CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 1792 depositata il 17 gennaio 2024
Lavoro – Licenziamento senza preavviso – Procedimento disciplinare – Processo penale – CCNL – Rigetto
Fatti di causa
Il ricorrente, dipendente di Roma Capitale (quondam Comune di Roma) con qualifica di tecnico geometra presso il IX Municipio, venne licenziato senza preavviso all’esito di un procedimento disciplinare che era stato sospeso e poi riattivato, perché avente ad oggetto alcuni comportamenti illeciti per i quali egli aveva anche subito un processo penale conclusosi con la condanna per tentata induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.).
Il lavoratore impugnò il licenziamento davanti al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ritenendolo nullo sia per motivi formali che per la sproporzione della sanzione rispetto ai fatti definitivamente accertati.
Il Tribunale respinse la domanda del lavoratore, il quale si rivolse quindi alla Corte d’Appello di Roma, che respinse a sua volta l’impugnazione, confermando la sentenza di primo grado.
Contro la sentenza della Corte d’Appello il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo. Roma Capitale si è difesa con controricorso. Il ricorrente ha anche depositato memoria illustrativa. Il Pubblico Ministero ha rassegnato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso. Alla pubblica udienza sono intervenuti il rappresentante del Pubblico Ministero e il difensore del ricorrente.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 5, del CCNL 2006-2009, nella formulazione applicabile ratione temporis alla controversia, dell’art. 653 c.p.p., dell’art. 35, comma 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, della legge n. 848/1955, nella parte in cui l’ha recepita, in relazione al n. 3 e n. 4 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.».
1.1. Oggetto di attenzione da parte del ricorrente è il rapporto tra procedimento disciplinare e processo penale nel quale egli, dopo essere stato imputato di due episodi di tentata concussione, venne alla fine condannato ad un anno di reclusione per un solo caso di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.).
Per comprendere la doglianza è necessario riassumere brevemente le vicende del processo penale, sulla base dei dati desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata.
In primo grado il ricorrente era stato condannato a 5 anni e 6 mesi di reclusione per due ipotesi di tentata concussione (art. 317 c.p.). La derubricazione del reato da concussione a indebita induzione e l’estinzione per prescrizione di uno dei due reati contestati vennero statuite nel processo d’appello. La sentenza d’appello venne impugnata davanti alla Corte di Cassazione, che la annullò, limitatamente al trattamento sanzionatorio, con sentenza del 12.1.2016. In sede di rinvio la Corte d’Appello di Roma ridusse la pena detentiva inflitta ad un anno di reclusione con sentenza del 2.3.2017. Contro questa sentenza l’imputato propose nuovamente ricorso per cassazione, che fu dichiarato inammissibile il 10.10.2018, con sentenza che venne poi comunicata a Roma Capitale il 18.3.2019.
1.2. Nel presente processo, poiché la sospensione del procedimento disciplinare risale al 20.6.2008, trova applicazione il CCNL del personale non dirigente del Comparto Regione e Autonomie locali 2006-2009 e, in particolare, l’art. 4, comma 5, in forza del quale, «il procedimento disciplinare precedentemente sospeso è riattivato entro 90 giorni da quando l’ente ha avuto comunicazione della sentenza definitiva e deve concludersi entro i successivi 120 giorni dalla sua riattivazione».
Ebbene, il ricorso per cassazione è volto a sostenere che il termine per la riattivazione del procedimento disciplinare non venne rispettato da Roma Capitale, perché la «sentenza definitiva» del processo penale andrebbe individuata nella prima sentenza della Corte di Cassazione (12.1.2016) e non in quella che dichiarò inammissibile il ricorso contro la sentenza pronunciata in sede di rinvio (10.10.2018). In tal modo, si censura la sentenza della Corte d’Appello di Roma qui impugnata, che ha invece individuato il dies a quo per la decorrenza del termine della riattivazione del procedimento disciplinare nella data in cui la seconda sentenza della Corte di Cassazione venne comunicata a Roma Capitale (18.3.2019), giudicando di conseguenza tempestive sia la riattivazione del procedimento disciplinare (3.5.2019), sia la sua conclusione (29.8.2019).
2. Il ricorso è infondato.
2.1. La Corte d’Appello di Roma ha correttamente interpretato l’art. 4 del CCNL citato, il cui primo comma dispone che, in caso di contestazione in sede disciplinare di fatti illeciti di rilevanza penale, «Il procedimento disciplinare rimane sospeso fino alla sentenza definitiva». Il quinto comma fa poi nuovamente riferimento alla «sentenza definitiva» per fissare il dies a quo del termine per la riattivazione del procedimento disciplinare, fissando anche il termine per la sua conclusione, che decorre dalla data di riattivazione del procedimento.
L’interpretazione della norma contrattuale secondo cui per «sentenza definitiva» si deve intendere la sentenza non più impugnabile che chiude il processo penale – e, quindi, in questo caso, la sentenza della Corte di Cassazione pronunciata il 10.10.2018 e comunicata a Roma Capitale il 18.3.2019 – è stata giustificata dal giudice del merito con tre convergenti argomenti: il tenore letterale della disposizione contrattuale; l’esigenza di certezza nello stabilire il termine perentorio per riattivare (e poi, di conseguenza, quello per concludere) il procedimento disciplinare; la necessità di fare conoscere alla pubblica amministrazione «ogni aspetto … della vicenda penale che ha coinvolto il dipendente e che è oggetto dell’azione disciplinare».
2.2. Il ricorso per cassazione si concentra soltanto sul terzo argomento utilizzato dalla Corte territoriale e lo fa ponendo la regola della sospensione del procedimento disciplinare in stretto nesso strumentale con l’efficacia di giudicato della sentenza penale in quel procedimento (art. 653 c.p.p.) e rilevando che l’ambito di tale efficacia di giudicato era già pienamente definito nella sentenza della Corte di Cassazione del 12.1.2016, che cassò la sentenza d’appello solo con riguardo alla determinazione della pena inflitta.
Rimangono pertanto intatti gli altri due argomenti utilizzati dalla Corte d’Appello.
2.2.1. Sul piano letterale, indubbiamente l’espressione «sentenza definitiva» fa riferimento alla definizione del processo e, quindi, al momento in cui in quel processo viene pronunciata una sentenza non più impugnabile con mezzi ordinari. Il diverso riferimento al momento in cui, nel processo penale, diviene definitivo l’accertamento dei fatti oggetto di contestazione disciplinare avrebbe richiesto l’uso di una diversa formula letterale, quale potrebbe essere, appunto: «Il procedimento disciplinare rimane sospeso fino al definitivo accertamento dei fatti nel processo penale».
2.2.2. Ma ancor più persuasivo è il secondo argomento utilizzato nella sentenza impugnata, ovverosia quello che fa leva sull’esigenza di certezza nell’individuazione di un termine fissato a pena di decadenza. È evidente che l’individuazione della sentenza che chiude il processo perché non più impugnabile con mezzi ordinari non pone alcuna difficoltà, essendo tale sentenza connotata sul piano delle forme processuali; mentre l’individuazione della sentenza che contiene l’accertamento definitivo dei fatti rilevanti ai fini del giudizio disciplinare richiede un esame del contenuto della sentenza, prestandosi a possibili divergenze interpretative.
2.2.3. Per quanto riguarda, poi, il terzo argomento su cui poggia la sentenza impugnata, non si condivide la premessa, che è alla base della critica svolta dal ricorrente, secondo cui la sospensione del procedimento disciplinare troverebbe la sua esclusiva ratio nell’efficacia di giudicato della futura sentenza penale.
In realtà, come osservato dalla Corte d’Appello, l’esito del processo penale e le considerazioni ivi svolte anche quoad poenam (art. 133 c.p.) possono essere di interesse, anche se non vincolanti, nella definizione del procedimento disciplinare.
2.3. Sulla scorta di quanto fin qui motivato in ordine alla corretta individuazione della «sentenza definitiva», è chiaro che non può essere condivisa nemmeno la tesi alternativamente proposta dal ricorrente secondo cui quella sentenza andrebbe individuata nella decisione emessa dalla Corte d’Appello di Roma il 2.3.2017, in sede di rinvio dopo la prima sentenza della Corte di Cassazione.
Si tratta, infatti, di una sentenza impugnabile con un mezzo ordinario, qual è il ricorso per cassazione, e che venne infatti impugnata proprio dal ricorrente. Né potrebbe certo la definitività della sentenza essere retrodatata a posteriori in ragione del fatto che il ricorso per cassazione venne poi dichiarato inammissibile. Una simile interpretazione sarebbe del tutto incompatibile con quella esigenza di certezza e chiarezza sulla decorrenza del termine che è all’origine della preferenza qui accordata alla connotazione in senso formale della nozione di «sentenza definitiva».
2.4. Si deve pertanto concludere che la «sentenza definitiva», secondo la corretta interpretazione dell’art. 4 del CCNL del personale non dirigente del Comparto Regione e Autonomie locali 2006-2009, è la sentenza che definisce il processo penale in quanto non più impugnabile con mezzi ordinari.
3. Nel ricorso si prospetta il mancato rispetto del termine per la riattivazione del procedimento disciplinare anche sotto un altro profilo. Infatti, si sostiene che, anche volendo fare riferimento alla seconda sentenza della Corte di Cassazione, il dies a quo dovrebbe essere individuato, non nella data della sua comunicazione a Roma Capitale (18.3.2019), ma nella data della lettura in udienza (10.10.2018), alla quale era presente anche la parte civile.
3.1. Il Procuratore Generale, nelle sue conclusioni scritte, ha giustamente rilevato che la questione «non risulta posta nel giudizio di merito e non è perciò esaminabile in questa sede».
3.2. In ogni caso, è altrettanto corretta la valutazione del Pubblico Ministero sulla palese infondatezza della questione, posto che la disposizione contrattuale fa riferimento alla «comunicazione della sentenza definitiva», mentre in udienza venne data lettura del solo dispositivo della sentenza.
4. È poi appena il caso di aggiungere che non sono esaminabili le questioni che, trattate nel giudizio di merito, non sono state riproposte con il ricorso per cassazione, salvo poi riemergere inopinatamente nella memoria illustrativa. Si tratta delle doglianze relative al difetto di collegialità dell’organo che ha inflitto la sanzione disciplinare e all’asserita sproporzione della pena rispetto all’entità dell’illecito.
5. Infine, assolutamente inedita, e come tale inammissibile, è la censura, prospettata solo nella memoria illustrativa, secondo cui non sarebbe stato rispettato il termine per la conclusione del procedimento disciplinare decorrente dalla data della sua riattivazione (3.5.2019).
Tesi del resto basata sull’affermazione che il procedimento disciplinare si sarebbe concluso il 4.9.2019, mentre nella sentenza impugnata si indica in più punti la data del 29.8.2019, senza che alcuna contestazione in merito fosse sollevata nel ricorso per cassazione.
6. Respinto il ricorso, le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
7. Si dà atto che sussistono i presupposti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese legali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in € 5.000 per compensi, oltre a € 200 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.