti della personalità all’onore ed alla reputazione, stabilendo che: “Il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, quale espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, e può configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione“.
33. La giurisprudenza successiva ha specificato i limiti di continenza formale e sostanziale del legittimo esercizio del diritto di critica, legati rispettivamente alla rilevanza costituzionale dei beni che si intende tutelare attraverso la critica e alla veridicità dei fatti e alla correttezza del linguaggio adoperato (v. Cass. n. 21362 del 2013; n. 29008 del 2008; n. 23798 del 2007; n. 11220 del 2004; più recentemente, Cass. n. 5523 del 2016; n. 19092 del 2018; n. 14527 del 2018; n. 18176 del 2018).
34. Significativa è la giurisprudenza sul diritto di critica riconosciuto al lavoratore che abbia funzioni di rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda e che fa leva, ai fini della copertura costituzionale, anche sull’art. 39 Cost. Al riguardo si è affermato: «Il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all’attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., non può in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro essere subordinata alla volontà di quest’ultimo. Consegue che la contestazione dell’autorità e della supremazia del datore di lavoro siccome caratteristica della dialettica sindacale, ove posta in essere dal lavoratore sindacalista e sempreché inerisca all’attività di patronato sindacale, non può essere sanzionata disciplinarmente» (Cass. n. 18176 del 2018; n. 7471 del 2012; n. 19350 del 2003; n. 7091 del 2001; n. 11436 del 1995).
35. Di particolare rilievo, ai fini di causa, è la giurisprudenza formatasi sulla condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o amministrativa fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro.
36. Con plurime decisioni (v. Cass. n. 25799 del 2019; n. 22375 del 2017; n. 4125 del 2017; n. 996 del 2017; n. 14249 del 2015; n. 8077 del 2014; n. 6501 del 2013) si è affermato che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti in azienda non possa di per sé integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi, e purché il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.
37. Si è infatti escluso che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento (Cass. n. 4125 del 2017; n. 6501 del 2013). Ciò sul rilievo che lo Stato di diritto attribuisce valore civico e sociale all’iniziativa del privato che solleciti l’intervento dell’autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale, e, sebbene ritenga doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore alla collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell’interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti.
38. Da tali considerazioni discende l’affermazione secondo cui l’esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall’art. 333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell’illecito o della estraneità allo stesso dell’incolpato (si rimanda a Cass. pen. n. 29237/2010 e, quanto alla responsabilità civile, fra le più recenti a Cass. n. 11898 del 2016). La esenzione da responsabilità, anche nei casi di colpa grave, si giustifica considerando che la collaborazione del cittadino, che risponde ad un interesse pubblico superiore, verrebbe significativamente scoraggiata ove quest’ultimo potesse essere chiamato a rispondere delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi a seguito di denunce che, sebbene inesatte o infondate, siano state presentate senza alcun intento calunnioso.
39. Proprio la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori porta ad escludere che nell’ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all’autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato, possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l’ipotesi in cui l’iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore. Perché possa sorgere la responsabilità disciplinare non basta che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della “notitia criminis” o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della stessa.
40. Nei precedenti citati si è specificato che, a differenza delle ipotesi in cui è in discussione l’esercizio del diritto di critica, in caso di denuncia penale (o amministrativa) presentata dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro “non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio, e, quindi, può avere rilevanza disciplinare, giacché ogni denuncia si sostanzia nell’attribuzione a taluno di un reato, per cui non sarebbe logicamente e giuridicamente possibile esercitare la relativa facoltà senza incolpare il denunciato di una condotta obiettivamente disonorevole e offensiva della reputazione dell’incolpato” (Cass. n. 22375 del 2017; n. 4125 del 2017; n. 15646 del 2003 cit.; Cass. pen. n. 29237 del 2010).
41. In sintonia con i principi appena richiamati si colloca la legge n. 197 del 2017, recante “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”, in nessun modo applicabile al caso in esame, che ha dato veste normativa all’esigenza avvertita in ambito sovranazionale e nazionale di incentivare l’emersione di pratiche illegali, nel settore del lavoro pubblico e privato, prevedendo canali che consentano la presentazione di denunce o segnalazioni e meccanismi di protezione dei lavoratori dal rischio di condotte ritorsive.
42. Nel tracciare un equo componimento dei diversi beni di rilievo costituzionale, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che l’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, sia che si realizzi attraverso l’espressione di critiche, purché nei limiti di continenza formale e materiale tracciati, e sia che si traduca nella denuncia alle autorità competenti di fatti illeciti, di rilievo penale o amministrativo, purché non di carattere calunnioso, non possa di per sé costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. L’obbligo di fedeltà imposto al lavoratore non può spingersi fino al punto da comprimere, oltre i limiti sopra individuati, l’esercizio del diritto tutelato dall’art. 21 Cost. e dall’art. 1 dello Statuto dei lavoratori.
43. La fattispecie oggetto di causa presenta alcune peculiarità, rispetto ai casi oggetto delle precedenti pronunce, legate alla qualifica del lavoratore come dirigente e direttore generale della società, con le implicazioni che da ciò discendono, sia per le responsabilità connesse alla figura di direttore generale e sia per il rilievo, oltre che della giusta causa, anche della giustificatezza del licenziamento.
44. Il ruolo di direttore generale rivestito dal R. rende necessario un approfondimento sulle specifiche responsabilità legate a tale figura e sul diritto al dissenso quale meccanismo di esonero dalla responsabilità.
45. L’art. 2932 cod. civ., al cui contenuto fa riferimento la sentenza impugnata, prevede: “1. Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori. 2. In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. 3. La responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale”. L’art. 2396 cod. civ. estende ai direttori generali le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori (v. Cass. pen. n. 11087 del 2022).
46. Il dissenso è, letteralmente, la mancanza di consenso. Il termine descrive, in senso atecnico, la condizione di chi ha un’opinione o un giudizio diverso rispetto ad altri. In ambito giuridico, il dissenso esprime una volontà difforme, “non conforme” secondo la dizione di cui all’art. 1326, comma 5, cod. civ. e quindi l’antitesi di quel consenso necessario all’accordo delle parti (di cui all’art. 1325 n. 1 cod. civ.). Mentre il consenso si basa su un rapporto di convergenza tra le due volontà, il dissenso rivela la condizione opposta, la non coincidenza tra le due dichiarazioni di volontà. In linea generale, rispetto agli atti collegiali (come le delibere assembleari o di un consiglio di amministrazione) che interessano nel caso in esame, il dissenso impedisce l’uniformità delle dichiarazioni di volontà e l’imputazione al dissenziente della responsabilità e delle conseguenze pregiudizievoli dell’atto deliberato. Il dissenso, quale manifestazione di volontà, non coincide con le critiche, sebbene il diritto al dissenso possa svolgersi attraverso la formulazione di critiche dirette a spiegare le ragioni della divergenza di volontà e fermo, in tal caso, il rispetto dei limiti di continenza formale e sostanziale individuati dalla giurisprudenza.
47. La Corte d’appello ha ritenuto che la previsione di cui agli artt. 2392 e 2396 cod. civ. non potesse legittimare la condotta del lavoratore e che questi non avesse diritto di “pubblicizzare le proprie perplessità”, di “descrivere sempre pubblicamente le fattispecie di reato potenzialmente configurabili in caso di mancato accoglimento dei rilievi dallo stesso sollevato”, di “prospettare pubblicamente la potenziale commissione di reati da parte dei membri del CdA”.
La condotta del dirigente era ancora meno giustificabile, secondo la Corte di merito, dato che il rapporto di lavoro era nelle fasi iniziali, le critiche mosse non avevano documentazione a supporto, il bilancio poteva essere modificato, i dipendenti della datrice di lavoro e la società di revisione erano disponibili a valutare i rilievi mossi dal R., le censure espresse si erano rivelate sostanzialmente infondate. 48. Come osservato nel terzo motivo di ricorso, l’art. 2392 cod. civ. individua la sede di manifestazione del dissenso proprio nelle adunanze del consiglio di amministrazione e prescrive che tale dissenso sia fatto annotare senza ritardo nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio e che dello stesso si dia immeditata notizia per iscritto al presidente al collegio sindacale. Premesso il carattere non pubblico delle adunanze del consiglio di amministrazione, si rileva come in nessuna parte la disposizione in esame prescriva che il dissenso debba essere corredato da specifica documentazione a supporto oppure precluda la manifestazione dello stesso rispetto ad atti non definitivi o a fronte della disponibilità dei vari interlocutori ad apportare modifiche. Ciò coerentemente con la ratio della previsione in esame, comunque diretta ad evitare la commissione di condotte pregiudizievoli per la società, i soci e i soggetti terzi.
49. La statuizione d’appello, là dove ha ritenuto che la manifestazione di dissenso del R. esorbitasse dall’ambito di applicazione di cui agli artt. 2392 e 2396 cod. civ. per avere egli esposto le critiche “pubblicamente”, senza documenti a supporto e sapendo che si trattava di una bozza di bilancio modificabile, è frutto di una errata interpretazione di tali disposizioni.
50. La Corte d’appello ha affermato la legittimità del licenziamento valutando, oltre agli elementi appena indicati e considerati esorbitanti dai limiti di cui agli artt. 2392 e 2396 cod. civ., il contenuto delle critiche mosse dal R. attraverso la prospettazione di reati potenzialmente configurabili e la circostanza per cui tali critiche si erano rivelate sostanzialmente infondate, secondo quanto statuito dal primo giudice (alle cui motivazioni è fatto rinvio, peraltro in modo non del tutto conforme ai principi affermati da questa Corte in materia di motivazione per relationem; vedi per tutte: Cass. n. 2397 del 2021).
51. Tale complessivo comportamento dimostrava, secondo il collegio di merito, come il R. “già nelle fasi iniziali del rapporto […] si fosse volontariamente posto in contrapposizione con le scelte adottate dagli organi gestionali della società e come, quindi, non potesse sussistere alcun rapporto di fiducia”. Sulla base di tali considerazioni, la sentenza impugnata ha ritenuto integrata la giusta causa o, quanto meno, la giustificatezza del licenziamento.
52. Nel ritenere integrata (sia pure alternativamente alla giustificatezza) la giusta causa di recesso, la sentenza impugnata si è posta in contrasto con i principi di diritto sopra richiamati, ed enunciati in relazione all’art. 2119 cod. civ., in base ai quali deve escludersi che l’esercizio del diritto di critica, nel rispetto dei limiti già tracciati, e soprattutto la presentazione di una denuncia di illecito penale o amministrativo da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro possa essere di per sé fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, a meno che la denuncia non abbia carattere calunnioso, e senza che rilevino l’infondatezza della accusa e i limiti di continenza sostanziale e formale, dato che l’accusa di commissione di un illecito è per definizione disonorevole.
53. Tali principi comportano, necessariamente, che non possa attribuirsi rilevanza disciplinare atta ad integrare di per sé la giusta causa di recesso alla condotta di un lavoratore, dirigente e direttore generale che, senza neanche rivolgersi all’autorità giudiziaria o amministrativa, si limiti a ipotizzare la configurabilità di illeciti penali o amministrativi, mettendo in guardia i soggetti insieme a lui teoricamente responsabili, e ciò faccia nelle sedi e con le modalità specificamente previste dall’ordinamento, come negli artt. 2392 e 2396 cod. civ.
54. La sentenza impugnata ha ritenuto integrato, comunque, il requisito di giustificatezza del licenziamento, di cui al c.c.n.l. applicato.
55. È stato costantemente affermato che la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, legata alla particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 1 della legge n. 604 del 1966, potendo rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. Ne consegue che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili “ex ante”, o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso, con valutazione rimessa al giudice di merito (v. Cass. n. 2246 del 2022; n. 27971 del 2018; n. 15496 del 2008).
56. Si è precisato come, ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, sia rilevante qualsiasi motivo che lo sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, atteso che non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti al dirigente (v. Cass. 34736 del 2019; n. Cass. 6110 del 2014).
57. In altre pronunce (Cass. n. 4729 del 2002; 13839 del 2001; 71 del 2000; 22 del 2000) si è affermato che la giustificatezza del licenziamento consiste nell’assenza di arbitrarietà, o, per converso, nella ragionevolezza del provvedimento datoriale che lo dispone, da correlare alla presenza di valide ragioni di cessazione del rapporto, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede e fermi i generali divieti di discriminazione e di abuso del diritto.
58. In una fattispecie assimilabile a quella in esame, questa Corte ha escluso la “giustificatezza” del licenziamento di una dirigente determinato dalle perplessità da questa sollevate in ordine alla regolarità, sotto i profili contabili e fiscale, delle modifiche apportate al bilancio di esercizio della società della quale era dipendente (v. Cass. n. 15749 del 2002). In particolare, in relazione alla condotta della lavoratrice, consistita nel non voler effettuare le rettifiche ai dati contabili imposte dalla società tramite il suo consulente e l’amministratore, rifiuto giustificato dall’esigenza di evitare irregolarità nella predisposizione del bilancio e di non esporre se stessa a qualche forma di corresponsabilità, si è ritenuta coerente con i principi di diritto la conclusione dei giudici di merito secondo cui il provvedimento espulsivo adottato dalla società si ponesse in contrasto con il principio di buona fede poiché i comportamenti della dirigente erano motivati da specifiche ragioni risultate non pretestuose.
59. Nei confronti del R., la Corte d’appello ha ritenuto integrato il requisito di giustificatezza del licenziamento in base agli stessi elementi valorizzati ai fini della giusta causa e incentrati sulla “contrapposizione” con le scelte datoriali desumibile dalla complessiva condotta come ricostruita, giudicata sufficiente a elidere ogni rapporto di fiducia, oltre che sulla “sostanziale infondatezza delle accuse espresse alla bozza di bilancio”, richiamata quale dato idoneo a “corroborare la fondatezza del provvedimento espulsivo”.
60. Deve tuttavia rilevarsi come il legame fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale non possa determinare alcuna automatica compressione del diritto di critica, di denuncia e di dissenso spettante, secondo i principi costituzionali e le norme di diritto sopra richiamate, al lavoratore. Dal che consegue che anche nel rapporto di lavoro dirigenziale e ai fini della giustificatezza del recesso, il giudice di merito deve procedere ad una accurata opera di componimento tra l’accentuato obbligo di fedeltà – legame fiduciario – del dirigente e il diritto di critica, di denuncia e di dissenso al medesimo spettante, escludendo che l’esercizio di tali diritti, ove avvenga nei limiti già tracciati dalla giurisprudenza e quindi in maniera ragionevole e non pretestuosa nonché con modalità formalmente corrette, possa integrare di per sé la nozione di giustificatezza del licenziamento.
61. Con particolare riferimento al dirigente che rivesta la qualifica di direttore generale, deve affermarsi che non integra di per sé la giustificatezza del licenziamento la condotta del dirigente – direttore generale che, anche al fine di non incorrere in responsabilità verso la società per atti e comportamenti degli amministratori, eserciti, in maniera non pretestuosa, il diritto al dissenso nelle sedi proprie, di cui all’art. 2392 c.c., con modalità non diffamatorie o offensive.
62. Per le ragioni esposte, risultano fondati, nei limiti appena esposti, il secondo e il terzo motivo di ricorso.
63. Il quarto motivo di ricorso è invece infondato.
64. In materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo l’addebito non grave o comunque non meritevole della massima sanzione (Cass. n. 19115 del 2013; Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 19424 del 2005; Cass. n. 11100 del 2006). Si è inoltre sottolineato come il criterio dell’immediatezza, esplicazione del generale precetto di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, vada inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un’unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, ovvero quando la complessità dell’organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell’organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento dei fatti e, quindi, di adozione dei relativi provvedimenti (Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007; Cass. n. 19159 del 2006; Cass. n. 6228 del 2004; Cass. n. 12141 del 2003).
65. In base a tali principi deve riconoscersi la correttezza giuridica della sentenza impugnata, che ha dato conto del tempo occorrente (circa un mese e mezzo) per gli accertamenti resi necessari a seguito delle critiche mosse dal R. nel corso del consiglio di amministrazione, e che hanno richiesto l’intervento anche della società di revisione.
66. Neppure il quinto motivo di ricorso può trovare accoglimento.
67. Ove anche si riconoscesse l’omesso esame del fatto-documento rappresentato dall’organigramma presentato durante il Convention day, non si tratterebbe di fatto decisivo ai fini del demansionamento, come richiesto dall’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. La sentenza impugnata ha accertato il difetto di allegazioni e prove sul demansionamento e sui danni rivendicati e il motivo di ricorso in esame non censura specificamente questa ratio decidendi ma si limita a invocare un danno in re ipsa, contrario peraltro ai principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 21 del 2019; n. 25743 del 2018; n. 29047 del 2017; n. 19785 del 2010; S.U. n. 6572 del 2006).
68. Per le ragioni finora esposte, accolti il secondo e il terzo motivo di ricorso nei limiti sopra indicati e rigettati i residui motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Milano che procederà ad un nuovo esame della fattispecie uniformandosi ai principi di diritto enunciati, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, rigetta i residui motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Milano, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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