CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 26629 depositata il 15 settembre 2023
Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Omissione della contestazione disciplinare – Conoscenza dell’addebito disciplinare esclusivamente e direttamente con la comunicazione di recesso – Violazione formale del procedimento disciplinare – Sanzione ex art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 – Specificità dell’atto di appello – Principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – Violazione – Giudicato interno su parti della sentenza non impugnate – Accoglimento
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale della medesima sede, ha – con la sentenza indicata in epigrafe – accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da G.A. società cooperativa, in data 5.7.2017, a A.H., per aver assunto un “comportamento aggressivo e irriguardoso nei confronti del legale rappresentante del Consorzio Maroc sig.N.M.” (consorziato con la società G.A.).
2. La Corte territoriale, esclusa la ricorrenza di un licenziamento orale e ritorsivo, ha rilevato l’omissione della contestazione disciplinare e la conoscenza dell’addebito disciplinare esclusivamente e direttamente con la comunicazione di recesso; ha escluso (in riforma della sentenza di primo grado) la sussunzione della fattispecie nell’ambito dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 ed applicato la sanzione reintegratoria dettata dall’art. 3, comma 2, del medesimo d.lgs. rilevando che la mancata contestazione dell’addebito disciplinare equivale alla insussistenza del fatto, da intendersi nel suo duplice risvolto ossia quale accadimento realizzato dal lavoratore mediante condotte commissive o omissive (nel caso di specie, fatto accaduto, come riferito dai testimoni) e inscindibilmente correlato alla previa contestazione da parte del datore di lavoro.
3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a tre motivi. Il lavoratore ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce nullità della sentenza (ex art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, violato il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, avendo deciso la causa sulla base di una censura mai formulata dal lavoratore in secondo grado, in quanto l’atto di appello del lavoratore si era concentrato sulle domande respinte dal Tribunale mentre il capo della sentenza di primo grado che aveva affrontato il profilo della violazione formale del procedimento disciplinare non era stato oggetto di appello, con conseguente passaggio in giudicato (come tempestivamente eccepito dalla società nella memoria difensiva in appello).
2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, errato nel ritenere che l’assenza della contestazione disciplinare fosse causa di annullabilità del recesso, anziché causa di un indennizzo economico così come disposto dall’art. 4 del d.lgs. n. 23.
3. Con il terzo motivo si deduce omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio (ex art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, omesso di pronunciarsi sulla eccezione di aliunde perceptum proposta dalla società e sulle relative istanze istruttorie specificamente formulate, in ragione anche delle ammissioni del lavoratore in ordine alla instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro.
4. Il primo motivo di ricorso è fondato.
5. La sentenza impugnata riporta le conclusioni dell’atto di appello proposto dal lavoratore, conclusioni che si appuntano sui capi della sentenza di primo grado che hanno escluso la ricorrenza di un licenziamento orale, di un licenziamento ritorsivo nonché hanno accertato l’assunzione, da parte del dipendente, di una condotta inadempiente; la sentenza impugnata prosegue rilevando che il giudice di primo grado ha, correttamente, escluso la ricorrenza di un licenziamento orale e di un licenziamento ritorsivo, ritenendo – sulla base del quadro probatorio raccolto – che i fatti si erano materialmente realizzati così come addebitati dal datore di lavoro; rileva, poi, che il Tribunale ha correttamente ravvisato il difetto formale del procedimento disciplinare per omessa contestazione disciplinare ma, aggiunge, che la sentenza è “inesatta” nella misura in cui ha applicato la sanzione prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 invece che quella dettata dall’art. 3, comma 3, del medesimo d.lgs. n. 23.
6. Le norme processuali di cui agli artt. 342 e 434 c.p.c., in tema di specificità di appello, richiamate dal ricorrente nel corpo del motivo, richiedevano, peraltro, la devoluzione, alla Corte territoriale, del profilo attinente alla violazione formale del procedimento disciplinare e, in particolare, un motivo di appello che impugnasse la (errata) sanzione, meramente indennitaria, correlata al difetto assoluto di contestazione disciplinare.
7. La lettura dell’atto di appello proposto dal lavoratore consente, invece, di verificare che i motivi concernevano la insussistenza del fatto con esclusivo riguardo ad una specifica causa petendi ossia alla materialità dei fatti, posto che – si legge – i testi “hanno semplicemente confermato che c’era stato un diverbio tra il lavoratore e il Sig. N., lasciando ben intendere come certamente alcune testimonianze non siano comunque attendibili…” e che non era stato chiarito da chi provenissero gli insulti.
8. L’atto di appello formulato dal lavoratore non aveva proposto alcuna censura concernente il capo della sentenza di primo grado che deduceva l’omessa contestazione disciplinare e ricollegava la sanzione di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.
9. Come questa Corte ha più volte ribadito, il giudice nell’attribuire ai rapporti dedotti in causa la qualificazione giuridica più appropriata anche in difformità di quella che le parti, sia pure concordemente, indicano è vincolato non solo ai fatti allegati (e provati) dalle parti stesse ma anche alle domande che su tali fatti le parti propongono per ottenere un determinato bene anziché un altro, intendendo il termine bene sia come attribuzione di un bene materiale (“petitum mediato”) sia come attribuzione di un dato diritto o come creazione, regolamento, annullamento, nullità o estinzione di un rapporto (“petitum” immediato) e non può, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alterare alcuno degli elementi obbiettivi di identificazione dell’azione (cfr. Cass. n. 5814 del 1995, Cass. n. 455 del 2011). Tale qualificazione era stata effettuata dal giudice di primo grado, che aveva adottato una sentenza di accertamento della violazione formale del procedimento disciplinare e una correlata condanna risarcitoria, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 (con rigetto delle altre domande), sentenza che è stata appellata solamente con riguardo ai capi concernenti l’oralità del licenziamento, la natura ritorsiva e l’adozione dei comportamenti addebitati. Trattandosi, questi ultimi, di capi autonomi della sentenza di primo grado, che risolvevano questioni con loro specifica individualità ed autonomia, era inibito, alla Corte di appello, il riesame del distinto capo di sentenza concernente il vizio formale del procedimento disciplinare e la sanzione conseguente, non sussistendo alcun effetto devolutivo della questione.
10. In conclusione, il primo motivo di ricorso è fondato posto che il capo autonomo della sentenza di primo grado concernente la regolarità del procedimento disciplinare dettato dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970 e, nella specie, la questione dell’omessa contestazione disciplinare e della conseguente sanzione a carico del datore di lavoro da determinarsi ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, deve ritenersi passata in giudicato (interno), non essendo stato oggetto di impugnazione in sede di appello; gli ulteriori motivi di ricorso sono assorbiti, in quanto di natura logicamente e giuridicamente subordinata all’accoglimento del primo. La sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà altresì sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà altresì alle spese del presente giudizio di legittimità.
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