Corte di Cassazione sentenza n. 20742 depositata il 16 agosto 2018
FATTI DI CAUSA
PF, Direttore Generale dell’Azienda napoletana delle Risorse Idriche – ARIN s.p.a., oggi azienda pubblica comunale ABC (Acqua Bene Comune) – veniva licenziato per motivi disciplinari. Le contestazioni, formulate ai sensi dell’art. 7 l. n.300/1970, riguardavano: a) il costo spropositato e ingiustificato dell’auto aziendale nel corso dell’ultimo quinquennio e il cambio troppo frequente della vettura, altrettanto ingiustificato; b) la gestione insoddisfacente degli appalti del gruppo societario che aveva prodotto una lievitazione non indifferente dei costi a carico dell’azienda; c) l’ingiustificata discrasia tra i report gestionali relativi ai metri cubi di acqua immessi nel sistema idrico e i medesimi dati esposti nei bilanci degli esercizi 2009, 2010 e 2011 e comunicati a enti, autorità e terzi, con grave pregiudizio per l’immagine dell’azienda.
Non essendo pervenuta nessuna giustificazione nei cinque giorni assegnati per le discolpe, l’Azienda si reputava legittimata a recedere dal rapporto dirigenziale, per il venir meno del vincolo fiduciario col Direttore Generale.
Avverso detto provvedimento l’interessato proponeva ricorso davanti al Tribunale di Napoli in fase sommaria (ai sensi dell’art. 1, co. 48 della l. n.92/2012), adducendo l’illegittimità del provvedimento siccome viziato da motivo illecito, per la genericità e la mutevolezza delle contestazioni degli addebiti e per le modalità con cui era stato condotto il procedimento, dovute alla eccessiva premura di concludere l’iter disciplinare – ancorché l’indagine interna disposta dallo stesso amministratore delegato non fosse ancora giunta a conclusione – al fine di screditare la precedente gestione dell’ARIN s.p.a., di cui il PF rappresentava l’emblema.
Il Tribunale dichiarava ingiustificato il licenziamento, ritenendo che il motivo ritorsivo e persecutorio, in quanto esclusivo, del recesso non fosse emerso, e condannava l’Arin s.p.a. al pagamento, nei confronti del dirigente, della somma lorda di euro 864.556 a titolo di indennità supplementare e di Euro 399.025 a titolo di indennità di mancato preavviso, oltre rivalutazione ed interessi, respingendo per iI resto il ricorso.
All’esito del giudizio di opposizione (ex art. 1, co.51 della stessa legge n.92), il Tribunale riconosceva la natura ritorsiva del recesso, e condannava la Società a reintegrare il PF ai sensi dell’art. 18, l. n.300/1970, a risarcire allo stesso il danno dal giorno del licenziamento, prendendo a base di calcolo la retribuzione mensile lorda pari a Euro 33.253, oltre interessi e rivalutazione monetaria, nonché a versare al dirigente i contributi previdenziali e assicurativi.
Nel confermare la decisione di prime cure, la Corte territoriale ha accertato l’illiceità del licenziamento, ritenendo che dall’istruttoria fosse emersa la finalità ritorsiva dello stesso, atteso che il PF, simbolo della precedente gestione, era da ostacolo ai metodi e agli obiettivi dei nuovi organi di governo aziendali.
I Giudici dell’Appello hanno, perciò, confermato la pronuncia di primo grado, ritenendo il licenziamento ritorsivo e discriminatorio, rivolto a colpire la persona, piuttosto che l’attività del dirigente, nel rilievo dell’assoluta infondatezza, anche nel merito, delle contestazioni formulate nei confronti del Dirigente.
La cassazione della sentenza è domandata dall’Azienda idrica napoletana ABC con due censure. PF resiste con tempestivo controricorso.
In prossimità dell’Udienza pubblica entrambe le parti hanno depositato articolate memorie, ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La prima censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3 cod. proc. civ., deduce “Violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 2697 cod. civ., art. 3 l. n.108/1990 e art. 1345 cod. civ., in relazione all’onere probatorio circa la sussistenza di un licenziamento ritorsivo fondato su motivo illecito”. Parte ricorrente sostiene che erroneamente la decisione gravata abbia accertato l’illegittimità del licenziamento, in quanto discriminatorio, essendo mancata, da parte del controricorrente, la prova della natura ritorsiva dello stesso.
La ricorrente richiama, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte, là dove afferma che l’onere della prova del motivo di licenziamento ritorsivo, esclusivo e determinante, incombe sul lavoratore che ne invoca l’esistenza.
La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360, co.1, n.4 cod. proc. civ., contesta “Violazione dell’art. 132, n.4 cod. proc. civ. per l’assoluta assenza di argomentazioni a sostegno della sentenza gravata”. Parte ricorrente denuncia la nullità della sentenza, atteso che la stessa ha ritenuto di fondare la natura ritorsiva del licenziamento su elementi generici, attraverso un percorso motivazionale non esente da affermazioni apodittiche, ed omettendo qualsivoglia riferimento alla prova del presunto motivo illecito offerta dall’odierno controricorrente.
I motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la loro intima connessione, sono fondati.
Questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sulla materia del recesso datoriale fondato su un motivo ritorsivo unico e determinante, affermando che l’onere di dimostrare l’intento discriminatorio, idoneo a configurare la nullità del recesso (e determinare l’applicazione della più grave delle sanzioni, ai sensi dell’art. 3 della l. n.108 del 1990), è posto a carico del lavoratore (art. 2697 co. civ.) (Cass. n. 3986/2015; n. 17087/11; n.6282/2011; n.16155/2009).
La spiegazione di una siffatta incombenza probatoria risiede nel carattere di eccezione della doglianza, la quale rappresenta un “…fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi di una giusta causa o d’un giustificato motivo di recesso pur formalmente apparenti…” (Cass. n.6501/2013). La causa discriminatoria si esprime, infatti, per mezzo di un atto astrattamente lecito, sebbene viziato per il fatto di costituire la risposta esclusiva all’esercizio del diritto datoriale di recesso.
Nel merito delle specifiche censure mosse dalla ricorrente alla sentenza impugnata, si rileva che dall’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale non è dato evincere alcun accertamento, né in merito all’effettiva causale del recesso, né in merito all’avvenuto raggiungimento in giudizio della prova della ritorsione – quale motivo unico e determinante – offerta dal dirigente licenziato (art. 1345 cod. civ.).
In particolare, quanto all’asserita individuazione dell’intento ritorsivo, questo viene accertato per mezzo di osservazioni generiche, quale quella secondo cui “…Il primo segno della natura (ritorsiva) del recesso è riscontrabile nelle modalità temporali di contestazione”, desumibili dall’operato dell’azienda, avvalorate dalla circostanza che “…certe indagini fossero state svolte in meno di un mese”.(p.2 sent.) In altri passaggi, il motivo discriminatorio viene desunto dal “…quadro (disciplinare n.d.r.) complessivo…”, che sarebbe fondato su contestazioni, quale, ad esempio, il non corretto utilizzo della macchina aziendale, che si suppongono inconsistenti.
Tale essendo il tenore dell’accertamento giudiziale circa la causa ritorsiva dei recesso – sì come esclusiva – questo Collegio ritiene che la Corte territoriale non abbia fatto corretta applicazione delle norme di legge (art. 3, l. n.108/1990) e del codice civile (art. 1345 e art. 2697) disciplinanti la fattispecie, e abbia disatteso l’obbligo di motivare sull’avvenuto raggiungimento, nel corso del giudizio di merito, della prova offerta dal PF circa l’esistenza di un motivo illecito esclusivo di recesso da parte dell’odierna ricorrente.
Deve richiamarsi, altresì, l’orientamento di legittimità secondo cui, qualora il lavoratore agisca in giudizio deducendo il motivo discriminatorio del licenziamento, “..l’eventuale carenza di giusta causa, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore e non già compreso motivo di illegittimità del recesso come tale non rilevabile d’ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda” (Cass. n.12898/2016; n.13673/2015).
Sulla base dei principi sopra richiamati, pertanto, ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratoria, al Giudice del merito spetterà accertare se il lavoratore abbia soddisfatto l’onere di provare la ritorsività del licenziamento quale ragione esclusiva del recesso e, in caso negativo, dovrà procedere alla verifica della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, il cui onere probatorio è posto a carico del datore di lavoro. (Cass. n.6501/2013).
In conclusione, essendo fondati i motivi, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Si dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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