CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza depositata il 7 febbraio 2020, n. 2927
Trattamento previdenziale di anzianità – Inps – Mancato riconoscimento del beneficio della rivalutazione contributiva – Pregiudizio patrimoniale patito
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 6.2.2014, la Corte d’appello di Potenza, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda con cui S.B. aveva chiesto dichiararsi il proprio diritto al riconoscimento del trattamento previdenziale di anzianità con decorrenza dal 30.6.2003 e al pagamento dei ratei di pensione maturati fino al 30.6.2008, nonché – previa declaratoria d’illegittimità della condotta dell’INPS consistita nel mancato riconoscimento del beneficio della rivalutazione contributiva ex art. 13, I. n. 257/1992 – condannarsi l’ente previdenziale ad un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale patito in conseguenza della violazione delle regole dettate per la corretta attuazione del rapporto previdenziale e al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti per non aver potuto esercitare un’altra scelta di vita.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che la domanda giudiziale avesse natura sostanzialmente risarcitoria e che i pregiudizi di tipo patrimoniale e non patrimoniale lamentati in giudizio fossero carenti perfino di compiuta allegazione, prima ancora che di prova.
Ricorre contro tali statuizioni S.B., con tre motivi di censura, illustrati con memoria. L’INPS ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere la Corte di merito ritenuto che l’oggetto della sua domanda giudiziale fosse di tipo risarcitorio, laddove il petitum riguardava anche il trattamento previdenziale spettantegli a far data dal 30.6.2007, rispetto al quale i ratei di pensione dovuti e non percepiti costituivano «il parametro di riferimento per determinare e quantificare il danno» (cosi il ricorso per cassazione, pag. 9).
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione di legge e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto che il trattamento previdenziale non potesse conseguire per il divieto di cumulo tra pensione e retribuzione ed altresì per aver ritenuto che la domanda di risarcimento di danno patrimoniale fosse carente di allegazione circa l’entità del danno patito.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per non avere la Corte di merito riconosciuto la sussistenza di alcun danno non patrimoniale, nonostante che l’ammissibilità di un danno conseguente al non aver potuto adottare una legittima scelta di vita fosse stata ritenuta da questa Corte con sentenza n. 3023 del 2010.
Ciò premesso, il primo motivo è infondato.
Questa Corte ha da tempo consolidato il principio secondo cui il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (così, tra le più recenti, Cass. n. 21087 del 2015): e nella specie, affatto correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che il contenuto sostanziale della pretesa fatta valere dall’odierno ricorrente avesse natura sostanzialmente risarcitoria, sol che si pensi che perfino nel ricorso introduttivo della presente fase di legittimità il ricorrente ha sostenuto che i ratei di pensione asseritamente dovutigli e non percepiti costituivano, come dianzi ricordato, «il parametro di riferimento per determinare e quantificare il danno» da lui patito per non aver potuto godere della pensione prima del 1°.10.2008, epoca in cui gli era stata effettivamente riconosciuta.
Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso. Indipendentemente dalle considerazioni svolte dalla Corte territoriale circa l’impossibilità di cumulare la pensione di anzianità con la retribuzione da lavoro dipendente, ciò che rileva in specie è che i giudici di merito abbiano ritenuto che il pregiudizio patrimoniale lamentato in giudizio non avesse formato oggetto di compiuta allegazione e prova (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata): e che si tratti di affermazione corretta, prima ancora che incontestabile in questa sede di legittimità (salvo che per omesso esame circa un fatto decisivo, che qui non ricorre), emerge dall’assunto perorato anche nel presente giudizio di cassazione secondo cui il danno patrimoniale, nel caso di specie, sarebbe in re ipsa, discendendo dal mancato godimento della pensione, dall’avere il ricorrente dovuto inoltrare richieste e reclami in via amministrativa dal 2001 al 2009 e dall’aver dovuto introdurre un primo giudizio per il riconoscimento dei benefici rivendicati e ingiustamente negati dall’INPS, e dovrebbe pertanto prescindere dalla circostanza che egli abbia nel frattempo continuato o meno a lavorare autonomamente e a produrre reddito (così il ricorso per cassazione, pag. 19, e la memoria ex art. 378 c.p.c., pag. 12).
Orbene, che una domanda risarcitoria di un danno patrimoniale possa prescindere dall’allegazione e prova del danno è stato costantemente escluso da questa Corte di legittimità sulla scorta della chiara disposizione contenuta nell’art. 1223 c.c.; qui è solo il caso di ricordare che la nozione di danno in re ipsa perviene surrettiziamente ad identificare il danno con l’evento dannoso e a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con il consolidato orientamento di legittimità secondo cui ciò che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente precisazione secondo cui un danno punitivo può essere ritenuto compatibile con l’ordinamento vigente solo in caso di sua espressa previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost. (così da ult. Cass. n. 31233 del 2018, dove il richiamo a Cass. S.U. nn. 26972 del 2008 e 16601 del 2017).
Le superiori considerazioni, peraltro, depongono per la palese infondatezza anche del terzo motivo di ricorso: è sufficiente al riguardo rilevare che nessuna dispensa dall’onere probatorio circa la sussistenza del danno non patrimoniale può ricavarsi da Cass. n. 3023 del 2010, essendosi questa Corte colà pronunciata esclusivamente sull’astratta configurabilità di un danno non patrimoniale alla persona che, a causa del ritardo nella concessione della prestazione pensionistica, non aveva potuto esercitare una legittima scelta di vita, ciò che nella specie non è stato negato in radice, ma semplicemente ritenuto non provato (così la sentenza impugnata, pagg. 8-9).
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 3.700,00, di cui € 3.500,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
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