Corte di Cassazione, sentenza n. 21875 depositata il 21 luglio 2023
accertamento induttivo puro – imposte dirette ed IVA – avviso di accertamento – l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente – La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale del Veneto, sezione staccata di Verona, rigettava l’appello principale proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, e l’appello incidentale proposto da Barbara L. avverso la sentenza n. 213/4/13 della Commissione tributaria provinciale di Verona che aveva parzialmente accolto il ricorso della L. contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2006.
La CTR, nella parte della sentenza impugnata che qui rileva, osservava che dovevasi confermare la decisione della CTP veronese, in quanto l’agenzia fiscale non aveva adeguatamente assolto l’onere di provare la compartecipazione della contribuente all’emissione di fatture per operazioni inesistenti che era stata posta a fondamento dell’avviso di accertamento impugnato, svalutandone in particolare l’elemento indiziario, affermato quale principale, della presenza della carta d’identità della L. presso l’Istituto bancario mediante il quale si erano realizzate le movimentazioni finanziarie afferenti la contestata frode fiscale e di contro valorizzando la disposta archiviazione del relativo procedimento penale a carico della L. medesima.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia
delle entrate deducendo tre motivi. Resiste con controricorso la contribuente.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo –ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.- l’agenzia fiscale ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 39, secondo comma, lett. d), dPR 600/1973, 55, dPR 633/1972, 2697, cod. civ., poiché la Commissione tributaria regionale, ha valutato le prove invertendo illegittimamente l’onere correlativo secondo le disposizioni legislative evocate nel caso dell’avviso di accertamento c.d. “induttivo puro”, quale quello impugnato.
Con il secondo motivo –ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per motivazione apparente in violazione degli artt. 36, d.lgs 546/1992, 132, secondo comma , n. 4), cod. proc. civ., 118, disp. att. cod. proc. civ. in relazione all’art. 116, cod. proc. civ. ed all’art. 7, comma 4, d.lgs 546/1992, relativamente alla valorizzazione del provvedimento di archiviazione del procedimento penale a carico della L..
Con il terzo motivo –ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per vizio motivazionale, affermando la mera apparenza della motivazione della sentenza impugnata in violazione degli artt. 36, d.lgs 546/1992, 132, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ., 118, disp. att. cod. proc. civ.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono inammissibili e comunque infondate.
Va anzitutto ribadito che «La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526 – 01).
La motivazione della sentenza impugnata non può farsi rientrare nei paradigmi invalidanti indicati in tale consolidato arresto giurisprudenziale.
Va rilevato in fatto che l’atto impositivo impugnato si basa sulla compartecipazione della L. ad una frode fiscale, consistita nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte di altro soggetto, M. Alberto.
Emerge dalla medesima decisione di appello in esame e comunque dagli atti difensivi delle parti, nello specifico:
-che la L. era titolare di partita IVA quale imprenditrice nel settore del commercio all’ingrosso di pellami;
-che per l’annualità de qua non aveva presentato la dichiarazione fiscale, ma risultava avere emesso fatture nei confronti della M.A. Pellami srl uninominale di Alberto M..
Risulta peraltro dal ricorso agenziale che il M. ha dichiarato che, pur conoscendo la L., aveva agito nella sua totale inconsapevolezza, compiendo tutte le attività connesse alla frode fiscale in esame (emissione delle false fatture, emissione degli assegni ad esse inerenti, ma con incasso degli stessi senza che la L. nulla ne sapesse).
In questo quadro il giudice tributario di appello ha accertato che:
-le firme sugli assegni e sugli altri documenti bancari sono state disconosciute dalla contribuente e l’Agenzia delle entrate non ne ha chiesto la verificazione;
-la presenza della copia della carta d’identità della L. presso l’Istituto bancario di San Marino utilizzato per le operazioni finanziarie collegate alle false fatture non può essere considerato come prova dirimente.
A sostegno di tali argomentazioni la CTR veneta ha altresì addotto la disposta archiviazione del procedimento penale correlativo a carico della L..
Orbene, (terzo motivo) tale apparato argomentativo risulta senz’altro adeguato al “minimo costituzionale” (cfr. Sez. U, 8053/2014), essendo coinciso, ma intellegibile e puntuale.
Quanto alla valorizzazione del provvedimento del giudice penale (secondo motivo) la sentenza impugnata è inoltre del tutto conforme al consolidato principio di diritto secondo il quale «Nel processo tributario, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale nei confronti della società, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale ex art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna. Pertanto, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio» (Sez. 5, Sentenza n. 19786 del 27/09/2011, Rv. 619306 – 01).
Infine relativamente alla denunciata violazione di legge (primo motivo) va ribadito che «In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura é possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione» (ex multis Cass., n. 26110 del 2015) e che «Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» (Cass. n. 9097 del 07/04/2017).
Risulta evidente che l’articolazione del mezzo in esame esce dal perimetro del giudizio di legittimità avente ad oggeto un error in judicando in jure quale segnato dai consolidati arresti giurisprudenziali citati.
La ricorrente infatti, artatamente denunziando una violazione di legge, mira ad ottenere da questa Corte una “revisione” del giudizio di merito sulle prove del giudice tributario di appello, sicuramente effettuato “secondo onere”, ma con esito sfavorevole alla ricorrente stessa.
In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 15.000 per onorari, euro 200 per esborsi oltre al 15% per spese generali ed agli accessori di legge.
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