CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 18415 depositata il 28 giugno 2023
Lavoro – Licenziamento – Giusta causa – Indennità supplementare – Liquidazione coatta amministrativa – Dichiarazioni mendaci – Anomalie su trasferimenti – Ragionamento presuntivo – Rigetto – violazione dell’art. 116 c.p.c. – in tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”
Fatti di causa
1. Con ricorso depositato l’8.6.2016, D.F.R. aveva impugnato avanti al Tribunale di Treviso il licenziamento per giusta causa a lui intimato dalla V.B. s.c.p.a. in data 1.12.2015, in via principale, chiedendo dichiararsene la nullità in ragione della sua natura arbitraria e ritorsiva o abusiva, e, gradatamente, per altre ragioni, e chiedendo anche la condanna della convenuta al pagamento, in suo favore, di una serie di emolumenti, tra i quali l’indennità supplementare ed altro.
2. Costituitasi la convenuta, nel frattempo divenuta V.B. s.p.a., il Tribunale adito, con ordinanza in data 11.8.2016, rigettava il ricorso, disponendo il mutamento del rito per la prosecuzione del giudizio sulle ulteriori domande dell’istante nelle forme di cui al giudizio ex art. 414 e segg. c.p.c.
3. Nel corso di quest’ultimo giudizio innanzi al medesimo Tribunale, V.B. s.p.a. veniva posta in liquidazione coatta amministrativa e, all’esito di conseguente interruzione del giudizio, il ricorrente lo riassumeva nei confronti della V.B. s.p.a. in l.c.a. e della I.S. s.p.a., quale cessionaria del compendio aziendale. Indi, il Tribunale, con sentenza n. 339/2018, rigettava il ricorso, confermando, per l’effetto, il licenziamento impugnato.
4. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Venezia rigettava l’appello che il D.F. aveva proposto contro la sentenza di primo grado, e lo condannava al pagamento, in favore delle parti appellate, delle spese del secondo grado, come liquidate, dando atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del reclamante dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
5. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale anzitutto premetteva che al D.F., dirigente di V.B. s.p.a., dal 2014 quale responsabile della Direzione Capitale Sociale e Comunicazione Istituzionale, con una prima nota datoriale del 29.9.2015, erano state contestate le seguenti condotte di rilievo disciplinare: A) dichiarazioni mendaci agli ispettori della Banca in relazione a 3 operazioni di investimento (Z., S.A. e S.R.); B) avere disatteso gli ordini della Banca del 13 maggio 2014 (vendita dopo il blocking period (del 25 febbraio 2014) per lotti complessivi superiori a 6.000 azioni;
C) falsa rappresentazione al consiglio d’amministrazione della realtà: richiamo a documentazione “contraddittoria e fuorviante”; D) aver dato corso a 3 operazioni di cessione di azioni non informando il consiglio d’amministrazione; E) aver riportato il 3 giugno 2014 nel prospetto al consiglio d’amministrazione un numero di azioni vendute e accreditate diverso da quello risultante dalla tabella del sistema informativo della Banca;
F) mancata sottoposizione nella seduta del consiglio d’amministrazione del 3 giugno 2014 dell’elenco dei soggetti richiedenti l’ammissione a socio; G) vicenda della sponsorizzazione (notava la Corte, peraltro non richiamata tra i fatti posti a fondamento del licenziamento).
Premetteva ancora che, con la seconda nota di contestazione del 9.11.2015, erano addebitati allo stesso: a) anomalie su operazioni di trasferimento di azioni V.B. non rilevate dalla funzione “Capitale Sociale” (con riflessi sul rispetto delle norme antiriciclaggio); b) anomalie su operazioni: 1) di trasferimento di azioni di VB a prezzi superiori al valore fissato annualmente dai soci; 2) di aumento del numero di trasferimenti dopo l’assemblea dell’aprile 2015; 3) di trasferimenti tra conoscenti o tra aziende e tra aziende e privati; c) anomalie di trasferimenti di azioni tra famigliari C. (con intento elusivo in materia fiscale in relazione alla minusvalenza risultante dalle operazioni); d) omessa informativa al consiglio d’amministrazione dell’1 gennaio 2015 su operazioni di trasferimento di azioni VB tra soci; e) predisposizione di modulo illegittimo prima dell’aprile 2014 su conguaglio del prezzo di azioni nel caso di determinazione del loro valore da parte dell’assemblea a quello “garantito”.
6. Richiamato, quindi, quanto ritenuto dal primo giudice, dava conto dell’impostazione difensiva dell’appellante circa la posizione lavorativa di quest’ultimo (a suo dire, di carattere meramente esecutivo), che riteneva di non condividere, spiegando di pienamente aderire all’inquadramento della stessa posizione operato dal primo giudice.
Passava, poi, ad esaminare i singoli addebiti rivolti al dirigente ed i motivi d’appello proposti, che respingeva tutti. Rigettava, infatti, pure l’eccezione di tardività delle contestazioni disciplinari, riproposta dall’appellante.
7. Avverso tale decisione, D.F.R. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
8. Le intimate hanno resistito con distinti controricorsi.
9. Il P.G. ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso, come già nella sua memoria.
10. Sia il ricorrente che le controricorrenti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c. la “violazione degli artt. 116 c.p.c. e 2729 c.c. in relazione alla dimostrazione delle condotte addebitate al ricorrente”. Secondo quest’ultimo, la Corte del gravame avrebbe posto a fondamento della statuizione relativa all’avvenuta dimostrazione degli addebiti mossi al D.F. e risultati comprovati il contenuto della documentazione versata in atti dalla Banca attraverso, tuttavia, un cattivo utilizzo del ragionamento presuntivo. La sentenza impugnata, in particolare, basava l’accertamento delle contestazioni disciplinari formulate nei suoi confronti principalmente sulle dichiarazioni rese da altri dipendenti coinvolti appieno nelle vicende addebitate, per quanto riguarda nello specifico l’ambito delle accuse relative alle dichiarazioni mendaci agli ispettori della Banca in relazione a tre operazioni di investimento, nonché della redazione, stampa e distribuzione del modulo di impegno al riconoscimento di un determinato saggio d’interesse.
Secondo il ricorrente, però, le dichiarazioni scritte provenienti da terzi costituiscono prove atipiche che, per formare piena prova, devono essere confermate in giudizio da coloro che le hanno rese, altrimenti assumono valore di indizio.
Ed avendo valore di prova indiziaria, tali mezzi istruttori sono necessariamente soggetti alla disciplina dettata in materia di presunzioni dagli artt. 2727 e 2729 c.c.
Per l’impugnante, allora, sarebbe evidente l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio adottato dalla Corte d’appello, la quale non aveva affatto seguito il C. dato insegnamento di questo Supremo Collegio nell’accertamento del fatto ignorato – cioè l’imputabilità al D.F. degli addebiti disciplinari mossi – per dimostrare la legittimità del licenziamento irrogato al ricorrente.
Passa, quindi, a svolgere le proprie considerazioni circa: “A. Lettere di impegno al riacquisto di azioni V.B. con promessa di rendimento; B. Mancato rispetto delle disposizioni del Consiglio di Amministrazione del 13 maggio 2014; C. Falsa rappresentazione al Consiglio di Amministrazione degli ordini di compravendita di azioni V.B. e disallineamento tra i dati riportati nel verbale del Consiglio d’Amministrazione del 3 giugno 2014 e le evidenze risultanti dalle tabelle del sistema informativo della Banca; D) Esecuzione di tre operazioni di vendita di azioni V.B., in assenza di alcuna informativa al Consiglio di Amministrazione; E) Mancata informativa al Consiglio di Amministrazione nella seduta del 3 giugno 2014 dell’elenco dei soggetti che richiedevano l’ammissione a soci; F) Operazioni di trasferimento delle azioni V.B. all’interno del Gruppo C.; G) Modulo di sottoscrizione delle azioni V.B. non approvato da alcun organo societario”.
2. Col secondo motivo, denuncia ex art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. la “violazione dell’art. 2119 c.c. Sull’illegittimità del licenziamento per mancanza di giusta causa e irregolarità della procedura di cui all’art. 7 Statuto dei Lavoratori”. Secondo il ricorrente, la Corte d’appello, nell’escludere l’illegittimità del licenziamento irrogatogli, era giunta a tale conclusione attraverso un erroneo utilizzo del ragionamento deduttivo che inficiava irrimediabilmente la correttezza della pronuncia.
3. Con un terzo motivo, ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c. denuncia: “violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970 sotto il profilo del principio di tempestività”. Ivi censura il punto in cui il giudice di seconde cure statuiva che “l’organo deliberante non è stato posto nelle condizioni di conoscere i profili oggettivi e soggettivi di possibile addebito disciplinare nel caso di specie, se non a seguito di un’attività ispettiva esterna originata da irregolarità denunciate da organi tutori pubblici (…). Quindi si tratta di un tempo rispetto alla complessità e numerosità degli addebiti del tutto ravvicinato al momento della contestazione di settembre, a cui è seguita in relazione agli ulteriori approfondimenti quella di novembre su altri diversi addebiti”. Secondo il ricorrente, alla luce delle argomentazioni esposte nello svolgimento di tale censura, appariva ampiamente dimostrata la violazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori da parte della Corte d’appello, la quale, con motivazione apodittica, aveva ritenuto tempestivo l’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti, nonostante la Banca non avesse affatto rispettato gli insegnamenti dettati da questo Supremo Collegio in punto di immediatezza della contestazione.
4. Il primo motivo non è fondato.
4.1. Secondo questa Corte, infatti, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (così Cass. civ., sez. un., 30.9.2020, n. 20867; e, tra le altre, in seguito id., sez. I, 3.11.2021, n. 31510; id., sez. I, 28.6.2022, n. 20751).
Inoltre, è pacifico che sono riservati al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (così Cass. civ., sez. II, 22.2.2022, n. 5732).
4.2. La prima censura, perciò, presenta profili d’inammissibilità nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 116 c.p.c., non essendo le relative deduzioni dell’impugnante in linea con i suddetti principi.
Come si è visto, del resto, il ricorrente lamenta piuttosto un cattivo utilizzo del ragionamento presuntivo da parte della Corte territoriale, in sostenuto contrasto con l’art. 2729 c.c.
5. Giova, allora, premettere che, in tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (così, ad es., di recente, Cass. civ., sez. II, 21/03/2022, n. 9054). Inoltre, in tema di presunzioni, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri della presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’articolo 360, n. 3, del Cpc (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso articolo 360), competendo alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’articolo 2729 del codice civile, oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione concreta. È possibile, infatti, il sindacato per violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 3, del Cpc, non solo nell’ipotesi (davvero rara) in cui il giudice abbia direttamente violato la norma dell’articolo 2729 del codice civile deliberando che il ragionamento presuntivo possa basarsi su indizi che non siano gravi, precisi e concordanti, ma anche quando egli abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione di tale disposizione, fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nella enunciazione della fattispecie astratta, ma erroneamente applicata alla fattispecie concreta (così Cass. civ., sez. II, 04/01/2022, n. 129).
5.1. Orbene, nota anzitutto il Collegio che la Corte distrettuale in nessun punto della propria decisione ha esplicitato un ragionamento presuntivo oppure ha prospettato che determinati indizi, in quanto ritenuti gravi, precisi e concordanti, dessero luogo a presunzione semplice in forza della quale era da reputare provato qualcuno dei numerosi fatti contestati.
Neppure risulta, inoltre, dal testo della sentenza gravata, confermativa della pronuncia di primo grado, che quest’ultima fosse stata censurata dall’allora appellante D.F. per violazione dell’art. 2729 c.c.
5.2. Ciò rilevato, è vero, come assume l’impugnante, che, nel processo civile, le scritture private provenienti da un terzo estraneo alla lite sono prove atipiche con un valore probatorio meramente indiziario (cfr., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 7.12.2021, n. 38805; id., sez. II, 15.12.2020, n. 28611).
Nondimeno, dal testo della sentenza impugnata non risulta assolutamente che le dichiarazioni rese da altri dipendenti coinvolti nelle vicende oggetto di addebito, cui allude il ricorrente, benché mai qualificate espressamente come indizi dalla Corte di merito, ma essendo tali, siano state utilizzate da quest’ultima singolarmente prese o anche in combinazione tra loro per reputare provato, solo in base ad esse, anche uno dei numerosi addebiti rivolti al D.F..
Al contrario, dalla motivazione della Corte d’appello emerge chiaramente che quest’ultima si è avvalsa di tutte le emergenze a disposizione, di natura documentale, talvolta introdotte in causa proprio dal ricorrente o comunque dallo stesso evidenziate. E’ il caso, ad esempio, della posizione lavorativa dell’allora appellante, circa la quale proprio dai regolamenti interni richiamati da quest’ultimo, la Corte di merito ha tratto la conclusione che non poteva essere “confinata la funzione a cui il signor D.F. era assegnato ad un ambito meramente “esecutivo”: al contrario è proprio la funzione in senso lato di “garanzia”, finalizzata alla regolarità delle operazioni inerenti al capitale sociale che implicava un ampio margine operativo degli interventi (richieste di informazioni, verifiche, sollecitazioni, segnalazioni, etc.) del responsabile della funzione Capitale Sociale”, ossia il D.F. (cfr. in extenso pagg. 17-20 della sua sentenza).
La completa lettura dell’impugnata sentenza, insomma, rende chiaro che le dichiarazioni di altri dipendenti cui si riferisce il ricorrente (e delle quali, talvolta, egli quale appellante intendeva giovarsi: cfr., ad es., pagg. 47-48 della sentenza) hanno rivestito un ruolo pressoché marginale nell’accertamento probatorio compiuto dai giudici d’appello, e non comunque nella chiave presuntiva ora sostenuta dal ricorrente.
In definitiva, le dichiarazioni scritte di terzi in questione, delle quali peraltro non risulta fossero state contestate la provenienza e la ritualità della produzione in causa, come tali avrebbero valore di indizi, ma, in concorso di altri elementi idonei a suffragarne la credibilità e l’attendibilità (elementi ulteriori, nella specie, consistenti in prove documentali e non dichiarative o riproduttive di dichiarazioni), ben potevano fornire argomenti di convincimento ed essere utilizzati come fondamento della decisione (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.2.2002, n. 2149).
6. Tanto considerato, rileva ancora questa Corte che, come ben risulta dall’estesissimo svolgimento del primo motivo (cfr. pagg. 69-104 del ricorso), le considerazioni ivi svolte dal ricorrente non specificano dove la Corte territoriale avrebbe ritenuto di fondare le pretese presunzioni su uno o più fatti storici privi di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota.
Piuttosto, quelle considerazioni ripropongono una differente lettura delle risultanze relative ai fatti contestati, ed esse, peraltro, come emerge da un loro raffronto con il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, già avevano trovato esaustive risposte in quest’ultima.
Occorre, infatti, evidenziare che, non essendo per la verità specificamente censurata la parte di motivazione della Corte territoriale, cui si è già fatto cenno, dedicata al tema di quale fosse l’inquadramento effettivo della posizione lavorativa del D.F. quale dirigente (cfr. pagg. 17-20 della stessa), la tecnica redazionale adottata nell’impugnata sentenza è stata quella di considerare, distintamente, per ognuno degli addebiti formulati i rilievi e le specifiche censure del reclamante e così di rispondere ad essi.
7. Alla luce di tutti i superiori rilievi, il primo motivo nel suo complesso dev’essere respinto.
8. Inammissibile è il secondo motivo di ricorso circa l’illegittimità del licenziamento di cui è causa.
8.1. In proposito, infatti, la valutazione della Corte distrettuale è stata espressa anzitutto dopo che la stessa aveva confermato la fondatezza praticamente di quasi tutte le contestazioni mosse al dirigente.
Inoltre, la stessa Corte non ha mancato di motivare anche riguardo alla sospensione cautelare del dirigente prima del formale avvio del procedimento disciplinare, di cui pure quest’ultimo si doleva (cfr. pagg. 51-52 della sua sentenza).
8.2. Orbene, com’è agevole constatare, le doglianze del ricorrente a riguardo, per un verso, consistono nella mera illustrazione di principi e precedenti in tema di licenziamento per giusta causa (pagg. 104-107) e, per altro verso, propongono una rilettura ed una nuova valutazione dei fatti di cui è processo (cfr. pagg. 107-116), peraltro, anche intorno al tema dell’asserito sperequato trattamento in suo danno subito dal ricorrente sul piano disciplinare in confronto con altri dipendenti; un tema, però, neppure trattato dalla Corte d’appello nella sentenza qui impugnata. Difatti, in quest’ultima era stato premesso (cfr. pagg. 6-7) che sulla domanda principale dell’istante, riguardante l’asserito licenziamento ritorsivo ovvero discriminatorio, si era pronunciato il Tribunale con l’ordinanza resa nella fase sommaria, ed il relativo procedimento era proseguito secondo il rito speciale (c.d. Fornero), mentre con la medesima ordinanza era stato disposto il mutamento del rito in relazione alle domande subordinate dell’attore, e, come premesso in narrativa, la sentenza in questa sede oggetto di ricorso aveva deciso appunto l’appello relativo a tali ulteriori domande.
9. Inammissibile, infine, e per analoghe ragioni, è il terzo motivo.
9.1. Questa Corte, anche di recente, ha ribadito che, nel licenziamento per giusta causa il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti siano molto laboriosi e richiedano uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente.
Occorre evidenziare, in merito, che i requisiti della immediatezza e tempestività condizionanti la validità del licenziamento per giusta causa sono compatibili con un intervallo temporaneo, quando il comportamento del lavoratore consti di una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione globale ed unitaria da parte del datore di lavoro (così Cass. civ., sez. lav., 16.7.2020, n. 15229).
Sempre questa Corte, inoltre, ha evidenziato che il giudizio in questione deve essere riferito al concreto rapporto di lavoro ed al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni (cfr. Cass. civ., sez. lav., 12.5.2020, n. 8803).
Infine, questa Corte Suprema ha anche sottolineato che la valutazione delle circostanze rilevanti ai fini dell’immediatezza della contestazione disciplinare è riservata al giudice del merito (in tal senso, ad es., Cass. civ., sez. VI, 14.5.2018, n. 11583).
9.2. Orbene, la censura in esame si basa essenzialmente sull’argomento, già proposto alla Corte di merito, ed ora enfatizzato, che le contestazioni hanno riguardato condotte tra maggio e giugno 2014 e in un caso addirittura in epoca anteriore ad aprile 2014.
Ma appunto già la Corte d’appello ha disatteso il relativo motivo d’appello (cfr. pagg. 52-56 della sua sentenza), in base ad una argomentata motivazione, che il ricorrente prende molto parzialmente in considerazione.
Più nello specifico, la Corte di merito in sintesi, dopo aver dato conto della considerevole durata delle attività ispettive condotte dalla Consob, e che dalle relative risultanze “per la prima volta emerge, seppure in modo del tutto parziale il ruolo del reclamante nell’ambito di operazioni oggetto dell’iniziativa sanzionatoria della Consob”, ha sottolineato “un’operatività di un gruppo dirigente coeso e tetragono intorno alle figure di C. e F., di talché ogni possibilità di segnalazione circa comportamenti seppur anomali di uno di tali soggetti era inibito attesa la struttura fortemente accentrata e controllata, descritta dagli stessi dirigenti e dai soggetti a loro volta portatori di una concezione autoritaria del rapporto con i sottoposti (per quello che interessa la figura di D.F. si rinvia, ancora una volta, alle eloquenti dichiarazioni di C.)”.
La stessa Corte, perciò, ha ritenuto che solo “con l’evidenziato fattore esterno dell’iniziativa della Consob era stato possibile per il consiglio d’amministrazione assumere iniziative utili al fine di formalizzare possibili addebiti”, e che: “L’attivazione del consiglio di amministrazione si è avuta, quindi, con la prima informativa dell’Internal Audit del 30 giugno 2015 diretta a C. e B., responsabile delle risorse umane (doc. 3 res.), che fa risalire a marzo la segnalazione della funzione antiriciclaggio, evidentemente occasionata dall’attività ispettiva esterna, con limitato riguardo alle lettere di “rendimento” con obbligo di riacquisto”.
Ha osservato allora che: “Solo in tale contesto risulta che sia stato possibile l’ulteriore iniziativa dell’Internal Audit a partire dal luglio 2015 nei confronti di D.F.. Quindi si tratta di un tempo rispetto alla complessità e numerosità degli addebiti del tutto ravvicinato al momento della contestazione di settembre, a cui è seguita in relazione agli ulteriori approfondimenti quella di novembre su altri diversi addebiti”, e che: “Del tutto irrilevante, in conclusione, è la circostanza che le condotte addebitate risalgono al 2014”.
9.3. Tutte tali considerazioni dei giudici d’appello, che esprimono il nucleo della ratio decidendi in punto di tempestività delle contestazioni disciplinari, sono, invero, ignorate nel motivo in esame, con conseguente difetto di specificità dello stesso.
10. In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto con regolamento secondo soccombenza delle spese di lite, liquidate ai sensi del D.M. n. 147/2022.
11. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’art. 13 d.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ognuna delle stesse, in € 200,00 per esborsi ed € 6.000,00 per compensi professionali, oltre a rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.