CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 15503 depositata il 29 maggio 2023
Tributi – Avvisi di accertamento – Maggiori redditi di impresa rispetto a quelli dichiarati – Verifica fiscale svolta oltre i limiti temporali previsti – Domanda di definizione agevolata – Violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente – Studi di settore
Fatti di causa
Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a C.V. due avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni 2006 e 2007, aveva contestato maggiori redditi di impresa rispetto a quelli dichiarati; avverso gli atti impositivi la contribuente aveva proposto separati ricorsi che, previa riunione, erano stati parzialmente accolti dalla Commissione tributaria provinciale di Foggia; l’Agenzia delle entrate aveva quindi proposto appello.
La Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Foggia, ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: la verifica fiscale si era svolta oltre i limiti temporali previsti, potendosi tenere conto solo dei periodi di sospensione e di interruzione che erano stati determinati da effettive esigenze di completezza del controllo, non anche da problemi organizzativi interni dei verificatori; circa, poi, la deducibilità dei costi per spese di carburante, era prova sufficiente degli stessi la circostanza che il pagamento era avvenuto con carte di credito o carte di debito o prepagate, in quanto consentivano di identificare il soggetto che aveva effettuato il rifornimento e l’esatto ammontare della spesa sostenuta; inoltre, ai fini dell’accertamento induttivo, era comunque necessario tenere conto della specifica realtà aziendale e, in questo contesto, non poteva essere considerato verosimile un ricarico di oltre la misura del cento per cento, mentre doveva considerarsi corretta la misura percentuale già applicata dall’ufficio per il precedente anno di imposta in relazione al quale, proprio in considerazione della specifica realtà aziendale in cui l’attività era stata svolta per 8/12 dell’anno, erano stati ridimensionati anche i ricavi espressi dagli studi di settore.
Avverso la suddetta pronuncia l’Agenzia delle entrate ha quindi proposto ricorso affidato a cinque motivi di censura, cui ha resistito la contribuente depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.
Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. T.B., ha depositato le proprie conclusioni con le quali ha chiesto l’accoglimento del primo motivo ed il rigetto dei restanti motivi di ricorso.
La contribuente, con atto del 7 giugno 2019, ha depositato domanda di definizione agevolata relativamente all’avviso di accertamento (…), ai sensi D.L. n. 119 del 2018, art. 6, cui ha fatto seguito il provvedimento di diniego della definizione agevolata.
La contribuente ha quindi proposto ricorso avverso il suddetto provvedimento di diniego, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.
Ragioni della decisione
Sul ricorso avverso il diniego di definizione agevolata Preliminarmente, va esaminato il ricorso proposto in data 22 giugno 2020 avverso il provvedimento di diniego della domanda di definizione agevolata tramesso in data 28 aprile 2020.
Va precisato che dalla sentenza oggetto di censura risultavano notificati alla contribuente due diversi avvisi di accertamento di cui solo quello portante il n. (…) è stato oggetto di domanda di definizione agevolata, mentre per l’ulteriore avviso di accertamento n. (…) non risulta presentata alcuna domanda di definizione agevolata, sicché solo relativamente al primo può porsi la questione dell’eventuale effetto estintivo sulla pretesa.
Ciò precisato, con il motivo di ricorso avverso il provvedimento di diniego della definizione agevolata si evidenzia che con il suddetto atto di diniego si era evidenziato che la domanda di definizione non era corretta perché, avendo il giudice di primo grado solo parzialmente accolto il ricorso introduttivo della contribuente, la definizione della lite avrebbe dovuto avvenire con il pagamento di un importo pari al quindici per cento del valore della controversia, non risultando corretto, pertanto, il versamento del solo cinque per cento, come invece operato dalla contribuente.
Evidenzia la contribuente che non correttamente l’ufficio ha ritenuto che il giudizio di primo grado si era concluso con una pronuncia di accoglimento parziale della domanda, posto che, anche se la contribuente, in sede di ricorso di primo grado, aveva chiesto, in via principale, l’annullamento dell’accertamento e in via subordinata l’applicazione degli studi di settore, con la pronuncia di primo grado era stata accolta la domanda da essa proposta, sicché si dovrebbe ritenere che l’Agenzia delle entrate era risultata totalmente soccombente, in quanto l’accertamento era stato ritenuto illegittimo accogliendo la prospettazione della contribuente, sebbene formulata in via subordinata, di applicazione degli studi di settore ai fini della corretta determinazione del quantum dovuto.
Il motivo è infondato.
Ai sensi del d.l. n. 119/2018, art. 6 comma 2ter, le controversie tributarie pendenti innanzi alla Corte di cassazione, per le quali l’Agenzia delle entrate risulti soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio, possono essere definite con il pagamento di un importo pari al cinque per cento del valore della controversia.
Pertanto, il pagamento della misura del cinque per cento ai fini della regolarità della domanda di definizione della lite postula che l’Agenzia delle entrate sia risultata totalmente soccombente in entrambi i gradi di giudizio.
Ai fini della definizione della presente questione, va quindi verificato se l’Agenzia delle entrate era stata totalmente soccombente nei giudizi di merito.
Va quindi precisato che si ha parziale soccombenza quando la pretesa fatta valere da una delle parti in giudizio non sia stata totalmente accolta dal giudice e ciò si verifica quando la domanda proposta si articola in diverse autonome postulazioni di giudizio e solo talune di esse sono state accolte.
Nel caso di specie, la contribuente aveva proposto, con il ricorso originario, la domanda di annullamento integrale della pretesa dell’amministrazione finanziaria, sia per violazione della l. n. 212 del 2000, art. 12 sia perché l’atto impositivo era in contrasto con le disposizioni di legge e perché privo di logicità e solo in via subordinata aveva richiesto che la misura del maggiore reddito fosse adeguata a quella dei ricavi previsti dagli studi di settore.
In sostanza, quel che la parte aveva richiesto, con il ricorso originario era, in via principale, il totale annullamento della pretesa e, in via subordinata, la riduzione della pretesa nel senso del suo adeguamento a quanto risultante dagli studi di settore.
La circostanza che, dunque, il giudice di primo grado ha accolto solo la domanda subordinata, finalizzata ad una riduzione della pretesa, implica il rigetto della domanda principale diretta al totale annullamento della pretesa, sicché, in questo caso, deve ragionarsi in termini di parziale soccombenza.
Ne consegue che, correttamente, l’Agenzia delle entrate ha emesso il provvedimento di diniego della domanda di definizione agevolata, non essendo corretta l’autoliquidazione dell’importo dovuto nella misura del cinque per cento che postula, invero, la totale soccombenza dell’amministrazione finanziaria in entrambi i gradi di giudizio, circostanza non riscontrabile nella fattispecie.
Di conseguenza, non può ritenersi che la domanda di definizione agevolata proposta dalla contribuente abbia avuto l’effetto estintivo del processo relativamente all’avviso di accertamento n. (…), per il quale soltanto, pertanto, la domanda era stata presentata.
Pertanto, deve procedersi all’esame dei motivi di ricorso proposti relativamente alla pretesa fatta valere con i due avvisi di accertamento oggetto del contendere.
Sui motivi di ricorso
Preliminarmente va disattesa l’eccezione della controricorrente di inammissibilità del ricorso per avere omesso di impugnare la statuizione del giudice del gravame con la quale è stato dichiarato inammissibile l’atto di appello.
In realtà, i passaggi della sentenza censurata evidenziati dalla controricorrente si limitano ad enunciare principi di ordine generale in ordine all’esigenza di motivi specifici ai fini dell’impugnazione che contengano critiche ai diversi passaggi motivazionali della pronuncia del giudice di primo grado, ma non si risolve in alcun modo in una valutazione della inammissibilità dell’atto di appello ma in una specifica verifica della fondatezza dei motivi di appello, tanto da concludere con una statuizione di rigetto del medesimo, dopo avere evidenziato, peraltro, ai fini delle spese, l’obiettiva controvertibilità delle questioni, segno evidente che la decisione ha avuto a specifico riferimento le doglianze di merito prospettate con l’atto di appello.
Va altresì disattesa l’ulteriore eccezione della controricorrente di inammissibilità di tutti i motivi di ricorso per essere stati formulati postulando contemporaneamente sia il vizio di violazione che di falsa applicazione di legge che hanno riferimento, in realtà, alle sole violazioni di norme sostanziali, in quanto, al di là delle espressioni utilizzate nella redazione dei singoli motivi di ricorso, è il contenuto degli stessi che costituisce parametro di valutazione della legittima prospettazione delle ragioni di censura.
Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della l. n. 212 del 2000, art. 12 comma 5, per avere erroneamente ritenuto che la eventuale permanenza dei verificatori oltre il termine di trenta giorni comporti l’illegittimità dell’attività di verifica, atteso che si sarebbero dovuti considerare solo i giorni di effettiva presenza e inoltre, che, nella fattispecie, la permanenza dei militari oltre i limiti stabiliti dalla legge e le sospensioni dell’indagine fiscale si erano rese necessarie per consentire alla contribuente di rinvenire ed esibire la documentazione richiestale o di fornire elementi utili ai fini dell’attività di controllo.
Sebbene parte ricorrente prospetti una violazione della previsione normativa nella parte in cui il giudice del gravame non ha considerato i tempi di effettiva permanenza dei verificatori, assume rilevanza decisiva la considerazione di fondo in ordine alla natura ordinatorio del termine previsto dall’art. 12, comma 5, cit., profilo che sta a monte della stessa questione prospettata con il presente profilo.
La suddetta considerazione, pertanto, finalizzata ad evidenziare a monte la natura ordinatoria del termine, consente di disattendere l’eccezione della controricorrente di inammissibilità del presente motivo per non avere indicato la durata ritenuta effettiva e documentato la permanenza degli operatori.
Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, né la nullità di tali atti può ricavarsi dalla ratio delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione (Cass. civ., 5 ottobre 2012, n. 17002).
Si è anche precisato che la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dalla l. n. 212 del 2000, art. 12 comma 5, non determina la decadenza del fisco dal potere-dovere di accertare il debito del contribuente e, quindi, non inficia la validità dell’accertamento, poiché non si tratta di un termine perentorio, in mancanza di una specifica disposizione in tal senso e attesa l’incongruità di una siffatta qualificazione rispetto alla sua ratio ed alla possibilità di deroga con il mero consenso motivato del dirigente interno” (Cass. civ., 17 luglio 2014, n. 16323).
Con le sentenze n. 7584/2015 e n. 2055/2017, questa Corte ha ulteriormente precisato che la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dalla l. n. 212 del 2000, art. 12 comma 5, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, né l’invalidità degli atti compiuti o l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati (Cass. civ., 15 aprile 2015, n. 7584; Cass. civ., 27 gennaio 2017, n. 2055).
Non correttamente, quindi, il giudice del gravame ha ragionato in termini di inutilizzabilità delle risultanze istruttorie o di venir meno del potere accertativo anche ove vi fosse stata la violazione del termine di permanenza dei verificatori presso la contribuente.
Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del DM 7 giugno 1977, del D.P.R. n. 444 del 1997, e del d.l. n. 70 del 2011, art. 7 comma 2, lett. p), in materia di costi per spese carburanti, per avere erroneamente ritenuto che, ai fini della deduzione dei suddetti costi, non fossero necessarie le schede carburanti, essendo sufficiente il fatto che il pagamento era avvenuto con carte di credito, carte di debito e carte prepagate.
Evidenzia parte ricorrente che la previsione contenuta nel comma 3bis, dell’art. 1 d.p.r. n. 444 del 1997, introdotto dal d.l. n. 70 del 2011, art. 7 comma 2, lett. p), ha esonerato dall’obbligo di tenuta della scheda carburante i soggetti all’imposta sul valor aggiunto che acquistano carburante esclusivamente mediante carte di credito, carte di debito o carte prepagate, ma la suddetta previsione non può applicarsi al periodo in contestazione precedente alla sua entrata in vigore, per il quale il legislatore aveva disposto l’essenzialità, ai fini della prova, della scheda carburante.
Il motivo è fondato.
Va evidenziato che non può darsi rilievo alla considerazione di parte controricorrente secondo cui il giudice del gravame avrebbe liberamente e prudentemente valutato ed apprezzato la produzione della documentazione di carte di credito e di debito come idonea a provare la spesa per l’acquisto di carburanti e, pertanto, accertato la deducibilità del costo.
Invero, quel che parte ricorrente contesta con il presente motivo di ricorso è proprio la idoneità della produzione documentale, pur valorizzata dal giudice del gravame, al fine della prova dei costi sostenuti per le spese di carburante.
Questa Corte (Cass. civ., 26 novembre 2014, n. 25122) ha più volte precisato che il d.p.r. n. 444 del 1997, art. 1 (Regolamento recante norme per la semplificazione delle annotazioni da apporre sulla documentazione relativa agli acquisti di carburante per autotrazione) ha previsto che gli acquisti di carburante per autotrazione, effettuati presso gli impianti stradali di distribuzione da parte di soggetti IVA, siano annotati, nei termini e con le modalità stabiliti nello stesso decreto, in una apposita scheda (la c.d. “scheda carburante”), sostitutiva della fattura di cui al d.p.r. n. 633 del 1972, art. 22 comma 3, che gli imprenditori e i professionisti devono richiedere per gli acquisti effettuati da commercianti al minuto.
La scheda, che, ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. n., deve essere tenuta e conservata nei modi e termini indicati nel d.p.r. n. 633 del 1972, art. 39 è condizione per la detrazione, se spettante, dell’iva relativa al carburante acquistato, nonché per la documentazione della spesa agli effetti dell’applicazione delle imposte sul reddito e dell’Irap. Per assolvere tali funzioni essa deve rispettare i requisiti di forma e di contenuto richiesti dalla legge e, quindi, deve essere redatta in conformità al modello allegato al D.P.R. n. 444 del 1997, nel quale è riservato uno spazio per l’indicazione dei Km. (art. 1, comma 1).
Inoltre si è precisato che la scheda carburante non è surrogabile da altri documenti (Cass. civ., 19 ottobre 2018, n. 26448; Cass. civ., 30 novembre 2016, n. 24409).
Sotto tale profilo, non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto l’utilizzabilità, ai fini della prova del costo sostenuto, della documentazione comprovante il pagamento con carte di credito, carte di debito o carte prepagate, non essendo tale prova documentale contemplata, ratione temporis, in relazione ai periodi di imposta oggetto di verifica (anni 2006 e 2007)
Solo con il successivo d.l. 13 maggio 2011, n. 70, art. 7 comma 2, lettera p), (c.d. Decreto sviluppo), convertito con l. 12 luglio 2011, n. 106, dunque in data successiva ai periodi di imposta in esame, è stato aggiunto il comma 3-bis all’art. 1 del richiamato d.p.r. n. 444 del 1997, prevedendo che “In deroga a quanto stabilito al comma 1, i soggetti all’imposta sul valore aggiunto che effettuano gli acquisti di carburante esclusivamente mediante carte di credito, carte di debito o carte prepagate emesse da operatori finanziari soggetti all’obbligo di comunicazione previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, art. 7, comma 6, non sono soggetti all’obbligo di tenuta della scheda carburante previsto dal presente regolamento”.
Si tratta, dunque, di una disciplina alternativa alla scheda carburante entrata in vigore in data successiva e, quindi, non applicabile alla presente fattispecie per la quale, come detto, solo la scheda carburante costituiva elemento di prova dei costi sostenuti.
Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., e del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 18 comma 2, lett. e), per avere erroneamente ritenuto che i fatti non contestati possono essere liberamente valutati dal giudice come argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., in quanto, invece, l’art. 115 c.p.c., prevede espressamente l’obbligo di porre a fondamento della decisione i fatti non contestati.
Sotto tale profilo, evidenzia parte ricorrente che avrebbero dovuto essere considerati non contestati i costi recuperati a tassazione per i quali non erano state sollevate effettive contestazioni, quali: costi d’esercizio/contributi associativi; costi per viaggi e soggiorni; oneri finanziaria/interessi passivi; costi di funzionamento e manutenzione; costi riguardanti le autovetture.
Il motivo è fondato.
La statuizione del giudice del gravame ha escluso che la circostanza che la contribuente non avesse contestato la illegittimità della pretesa relativa alla indeducibilità di taluni costi non impedisse al procedere, comunque, all’esame della sussistenza degli elementi di prova posti a fondamento della suddetta pretesa.
In realtà, il ragionamento decisorio del giudice del gravame risulta viziato sotto due diversi profili.
In primo luogo, quel che il giudice era chiamata a verificare era se la questione della non deducibilità dei suddetti costi era stata prospettata con la domanda introduttiva, posto che è questa che segna i limiti della postulazione di giudizio entro i quali soltanto il giudice è chiamato a pronunciarsi, sicché, in caso di mancata specifica ragione di doglianza avverso la pretesa impositiva, è estraneo al giudizio ogni questione ad essa relativa.
D’altro lato, il principio di non contestazione, nella sua applicazione derivante dalla previsione di cui all’art. 115, comma 1, c.p.c., ha riguardo ai limiti di prova che il giudice deve porre a fondamento della decisione, il che si traduce, processualmente, sul piano della prova, non anche della individuazione dei limiti della domanda, ricostruibile solo tenendo conto dello specifico contenuto dei motivi di doglianza prospettati dalla parte con l’atto introduttivo del giudizio.
Se, quindi, la parte non ha in alcun modo prospettato alcuna ragione di doglianza relativamente ad una determinata pretesa, non si pone un problema di prova per la ragione che quella questione è estranea al thema decidendum e, quindi, al successivo thema probandum.
Erroneamente, dunque, il giudice del gravame ha ritenuto che la circostanza che la contribuente non avesse proposto alcuna ragione di doglianza avverso taluni costi ritenuti indeducibili non costituisse un limite all’attività di valutazione in ordine alla sussistenza degli elementi probatori posti a fondamento della pretesa.
Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 2697, c.c., e della Cost. art. 53 per avere erroneamente ritenuto rispettoso del principio della capacità contributiva un accertamento basato sugli studi di settore riguardante una annualità precedente rispetto a quella di riferimento piuttosto che quello che si avvalga dei dati specificamente afferenti l’attività svolta e che si fondi su di una percentuale di ricarico che scaturisca dall’esame e dall’elaborazione della relativa contabilità. Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 36 comma 2, dell’art. 132 c.p.c., e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., per avere reso una motivazione apparente in ordine alla questione della corretta applicazione della percentuale di ricarico da applicare agli anni in contestazione.
I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono fondati.
La questione che viene prospettata è se e in che misura l’accertamento basato sugli studi di settore relativamente all’anno di imposta 2005 possa essere utilizzato come parametro di riferimento a favore del contribuente anche per le annualità successive (2006 e 2007).
In realtà, come si evince dal ricorso, rispetto all’annualità 2005, il cui accertamento è stato basato sugli studi di settore, il successivo accertamento per le annualità 2006 e 2007 è stato operato procedendo con metodo analitico-induttivo, quindi a seguito dell’esame e della verifica della contabilità, in contraddittorio con la parte, procedendo alla ricostruzione contabile del magazzino desunto dall’inventario fisico della merce giacente al momento dell’accesso e riconducendo i beni inventariati alle rispettive fatture.
Va quindi osservato che, secondo l’indirizzo consolidato di questa Corte, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente; in tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
Dunque, il procedimento di accertamento standardizzato trova il proprio punto centrale nell’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale, che consente l’adeguamento degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, determinando il passaggio dalla fase statica (gli standard come frutto dell’elaborazione statistica) alla fase dinamica dell’accertamento (l’applicazione degli standard al singolo destinatario dell’attività accertativa) (Cass. civ., 15 luglio 2020, n. 14981).
Quel che rileva, in tal caso, dunque, è il riferimento agli standard di ricostruzione per la elaborazione statistica della normale redditività ed il previo contraddittorio con il contribuente, cui incorre l’onere di dare la specifica dimostrazione delle ragioni per cui la realtà concreta dell’impresa ha comportato uno scostamento dagli stessi.
La procedura di accertamento analitico-induttivo, invece, postula una verifica dei dati contabili e perviene, sulla base di diversi elementi di prova presuntiva, ad un accertamento del maggior reddito diverso da quello dichiarato dal contribuente.
Pertanto, la possibilità di applicare le risultanze degli studi di settore per l’anno 2005 anche per gli anni successivi non può dirsi operante quando per questi ultimi l’ufficio ha proceduto utilizzando un diverso metodo di accertamento, basato sulla ricostruzione analitico-induttiva del reddito, poiché in tal caso, vengono utilizzati ulteriori e diversi elementi indiziari che, comportando una variazione del dato statistico propri degli studi di settore, implicano una diversa ricostruzione della concreta realtà dell’azienda perché basata su ulteriori e diversi elementi presuntivi.
Sotto tale profilo, quel che è imposto, in tali casi, al contribuente di provare, ed al giudice di valutare, è la non idoneità degli elementi di prova presuntiva fatti valere dall’amministrazione finanziaria al fine di fondare l’accertamento del maggior reddito mediante metodo analitico-induttivo, non potendosi fare riferimento alle risultanze di una diversa procedura di accertamento che, per l’anno precedente, si era basata su di una ricostruzione basata sugli studi di settore.
Il giudice del gravame, pur avendo dato atto della circostanza che l’accertamento per gli anni in esame era avvenuto con metodo analitico-induttivo ha, erroneamente, ritenuto che dovesse prevalere quello calcolato ed impiegato dallo stesso ufficio sulla base degli studi di settore relativi all’anno precedente, non tenendo conto, per quanto detto, dei diversi elementi di prova presuntiva sui quali si è basato l’accertamento per gli anni successivi.
In questo ambito, non correttamente il giudice del gravame ha, parimenti, ritenuto che la verifica della concreta realtà aziendale della società potesse prescindere da un esame dei nuovi e diversi elementi di prova presuntiva sui quali si è basato l’accertamento per gli anni in contestazione.
In questo contesto, risulta corretta la ragione di censura prospettata con il quinto motivo di ricorso secondo cui la motivazione della sentenza non dà alcuna spiegazione delle ragioni per le quali, pur avendo riconosciuto che le maggiori pretese dell’amministrazione finanziaria trovavano la loro fonte su di una ricostruzione analitico-induttiva del maggior reddito, ha ritenuto che fosse rispettoso del principio della capacità contributiva l’accertamento dei maggiori ricavi desumibili dall’applicazione dello studio di settore per l’anno precedente, nonostante che, come si evince dal processo verbale di constatazione riprodotto, in questo caso la percentuale di ricarico era stata calcolata, in contraddittorio con la contribuente, sulla scorta delle informazioni desunte dalla contabilità di magazzino, attraverso la riconciliazione operata tra l’inventario fisico della merce giacente al momento dell’accesso e le fatture di acquisto rinvenute in contabilità, con conseguente determinazione della percentuale di ricarico medio ponderato praticato dalla contribuente.
In conclusione, va rigettato il ricorso avverso il provvedimento di diniego di definizione agevolata, sono fondati i motivi di ricorso avverso la sentenza censurata, con conseguente accoglimento del ricorso e rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso avverso il provvedimento di diniego della definizione agevolata, accoglie il ricorso avverso la sentenza censurata e cassa la sentenza con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, sezione staccata di Foggia, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
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