CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 16116 depositata il 7 giugno 2023
Lavoro – TFR – Adesione al Fondo di previdenza complementare – Fallimento – Insinuazione al passivo – Legittimazione – Fondo di garanzia INPS – Diritto alla portabilità e al riscatto – Conferimento del TFR maturato – Insolvenza del datore di lavoro per mancato versamento – Titolarità del credito nei confronti del datore fallito – Delegazione di pagamento e cessione del credito – Surroga del Fondo di garanzia al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi – Legittimazione del Fondo all’insinuazione al passivo in caso di cessione – Accoglimento
Fatti di causa
1.- Il Giudice delegato al (…) s.p.a. ha escluso dallo stato passivo il credito di Euro 14.218,725, insinuato «al privilegio ex art. 2751-bis cod.civ. e L. 297/82» a titolo di «TFR via via maturato e solo in parte versato dall’azienda al Fondo complementare (…) al quale il sig. (…) aveva aderito», per difetto di legittimazione attiva del ricorrente, o rigettando altresì «la richiesta di rinvio per la notifica al Fondo ai fini della surroga ex art. 2900 c. 2 c.c. perché incompatibile con la speditezza dell’attuale fase di verifica e perché la domanda del creditore che agisce in surroga dovrebbe avere ad oggetto l’insinuazione a favore del Fondo rimasto inerte, e non in proprio favore».
1.1. – (…) ha proposto opposizione ex art. 98 I.fall., ritenendo erronea l’affermazione che, con l’adesione al Fondo di previdenza complementare, il lavoratore avrebbe «operato una cessione del proprio credito per il TFR maturando in favore del Fondo», poiché in realtà «lo strumento giuridico prescelto dal lavoratore per il conferimento del Fondo era da intendersi, secondo la prospettazione del ricorrente, quale delegazione di pagamento».
1.2. – Il Tribunale di Siracusa ha rigettato l’opposizione ritenendo:
i) che «nell’ipotesi di insolvenza del datore di lavoro che abbia provveduto ad accantonare il TFR conferito al Fondo di previdenza complementare, senza tuttavia versarlo, il soggetto creditore nei confronti della procedura fallimentare, e quindi legittimato ad insinuarsi al passivo del (…) sia unicamente il Fondo al quale il TFR è stato conferito dal lavoratore», salva la possibilità di agire in via surrogatoria, in caso di inerzia del Fondo, ex art. 2900 c.c.;
ii) che alla luce del d.lgs. n. 252 del 2005, art. 8, commi 7-10, e art. 11, deve ritenersi che il lavoratore, con il “conferimento” volontario del TFR maturando (esplicito o tacito, ma non revocabile) ad una forma di previdenza complementare, «attua una vera e propria cessione del relativo diritto» al Fondo ed acquisisce il diritto alla diversa «prestazione pensionistica, in rendita o in capitale, quando maturerà i requisiti per l’accesso alle prestazioni della previdenza obbligatoria», fatte salve possibili anticipazioni limitate;
iii) che ciò è indirettamente confermato dall’art. 5, d.lgs. n. 80 del 1992 (che ha istituito «presso l’INPS un apposito Fondo di garanzia contro il rischio derivante dall’omesso o insufficiente versamento, da parte del datore di lavoro insolvente, dei contributi alle forme di previdenza complementare»), per cui il Fondo di garanzia corrisponde le quote di TFR non versate dal datore di lavoro direttamente al Fondo pensione, non al lavoratore (comma 2) e che, in tali casi, «il Fondo è surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi, versati a norma del comma 2» (comma 3);
iv) che questa tesi sarebbe coerente con la circolare INPS n. 23 del 22/02/2008 – in base alla quale «ai fini dell’intervento del Fondo di Garanzia il lavoratore deve ottenere l’accertamento dell’esistenza di uno specifico credito relativo alle omissioni contributive per le quali si chiede l’intervento del Fondo, e ciò mediante l’ammissione del credito nello stato passivo della procedura» – poiché il riferimento all’ammissione al passivo del lavoratore dovrebbe intendersi in via surrogatoria, per il caso di inerzia del Fondo complementare;
v) che ove si riconoscesse la legittimazione attiva del lavoratore, la sua ammissione al passivo, «in caso di utile riparto, determinerebbe un’inammissibile monetizzazione anticipata dell’accumulo previdenziale, in palese contrasto con le previsioni di cui al d.lgs. n. 252/2005 le quali, come già evidenziato, subordinano il diritto alla prestazione pensionistica complementare alla maturazione dei requisiti per l’accesso alle prestazioni della previdenza obbligatoria, e il diritto di chiedere delle anticipazioni – peraltro limitate sia nell’an che nel quantum – al verificarsi delle fattispecie espressamente tipizzate dalla legge»;
vi) che nel caso di specie il lavoratore aveva originariamente agito iure proprio e la domanda surrogatoria spiegata per la prima volta in sede di opposizione è inammissibile, in quanto nuova.
1.3. – Avverso detta decisione (…) ha proposto cinque motivi di ricorso per cassazione; il Fallimento intimato non ha svolto difese.
2. – Con ordinanza interlocutoria n. 17699 del 31/05/2022 la sezione 6-1 di questa Corte ha disposto la trattazione della causa in pubblica udienza.
Ragioni della decisione
2.1. – Con il primo motivo si denunzia «Violazione e falsa applicazione dell’art. 8 del Decreto legislativo 05/12/2005 n. 252 nonché degli artt. 75, 81 e 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c., per aver il Tribunale erroneamente interpretato come “cessione” il concetto di “conferimento” di cui al comma 7 dell’art. 8 del Decreto legislativo 05/12/2005 n. 252, escludendo la legittimazione attiva del ricorrente in violazione degli artt. 75, 81 e 100 c.p.c.», in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte per cui «nell’ipotesi di omesso versamento da parte del datore di lavoro del trattamento di fine rapporto accantonato in favore del Fondo di previdenza complementare scelto dal lavoratore, al fine di individuare il soggetto che abbia diritto ad insinuare allo stato passivo la pretesa creditoria deve essere preliminarmente accertata la natura e la funzione dello strumento negoziale di volta in volta utilizzato dalle parti, in virtù del favor per l’autonomia privata lasciato alle stesse in ambito previdenziale» (Cass. civ., sez. lav., 15/02/2019, n. 4626).
In particolare, il tribunale avrebbe ritenuto apoditticamente che si ha in ogni caso una cessione a favore del Fondo – con conseguente legittimazione esclusiva di quest’ultimo a proporre istanza di ammissione al passivo – mentre, «a fronte di mancata prova da parte della Curatela di una cessione (e di cui al 2° motivo di ricorso) e della presunzione, salva prova contraria, che la adesione al Fondo complementare configura una ipotesi di delegazione, il lavoratore è l’unico soggetto legittimato attivamente ad agire per ottenere il versamento dei contributi previdenziali omessi in favore del Fondo di previdenza complementare prescelto; e ciò anche perché il rapporto previdenziale complementare – a differenza del sistema pensionistico obbligatorio – non risponde al principio di automaticità della prestazione e l’omesso versamento dei contributi da parte del datore di lavoro e, per l’effetto, l’omesso accantonamento delle quote di TFR da parte del Fondo pensionistico, si ripercuote negativamente, in maniera diretta e concreta, sul lavoratore, unico interessato a beneficiare della prestazione previdenziale».
2.2. – Il secondo mezzo lamenta «Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. da parte del Tribunale per non aver ritenuto che l’onere della specifica indicazione del modulo negoziale (se delegazione o cessione) è a carico del Curatore e che, in caso di mancata prova da parte del curatore, l’espressione “conferimento” dell’art. 8 del Decreto legislativo 05/12/2005 n. 252 debba essere interpretata come delegazione e non come cessione».
Il ricorrente evidenzia che nel ricorso ex art. 98 l.fall. era stato specificamente contestato che l’onere della prova sullo strumento giuridico utilizzato per il conferimento del TFR gravasse sul lavoratore, ma «il Tribunale ha totalmente omesso qualunque motivazione, in conseguenza della suddetta erronea interpretazione dell’art. 8» del d.lgs. 252/05, mentre da Cass. 4626/2019 si evincerebbe che detto onere grava sul fallimento.
2.3. – Il terzo motivo denuncia «Violazione e falsa applicazione da parte del Tribunale degli artt. 1269 e 1270 c.c. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c. per non aver ritenuto che il meccanismo di adesione a fondi di previdenza complementare configuri la fattispecie della delegazione di pagamento di cui all’art. 1269 c.c. e che ai sensi dell’art. 1270 1° comma c.c., il delegante possa revocare la delegazione sino a quando il delegato non abbia assunto l’obbligazione in confronto del delegatario, o non abbia eseguito il pagamento».
In particolare, il tribunale non avrebbe considerato che il dipendente, «con l’adesione alla previdenza complementare, opera una vera e propria delegazione di pagamento al datore di lavoro, avente per oggetto il versamento dei contributi ai fini del TFR nei confronti del Fondo di previdenza complementare prescelto»; in tal modo, «una parte del TFR del dipendente viene trasferito al Fondo di previdenza complementare, che accumula – per conto dell’aderente – i contributi versati dal datore di lavoro ed assume l’obbligo di custodirli, gestirli, accantonarli ed incrementarli».
Pertanto, poiché la delegazione si scioglie con la dichiarazione di fallimento, e comunque con la richiesta del lavoratore, questi è legittimato a chiedere il pagamento delle quote di TFR non versate dal datore di lavoro insolvente, con il privilegio ex art. 2751 bis n. 1 c.c., anche in forza del principio di “intangibilità della retribuzione” (Cass. 12964/2010) applicabile alla previdenza complementare.
Infine, contrariamente a quanto sostenuto dal tribunale, sarebbe sintomatico della titolarità del diritto, e della conseguente legittimazione processuale in capo al lavoratore, l’art. 1, comma 2, lett. e), n. 8 della legge-delega n. 243 del 2004 – pur rimasto inattuato – che prevedeva la «attribuzione ai fondi pensione della contitolarità con i propri iscritti al diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto (…) e la legittimazione dei fondi stessi, rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributo omessi nonché l’eventuale danno derivante dal mancato conseguimento dei relativi rendimenti».
2.4. – Il quarto mezzo lamenta «Violazione e falsa applicazione da parte del Tribunale dell’art. 5, comma 3, del Dlgs 80/1992 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver interpretato e considerato il Fondo complementare privato come soggetto legittimato alla surrogatoria di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi, versati a norma del comma 2, e non il Fondo di Garanzia INPS», senza considerare che, come chiarito anche dalla circolare INPS n. 23 del 22/02/2008, «al fine di attivare l’intervento del Fondo di Garanzia INPS per integrare presso il Fondo complementare gli importi a tale titolo non versati dall’azienda, sussiste un interesse attuale e concreto dei lavoratori ad insinuarsi essi al passivo del fallimento, al fine di ottenere l’accertamento delle somme, necessario per poi attivare il successivo intervento del Fondo di Garanzia INPS».
Il lavoratore in tali ipotesi si deve quindi insinuare al passivo e, una volta ammesso, può «richiedere al Fondo di garanzia di integrare presso la gestione di previdenza complementare interessata soltanto i contributi risultanti omessi» (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 80 del 1992), sicché è il Fondo di Garanzia INPS (e non il Fondo complementare, come erroneamente sostenuto dal tribunale) ad essere «surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi, versati a norma del comma 2» (art. 5, comma 3 d.lgs. cit.), il quale si inserirà pro-quota nello stato passivo, in luogo del lavoratore.
2.5. – Con il quinto motivo ci si duole della «Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 4, 12 e 13 del d.lgs. 252/2005 per aver il Tribunale ritenuto che la natura del TFR possa mutare a seconda che il lavoratore scelga espressamente di versarlo all’INPS o ad un Fondo privato o rimanga inerte».
Osserva il ricorrente che, a fronte della triplice scelta disponibile per il lavoratore – «1) scelta espressa di mantenere il TFR in azienda; 2) opzione per il TFR ad un Fondo complementare; 3) il silenzio: in tale ultimo caso, a decorrere dal mese successivo alla scadenza dei sei mesi ivi previsti, il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando dei dipendenti alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, ovvero, in caso di presenza di più forme pensionistiche, a quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda; in mancanza il TFR trasferito alla forma pensionistica complementare istituita presso l’INPS (come accaduto per la (…) )» – il tribunale, con interpretazione illogica, ricollega alle tre scelte una «trasformazione della natura del TFR», senza che da alcuna norma emerga l’intenzione del legislatore di modificare la natura delle «quote del TFR», ovvero la natura sostanzialmente “retributiva” (o in ogni caso contributiva) del diritto conferito al Fondo e la «diretta titolarità» del diritto in capo al lavoratore.
Sottolinea poi che «la giurisprudenza della Corte di Cassazione (anche a sezioni unite.) ha insistito nell’affermare che le prestazioni pensionistiche integrative o complementari sono, anch’esse come il TFR, retribuzione differita con funzione previdenziale» e che, «non diversamente, anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha avuto, più volte, modo di affermare che le prestazioni erogate dai regimi di previdenza complementare privata rientrano nella nozione di retribuzione dettata dall’art. 14 (ex articolo 119) del Trattato UE».
Aggiunge, infine, che il tribunale ha del tutto trascurato «la distinzione fra i fondi chiusi (ex art. 3 del D.lgs. 252/2005, di origine “negoziale”, che sono forme pensionistiche complementari istituite dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro nell’ambito della contrattazione nazionale, di settore o aziendale), i fondi aperti [ex art. 12 del D.lgs. 252/2005, che sono forme di accantonamento complementari istituite da banche, imprese di assicurazioni, società di gestione del risparmio (SGR) e società di intermediazione mobiliare (…) ed, infine, i Piani pensionistici individuali (PIP) (art. 13 del D.Lgs. 252/2005, che rappresentano i contratti di assicurazione sulla vita con finalità previdenziale)», e non ha quindi considerato che gli statuti dei cd. fondi aperti «lasciano ampiamente libero il lavoratore di riscattare totalmente e/o parzialmente le somme versate e/o di cambiare istituto di previdenza complementare in qualsiasi momento», per cui, «in tali casi, se il lavoratore ha la piena facoltà di disporre del TFR, riscattandolo in tutto o in parte o trasferendolo, tale diritti sono incompatibili con il concetto di cessione del credito, così come ipotizzato dal Tribunale di Siracusa».
3. – I motivi, in quanto connessi, vanno esaminati congiuntamente e meritano accoglimento.
3.1. – Per un rapido inquadramento della controversia, giova premettere che la disciplina delle forme pensionistiche complementari, collocate nell’alveo dell’art. 38 Cost., al pari della previdenza obbligatoria (secondo la teoria della “funzionalizzazione della previdenza complementare”: cfr. Corte cost. n. 421 del 1995 e n. 393 del 2000), trova il suo attuale referente normativo nel d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, emanato in attuazione della legge- delega n. 243 del 2004 (“Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria”), che ha operato una riforma organica del settore, nella prospettiva di una complessiva armonizzazione e razionalizzazione, informandolo al principio di autonomia (ancorché “funzionalizzata”).
In particolare, l’art. 1, comma 2, d.lgs. 252/05 prevede che «l’adesione alle forme pensionistiche complementari … è libera e volontaria» mentre il successivo art. 3, comma 1, dispone che «le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari», nella loro modulazione negoziale collettiva e regolamentare, «stabiliscono le modalità di partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale».
3.2. – Per quanto rileva in questa sede, il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è attuabile mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro e del committente, o anche attraverso il conferimento del TFR maturando (art. 8, comma 1, d.lgs. 252/05), che comporta l’adesione alle forme pensionistiche complementari, in modalità espressa o tacita, ai sensi dell’art. 8, comma 7, lett. a), b), d.lgs. cit.; sono queste le risorse che i fondi gestiscono secondo le modalità previste dall’art. 6 e che costituiscono la provvista delle prestazioni erogate a norma del successivo art. 11.
3.3. – La rigidità degli effetti conseguenti all’adesione al Fondo, previsti dall’art. 11 del d.lgs. 252/05 (che vincola la partecipazione individuale fino alla maturazione, a norma del secondo comma, dei requisiti per la riscossione delle prestazioni pensionistiche, fatta salva la previsione statutaria o regolamentare del Fondo della possibilità di riscatto della posizione individuale ai sensi del successivo art. 14, comma 1, nonché la facoltà di ottenere anticipazioni della posizione individuale maturata, a norma dello stesso art. 11, comma 7), è temperata dal sesto comma dell’art. 14, che, anche per incentivare la partecipazione dei lavoratori, prevede la cd. “portabilità” dell’intera posizione individuale (i.e. la facoltà del suo trasferimento ad un’altra forma di previdenza complementare).
3.4. – Completa il quadro di riferimento la recente affermazione, da parte delle Sezioni unite di questa Corte (Cass. Sez. U, 12209/2022), che “portabilità” e “riscatto” integrano un «principio generale del sistema previdenziale complementare» e rappresentano un “diritto” applicabile «a tutti i fondi complementari preesistenti all’entrata in vigore della l. n. 421 del 1992, indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, ivi compresi quelli funzionanti secondo il sistema cd. a ripartizione o a capitalizzazione collettiva e a prestazione definita, essendo comunque ravvisabile una posizione individuale di valore determinabile, la cui consistenza va parametrata ai contributi versati al Fondo, compresi quelli datoriali, ed ai rendimenti provenienti dal loro impiego produttivo».
In tal senso, il riconoscimento del diritto alla portabilità e al riscatto è in sintonia con l’assetto dato dal legislatore delegato al sistema previdenziale integrativo, mediante i decreti legislativi n. 124 del 1993 e n. 252 del 2005, con l’obiettivo di «favorire la reale liberalizzazione dei diversi veicoli pensionistici complementari e l’affermazione piena di una reale consapevolezza del risparmiatore nella scelta dello strumento ritenuto più idoneo alla realizzazione della copertura previdenziale», in una cornice normativa volta ad ampliare le libertà di scelta dei lavoratori iscritti alle forme pensionistiche complementari, coerentemente con l’estensione dei margini di libera circolazione nel sistema della previdenza complementare e in una logica di sviluppo, in senso compiutamente europeo, della disciplina nazionale» (il riferimento è alla Direttiva 1998/49/CE del 29 giugno 1998 relativa alla salvaguardia dei diritti a pensione complementare dei lavoratori subordinati e dei lavoratori autonomi che si spostano all’interno della Comunità europea; alla Direttiva n. 2003/41/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, 3 giugno 2003, relativa alle attività e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali – EPAP; alla Direttiva 2014/50/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, relativa ai requisiti minimi per accrescere la mobilità dei lavoratori tra Stati membri migliorando l’acquisizione e la salvaguardia di diritti pensionistici complementari).
4. – Ciò premesso in linea generale, l’aspetto più delicato della disciplina delle forme pensionistiche complementari riguarda proprio il “conferimento” del TFR maturando, poiché, nell’ipotesi di insolvenza del datore di lavoro che abbia accantonato il TFR conferito al Fondo di previdenza complementare, senza tuttavia versarlo, si pone il problema di individuare – nell’ambito del rapporto associativo tra lavoratore e Fondo, intermediato dal datore di lavoro (quale debitore delle quote tempo per tempo maturate) – quale sia il soggetto legittimato ad insinuare allo stato passivo la corrispondente pretesa creditoria, anche alla luce della previsione dell’intervento dell’apposito Fondo di Garanzia dell’Inps, in caso di omissione contributiva del datore di lavoro soggetto a procedura concorsuale, con diritto di surrogazione al lavoratore, a norma dell’art. 5, commi 2 e 3, d.lgs. 80/1992.
La questione in rilievo è dunque se la legittimazione attiva ai fini dell’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro, per le quote del TFR conferito dal dipendente a un Fondo di previdenza complementare – via via maturate e accantonate, ma non versate dal datore di lavoro medesimo – spetti al dipendente, ovvero al Fondo di previdenza complementare.
4.1. – Tale questione è stata puntualmente affrontata dalla sezione lavoro di questa Corte, con il precedente invocato dal ricorrente (Cass., sez. lav. n. 4626 del 2019), nel quale era in discussione proprio l’individuazione del soggetto che avesse il diritto di insinuare allo stato passivo la pretesa creditoria.
4.2. – Nella citata pronuncia è stata sottolineata l’atecnicità dell’espressione “conferimento”, contenuta nell’art. 8, comma 1, d.lgs. 252/05 – ritenuta «un sintomo ulteriore, sotto il profilo della libertà di selezione dello strumento negoziale, del favor per l’autonomia privata in tale ambito previdenziale rispetto a quello obbligatorio» – e la conseguente necessità di accertare la natura e la funzione del mezzo di volta in volta utilizzato dal lavoratore ai fini dell’adesione al Fondo di previdenza complementare (liberamente negoziabile tra le parti) e, segnatamente, se si tratti di «una delegazione di pagamento, con incarico conferito dal lavoratore al datore di versare le quote di TFR al Fondo, ovvero di loro cessione, quale credito futuro, direttamente dal lavoratore al Fondo, o strumenti ad essi assimilabili», trattandosi di opzioni che comportano «evidenti effetti diversi, in ordine alla titolarità del credito nei confronti del datore fallito (da insinuare allo stato passivo della procedura concorsuale)».
5. – Anche la Sezione prima civile di questa Corte si è pronunciata sulla questione in esame, affermando la legittimazione attiva del lavoratore ad insinuarsi al passivo fallimentare per le quote di TFR maturate e non versate al Fondo complementare dal datore di lavoro, poi fallito (Cass. 24510/2021, 12009/2018).
5.1. – In particolare, nella pronuncia del 2021 si è osservato, in continuità con il precedente del 2018, che, «anche dopo la modifica della disciplina del trattamento di fine rapporto, nel nuovo e più composito panorama normativo (che prevede, per le aziende con almeno 50 dipendenti, il versamento degli accantonamenti presso il Fondo di Tesoreria INPS e anche la possibilità per il lavoratore di optare per un sistema di previdenza complementare) resta fermo il fatto che il TFR costituisce a tutti gli effetti un credito del lavoratore, la cui esigibilità è subordinata alla cessazione del rapporto»; di conseguenza «le quote accantonate del TFR, tanto che siano trattenute presso l’azienda, quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria dello Stato presso l’I.N.P.S. ovvero conferite in un Fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina l’esigibilità».
5.2. – E’ stato così ribadito il principio in base al quale «il lavoratore è legittimato a domandare l’ammissione per le quote di TFR maturate e non versate dal datore di lavoro fallito al Fondo Tesoreria dello Stato gestito dall’INPS (o al Fondo complementare) poiché il datore di lavoro non è un mero adiectus solutionis causa e non perde la titolarità passiva dell’obbligazione di corrispondere il TFR stesso» (Cass. 24510/2021; conf. Cass. 12009/2018).
5.3. – Nei menzionati precedenti è stato altresì evidenziato come «le disposizioni in esame delineano un sistema in cui l’intervento del Fondo, nei casi in cui è previsto, dà luogo ad un rapporto trilaterale tra il datore di lavoro, il Fondo ed il prestatore di lavoro, in virtù del quale: a) il primo è obbligato nei confronti del secondo a versare il TFR, al pari di quanto avviene per le contribuzioni previdenziali; b) il secondo è tenuto ad erogare le prestazioni secondo le modalità previste dall’art. 2120 cod. civ., nei limiti della quota maturata a decorrere dall’1 gennaio 2007, mentre la parte rimanente resta a carico del datore di lavoro; c) la materiale erogazione del TFR è affidata al datore di lavoro anche per la parte di competenza del Fondo, salvo conguaglio sui contributi dovuti al Fondo stesso ed agli altri enti previdenziali».
6. – Successivamente (ma prima, si noti, dell’intervento delle Sezioni Unite n. 12209 del 2022, sopra citato sub. 3.4.) la Sezione lavoro di questa Corte, nel pronunciarsi su fattispecie relativa al mancato versamento da parte del datore di lavoro delle somme dovute a titolo di contribuzione a Fondo di previdenza complementare, a fronte di una delega dei dipendenti al prelievo dalle buste paga, ha affermato che, «in tema di fondi pensione complementari, le regole civilistiche dettate in tema di delegazione di pagamento e di sua revoca sono incompatibili con la disciplina speciale di cui al d.lgs. n. 252 del 2005, essendo demandata agli statuti dei fondi, ex art. 14 della legge citata, l’individuazione delle modalità di trasferimento ad altre forme pensionistiche, nonché di riscatto totale e parziale; ne consegue che, prestata l’adesione al Fondo, non ne è consentita la revoca, ma solo la cessazione per il venir meno dei presupposti ed il trasferimento ad altra previdenza complementare, salvo, in ogni caso, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte i contributi, qualora detto inadempimento si riverberi sulla prestazione da godere, ovvero, in caso di insolvenza del datore di lavoro, salva la possibilità di sollecitare l’intervento del Fondo di garanzia ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 80 del 1992» (Cass. sez. lav., n. 2406 del 2022).
6.1. – Tale pronuncia richiama in motivazione i principi affermati da Cass. Sez. U, 4784/2015 (che invero riguarda i contributi del datore di lavoro, i quali hanno sicuramente natura previdenziale e non appartengono a patrimonio del lavoratore), sostenendo:
i) che i versamenti effettuati dal datore di lavoro, in proprio ed anche per conto dei lavoratori, hanno natura contributiva e non retributiva (conf. Cass. sez. U, 16084/2021), tenuto conto che la stessa Corte costituzionale (sentenze n. 178 del 2000 e n. 412 del 1995) ha affermato che il legislatore ha inserito la previdenza integrativa nel sistema dell’art. 38 Cost., per cui le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi non possono più definirsi “emolumenti retributivi con funzione previdenziale”, ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale;
ii) che «la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto; ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del Fondo»;
iii) che, «in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa – il che può verificarsi quando non siano integrati tutti i presupposti per la maturazione del diritto – il dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro», a conferma dell’inesistenza di un nesso di corrispettività;
iv) che l’art. 8 del d.lgs. n. 252 del 2005 «ribadisce che il finanziamento dei fondi avviene a mezzo di versamento di contributi che non vanno ad immediato vantaggio del lavoratore, ma sono finalizzati proprio a garantire la funzione del trattamento integrativo», per cui, «una volta che si sia aderito al Fondo, l’obbligazione contributiva di finanziamento è del lavoratore nei confronti del Fondo stesso e lo strumento attraverso il quale essa viene adempiuta (una trattenuta sullo stipendio e successivo versamento a cura del datore di lavoro) non muta la natura dell’obbligazione che resta contributiva e dunque previdenziale»;
v) che, in merito alla applicabilità dell’art. 1270 cod. civ., «le regole dettate dal codice civile in tema di delegazione di pagamento e di sua revoca risultano incompatibili con la disciplina speciale dettata dal d.lgs. n. 252 del 2005, che demanda agli Statuti ed ai regolamenti la definizione delle modalità (art. 14 comma 1) di trasferimento ad altre forme pensionistiche complementari, delle regole per la permanenza nella forma pensionistica complementare nonché di riscatto totale o parziale delle posizioni individuali i casi di riscatto parziale (art. 14 comma 1 lett. b) o totale (art. 14 comma 1 lett. c)»;
vi) che, «a fronte di una già prestata adesione, che può essere anche tacita come per il tfr, non è consentita la revoca ma solo la cessazione per venir meno dei presupposti e il trasferimento ad altra previdenza complementare (v. art. 14 d.lgs. 252 del 2005)», salvo «il diritto al risarcimento del danno da azionare direttamente nei confronti del datore di lavoro che abbia trascurato di versare in tutto o in parte il contributo volontario del lavoratore qualora si riverberi sulla prestazione da godere ovvero, nel caso di insolvenza del datore di lavoro, persiste la possibilità di sollecitare l’intervento del Fondo di garanzia ai sensi dell’art.5 del d.lgs. n. 80 del 1992»;
vii) che «il lavoratore ben può agire per ottenere coattivamente il versamento delle somme da parte del datore di lavoro che le abbia trattenute. Quello che invece non può fare, perché le finalità della disciplina legislativa sono quelle di assicurare una speciale tutela ai fondi complementari per garantirne il funzionamento, è proprio chiedere la restituzione degli importi trattenuti. La correttezza di tale ricostruzione trova conferma proprio nella circostanza che è accordata all’assicurato la facoltà di chiedere l’intervento del Fondo di garanzia in caso di insolvenza»;
viii) infine, e soprattutto, che non vi sarebbero «argomenti per limitare l’intervento del Fondo ai soli contributi posti a carico diretto del datore di lavoro e non anche a quelli in relazione ai quali il datore di lavoro funge da intermediario del pagamento, atteso che contro il rischio dell’omesso o insufficiente versamento (…) al Fondo è possibile chiedere l’integrazione dei versamenti stessi ma non anche la corresponsione dei relativi importi»;
ix) di conseguenza, che «l’insinuazione al passivo del lavoratore è meramente prudenziale ed opera per il caso di inerzia dell’Istituto».
7. – Ad avviso del Collegio, ed in linea con le conclusioni del P.G., le suddette argomentazioni – che peraltro riguardano solo incidentalmente il tema della contribuzione del lavoratore mediante accantonamento delle quote di TFR – non sono idonee a superare il pregresso orientamento, di cui sopra si è dato conto, al quale si intende dare continuità.
7.1. – Non appare in primo luogo condivisibile l’affermata incompatibilità tra l’istituto generale della delegazione di pagamento e gli istituti speciali della cd. portabilità e del riscatto, contemplati dal d.lgs. n. 252 del 2005, di fronte a risorse in tesi non ancora entrate nel patrimonio del Fondo di previdenza complementare, ma indebitamente trattenute dal datore di lavoro.
Merita invece conferma la diversa impostazione, già sostenuta dalla stessa sezione lavoro, per cui occorre verificare se il “conferimento” del TFR si sia concretamente tradotto in una vera e propria cessione, ovvero in una delegazione di pagamento ai sensi dell’art. 1270 c.c., poiché, in caso di fallimento, il contratto di mandato – quale è la delegazione di pagamento – si scioglie (art. 78, comma 2, l.fall.).
Ciò anche in considerazione del fatto che il sistema della previdenza complementare è sottratto al principio dell’automaticità delle prestazioni, proprio della previdenza pubblica, nel cui ambito il nesso tra contribuzione e prestazione (intimamente correlate, per quanto concettualmente distinte) risulta “allentato” in funzione del principio di solidarietà (Cass. Sez. U, 16084/2021).
7.2. – Non appare convincente nemmeno l’interpretazione data all’art. 5, d.lgs. 80/1992, sostenuta anche dal giudice a quo.
La norma citata dispone: i) che «contro il rischio derivante dall’omesso o insufficiente versamento da parte dei datori di lavoro sottoposti a una delle procedure di cui all’art. 1» (i.e. fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria) «dei contributi dovuti per forme di previdenza complementare di cui all’art. 9-bis del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, nella legge 1 giugno 1991, n. 166, per prestazioni di vecchiaia, comprese quelle per i superstiti, è istituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale un apposito Fondo di garanzia» (comma 1); ii) che «nel caso in cui, a seguito dell’omesso o parziale versamento dei contributi di cui al comma 1 ad opera del datore di lavoro, non possa essere corrisposta la prestazione alla quale avrebbe avuto diritto, il lavoratore, ove il suo credito sia rimasto in tutto o in parte insoddisfatto in esito ad una delle procedure indicate al comma 1, può richiedere al Fondo di garanzia di integrare presso la gestione di previdenza complementare interessata i contributi risultati omessi» (comma 2); iii) che «il Fondo è surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi, versati a norma del comma 2» (comma 3).
7.3. – Ebbene, dal testo della norma emerge chiaramente che il lavoratore ha diritto di vedere soddisfatte le proprie pretese in sede concorsuale e che, in caso di insoddisfazione totale o parziale nell’ambito della procedura di riferimento, può chiedere l’intervento del Fondo di garanzia per integrare presso il Fondo complementare i contributi non versati dal datore di lavoro, nel qual caso il Fondo di garanzia «è surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi».
Si tratta dunque di un diritto che compete in prima battuta al lavoratore nei confronti del datore di lavoro, tanto che, in caso di fallimento di quest’ultimo, è mera facoltà del lavoratore richiedere l’intervento del Fondo di garanzia, il quale poi si surroga al lavoratore nell’ammissione al passivo fallimentare.
Diversamente, la legittimazione all’insinuazione al passivo rimane in capo al lavoratore, il cui rapporto con il Fondo di previdenza complementare resta disciplinato dalle specifiche regole associative.
7.4. – Tale interpretazione è avvalorata ancor più chiaramente dalla circolare INPS n. 23 del 22/02/2008, per cui «ai fini dell’intervento del Fondo di Garanzia il lavoratore deve ottenere l’accertamento dell’esistenza di uno specifico credito relativo alle omissioni contributive per le quali si chiede l’intervento del Fondo, e ciò mediante l’ammissione del credito nello stato passivo della procedura».
8. – Come visto, il Tribunale sostiene che attraverso il “conferimento” volontario, esplicito o tacito, da parte del lavoratore (…) del TFR maturando ad una forma di previdenza complementare, si attua una vera e propria cessione del relativo diritto al fondo di previdenza di volta in volta individuato».
8.1. – Al contrario, l’utilizzo, nell’art. 8, d.lgs. n. 252 del 2005, di un’espressione atecnica e omnicomprensiva, quale “conferimento”, può essere letto come elemento sintomatico della volontà del legislatore di favorire l’autonomia privata nell’ambito della previdenza complementare (rispetto a quella obbligatoria), consentendo la libera selezione dello specifico strumento negoziale tramite cui effettuare il finanziamento del Fondo previdenziale, il quale può quindi estrinsecarsi non solo in una delegazione di pagamento (con mandato del lavoratore al proprio datore di lavoro di versare le quote di TFR al Fondo), ma anche in una cessione al Fondo del credito futuro per quote di TFR.
Di qui la necessità di ricostruire la volontà delle parti, accertando, in particolare, se il conferimento del TFR sottenda una delegazione di pagamento (art. 1268 cod. civ.) ovvero la cessione di un credito futuro (art. 1260 cod. civ.), poiché si tratta di una qualificazione che incide sulla titolarità del diritto e sulla conseguente legittimazione a dedurlo in causa, come di recente osservato anche dal Giudice delle Leggi, tenuto conto della mancata attuazione delle previsioni della legge-delega «in ordine alla contitolarità, in capo ai fondi pensione e agli iscritti, del diritto alla contribuzione e del diritto al TFR (art. 1, comma 2, lettera e), numero 8, della legge n. 243 del 2004)» (Corte cost. 15 luglio 2021, n. 154).
Al riguardo il P.G. sottolinea nella sua requisitoria che quella contitolarità avrebbe forse ovviato ai contrasti interpretativi emersi (cui ha contribuito anche l’inerzia dei fondi, sovente registrata nella prassi), facendo proprio l’auspicio della Consulta di «una più attenta sistemazione da parte del legislatore, chiamato a risolvere le aporie che pur emergono dalle questioni oggi scrutinate», in una «materia assai rilevante sul piano delle attese sinergie fra mutualità volontaria e regime pensionistico pubblico».
8.2. – Ai fini che ne occupano non va trascurato che il contesto normativo di riferimento, e in particolare l’art. 5, d.lgs. 80/1992 (della cui esegesi si è dato conto sopra, anche alla luce della citata circolare INPS n. 23/2008), lascia presumere che il “conferimento” in parola mantenga ferma la legittimazione attiva del lavoratore, dovendosi perciò in linea di principio interpretare (anche in ragione del favor lavoratoris) come mera delegazione di pagamento – destinata a sciogliersi con il fallimento, a norma dell’art. 78, comma 2, legge fall. – salvo che dai documenti prodotti dalle parti a supporto, rispettivamente, della domanda e della eventuale eccezione di difetto di legittimazione attiva, o comunque dall’istruttoria svolta, emerga che si sia trattato di una vera e propria cessione di credito, con conseguente trasferimento del relativo diritto al Fondo complementare, da cui consegue la legittimazione attiva di quest’ultimo.
9. – Va dunque affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di previdenza complementare, il generico riferimento, contenuto nell’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 252 del 2005, al “conferimento” del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari, lascia aperta la possibilità che le parti, nell’esplicazione dell’autonomia negoziale loro riconosciuta dall’ordinamento, pongano in essere non già una delegazione di pagamento (art. 1268 cod. civ.) bensì una cessione di credito futuro (art. 1260 cod. civ.).
In caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di TFR maturate e accantonate ma non versate al Fondo di previdenza complementare spetta, di regola, al lavoratore, stante lo scioglimento del rapporto di mandato in cui si estrinseca la delegazione di pagamento al datore di lavoro, salvo che dall’istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del Fondo predetto, cui in quel caso spetta la legittimazione attiva ai sensi dell’art. 93 legge fall.“.
9.1. – Il decreto impugnato va quindi cassato con rinvio affinché il Tribunale di Siracusa decida la causa attenendosi ai principi sopra indicati, oltre a provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato nei sensi di cui in motivazione e rinvia al Tribunale di Siracusa, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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