CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 8092 depositata il 26 marzo 2024
Lavoro – Differenze retributive sul trattamento di fine rapporto – Base per la liquidazione del TFR – Emolumenti percepiti dalla lavoratrice a titolo di incentivazione o compartecipazione – Servizio mensa o indennità sostitutiva della stessa – Esclusione della natura ontologicamente retributiva – Accoglimento parziale
Rilevato che
1. la Corte d’Appello di Bari ha respinto l’appello proposto dall’Ospedale in epigrafe avverso sentenza del Tribunale di Foggia che lo aveva condannato al pagamento in favore di C.L. (già dipendente dal 1972 al 2014, livello D6 CCNL Comparto Sanità) della somma di € 8.136 a titolo di differenze retributive sul trattamento di fine rapporto, al lordo delle ritenute di legge, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione del credito sino al soddisfo;
2. la Corte territoriale, disposta nuova CTU contabile, ha confermato la somma riconosciuta dal Tribunale per il medesimo titolo, nonostante la relazione tecnica determinasse una somma parzialmente superiore rispetto a quella riconosciuta dal Tribunale, in assenza di appello incidentale della ricorrente in primo grado – appellata;
3. in particolare, la Corte di merito ha osservato che:
– per l’esatta determinazione dei parametri giuridici e contabili su cui quantificare il TFR sulla base dell’art. 2120 c.c. come novellato dalla legge n. 297/1982, le competenze per il lavoro straordinario e per le altre prestazioni oltre la paga base devono essere considerate ai fini del calcolo del TFR quando siano state percepite in modo continuativo per il periodo precedente maggio 1982 (indennità di anzianità) e in modo non occasionale per il periodo successivo;
– per quanto concerne i cd. accantonamenti relativi al periodo successivo all’entrata in vigore della legge n. 297/1982, il calcolo del TFR andava sviluppato anche secondo l’art. 46 CCNL Comparto Sanità Pubblica integrativo del CCNL del 7.4.1999, contenente specifiche deroghe alla disciplina legale dell’istituto, in vigore dal 31.12.2001;
– in base a tale normativa contrattuale collettiva, non erano ricompresi tra le voci retributive da prendersi a base per la liquidazione del TFR gli emolumenti percepiti dalla lavoratrice a titolo di incentivazione o compartecipazione a decorrere dall’1.1.2002 (tenuto conto della data di entrata in vigore della specifica disciplina pattizia), rimanendo da computare per il periodo precedente;
– analogamente per l’indennità di mensa, non menzionata tra le voci retributive utili ai fini del computo del TFR, e quindi da includere fino alla data di entrata in vigore di tale disposizione contrattuale, non essendo conferente l’art. 3, comma 3, d.l. n. 133/1992 (ndr decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333) convertito in legge n. 359/1992, che si applica soltanto alla diversa ipotesi in cui il servizio mensa sia stato attivato presso l’azienda;
– le differenze retributive andavano calcolate al lordo delle imposte, salvo il computo di quanto già eventualmente versato da parte del datore di lavoro come sostituto d’imposta;
– si doveva tener conto di quanto previsto dall’art. 5, comma 2, legge n. 297/1982, sul cd. congelamento dell’indennità integrativa speciale trasformata di fatto in elemento fisso e costante della retribuzione (quale emolumento di analoga natura all’indennità di contingenza);
4. per la cassazione della sentenza d’appello ricorre l’Ospedale con 8 motivi; controparte è rimasta intimata; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
Considerato che
1. con il primo motivo parte ricorrente deduce (art. 360, n. 4, c.p.c.) nullità della sentenza per vizio di percezione sulla CTU, per violazione dell’art. 115 c.p.c., per essere stata posta a base della decisione una prova, in riferimento all’entità dell’accantonamento del TFR al 2006, non offerta dal consulente dell’Ospedale, limitatosi ad osservazioni alla CTU e alla trasmissione di conteggi;
2. con il secondo motivo parte ricorrente deduce (art. 360, n. 5, c.p.c.) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., per acritica adesione della sentenza gravata alle risultanze della CTU, senza adeguata giustificazione del proprio convincimento;
3. con il terzo motivo parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., per avere la sentenza d’appello condiviso la metodologia del ricalcolo del TFR da parte del CTU nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, con conseguente violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per violazione del principio dell’onere di allegazione degli elementi idonei a ritenere la sussistenza del pregiudizio patrimoniale in riferimento all’arco temporale fissato con inizio dall’anno 2006 con l’importo indicato come accantonato, in difetto di indicazione della pertinente busta paga;
4. i motivi, da trattare congiuntamente in quanto tutti relativi alla valutazione delle risultanze della CTU, non sono ammissibili;
5. va in primo luogo rammentato che, in presenza di due successive contrastanti consulenze tecniche d’ufficio (nella specie, la prima disposta nel giudizio di primo grado e la seconda in sede di gravame), qualora il giudice aderisca al parere del consulente che abbia espletato la sua opera per ultimo, va escluso il vizio di motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., e va ritenuta sufficiente la motivazione della sentenza, pur se l’adesione non sia specificamente giustificata, ove il secondo parere tecnico fornisca gli elementi che consentano, su un piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e, sul piano negativo, di escludere la rilevanza di elementi di segno contrario, siano essi esposti nella prima relazione o aliunde deducibili; in tal caso, non possono configurare l’anzidetto vizio di motivazione le doglianze di parte che, dirette al solo riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, non individuino gli specifici passaggi della sentenza idonei ad inficiarne la logicità, anche per derivazione dal ragionamento del consulente (Cass. n. 8429/2021);
6. inoltre, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con mod. dalla legge n. 134 del 2012, consente di censurare l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nozione nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio recepita dal giudice, risolvendosi la critica ad essa nell’esposizione di mere argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio (Cass. n. 8584/2022);
7. né è integrata la violazione dell’art. 2697 c.c., in quanto deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sia onerata, secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece, come in questo caso, laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107/2013, n. 13395/2018, n. 18092/2020);
8. con il quarto motivo si denuncia (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione dell’art. 11, commi 3 e 4, d. lgs. n. 47/2000 e degli artt. 2 e 3, commi 15 e 16, legge n. 297/1982, per avere la Corte di merito affermato che il ricalcolo del differenziale del TFR deve essere compiuto al lordo di tutte le trattenute di legge già versate dal datore di lavoro nel corso del rapporto di lavoro;
9. con il quinto motivo si denuncia (art. 360, n. 4, c.p.c.) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c., per avere la Corte d’Appello reso affermazioni inconciliabili tra loro, avendo statuito, da un lato, che il datore debba versare le differenze retributive e di TFR al lordo e dall’altro che, rispetto all’imposta sulla rivalutazione, il datore conserva la veste di sostituto d’imposta;
10. detti motivi, che possono essere trattati congiuntamente, sono infondati;
11. la Corte d’Appello si è uniformata al principio, costantemente espresso da questa Corte, secondo cui il calcolo delle somme dovute al lavoratore per differenze retributive e trattamento di fine rapporto deve avvenire sempre al lordo (v. Cass. n. 8406/2023, n. 25016/2017, n. 18044/2015);
12. non ricorre il vizio di nullità della sentenza dedotto, atteso che la decisione impugnata dà conto del percorso logico seguito e spiega che la regola, secondo cui il datore di lavoro conserva la veste di sostituto d’imposta finché il rapporto di lavoro ha caratteristiche di regolarità e perde tale ruolo qualora venga meno agli obblighi legali, subisce una deroga per l’imposta sulla rivalutazione; essa viene corrisposta dal datore nel momento in cui eroga le differenze del TFR assumendo la veste di sostituto d’imposta; in linea con i requisiti motivazionali (cd. minimo costituzionale), delineati dalle note sentenze delle S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014;
13. con il sesto motivo parte ricorrente deduce (art. 360, n. 5, c.p.c.) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione agli artt. 115, 116 c.p.c. e 2909 c.c., non avendo la sentenza impugnata tenuto conto della produzione dall’Ospedale, già dalla memoria di costituzione in primo grado, del giudicato del Tribunale di Foggia, con efficacia riflessa, di accertamento della natura non subordinata per compensi percepiti per attività in plus-orario (cd. compartecipazioni), anche in violazione del principio di non contestazione per avere affermato non esservi prova che il contenzioso tra INPS e l’Ospedale ricorrente, oggetto del giudicato, riguardasse anche la posizione dell’odierna controparte (mentre l’accertamento dell’INPS aveva riguardato tutto il personale in data 29.7.94 prestatore di attività in plus-orario);
14. con il settimo motivo, deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., non avendo la sentenza impugnata correttamente applicato il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, non avendo in particolare considerato gli effetti del citato giudicato riflesso del Tribunale di Foggia, di accertamento della natura non subordinata per compensi percepiti per attività in plus-orario (cd. compartecipazioni);
15. i due motivi, che si trattano congiuntamente perché sovrapponibili, sono inammissibili per più profili; sia nella parte in cui denunciano l’erronea valutazione di elementi probatori non consentita in questa sede, a maggior ragione in una ipotesi di cd. doppia conforme, sia là dove invocano gli effetti del giudicato esterno, in quanto la deduzione in ordine alla esistenza di un giudicato che si assume inerente alla posizione del controricorrente e di cui sarebbe stata fornita la prova in giudizio non può prescindere dal deposito, in questa sede, della sentenza di cui si tratta munita dell’attestazione di irrevocabilità ad opera della cancelleria, ai sensi dell’art. 124 disp. att. c.p.c. (v. Cass. n. 28515/2017, n. 22883/2008, n. 11889/2007, n. 23567/2006), adempimento del tutto omesso;
16. con l’ottavo motivo la sentenza impugnata viene censurata (art. 360, n. 3, c.p.c.) per violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 3, d.l. n. 333/1992, conv. in legge n. 359/1992 e del CCNL Comparto sanità, per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto non rientrare l’indennità di mensa tra le voci escluse dall’art. 46 CCNL cit. dalla base di computo del TFR, assumendone pertanto la natura retributiva, per la rilevata mancata istituzione di un servizio di mensa, pure in assenza di una previsione di CCNL relativa alla sua natura retributiva, essendo peraltro essa negata per il valore dei pasti dalla giurisprudenza di legittimità;
17. il motivo è fondato per quanto di ragione;
18. la Corte d’Appello ha incluso l’indennità di mensa tra le voci utili al computo del TFR fino al 31.12.2001; ha riconosciuto applicabile al rapporto di lavoro il CCNL Comparto Sanità Pubblica integrativo del CCNL 7.4.1999, il cui art. 46, nell’elencare le voci della retribuzione utili ai fini del TFR, non menziona l’indennità di mensa; ha tuttavia rilevato che il contratto collettivo è entrato in vigore il 31.12.2001 e ha ritenuto che, per il periodo anteriore, l’indennità di mensa fosse da computare nel calcolo del TFR, in quanto corrisposta in modo continuativo nel corso del rapporto e non equiparabile ad un rimborso spese, operando la disciplina dettata dal contratto collettivo solo a partire dal 31.12.2001;
ha giudicato non pertinente la disposizione di cui all’art. 3, terzo comma, del decreto legge n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992 (secondo cui “Salvo che gli accordi e i contratti collettivi, anche aziendali, dispongano diversamente, stabilendo se e in quale misura la mensa è retribuzione in natura, il valore del servizio di mensa, comunque gestito ed erogato, e l’importo della prestazione pecuniaria sostitutiva di esso, percepita da chi non usufruisce del servizio istituito dall’azienda, non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro”), in quanto volta a disciplinare i casi in cui il servizio mensa sia stato attivato presso l’azienda, come desumibile dall’utilizzo dei termini “gestito, erogato, istituito” riferiti, appunto, al citato servizio, e quindi non applicabile alla fattispecie oggetto di causa in cui difetta la prova dell’istituzione della mensa;
19. in realtà questa Corte, pronunciandosi sulla normativa del 1992, ha statuito che nella disciplina dettata dall’art. 6, terzo comma, decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito con modificazioni in legge 8 agosto 1992 n. 359, il valore del servizio mensa e l’importo della prestazione sostitutiva percepita da chi non usufruisce del servizio aziendale non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente ad istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro, salva la possibilità di una diversa previsione – nel senso che il servizio mensa debba considerarsi come retribuzione in natura – da parte dei contratti collettivi nazionali e aziendali, anche se stipulati anteriormente all’entrata in vigore del citato decreto (Cass. n. 15767/2001, n. 3623/1994); specificamente, si è attribuito alla legge n. 359/1992 un valore sostanziale di norma di interpretazione autentica, di guisa che, allo stato, e con valore retroattivo, soltanto in quanto la volontà collettiva si sia espressamente manifestata nel senso del valore retributivo del pasto o dell’indennità sostitutiva, questi sono computabili ai fini del trattamento di fine rapporto; al riguardo è certo significativo, e l’interprete deve tenerne conto, che avendo la giurisprudenza nel passato dichiarato la nullità degli accordi sindacali che privavano la mensa o l’indennità retributiva di valore retributivo, la novella legislativa fosse imperniata proprio nella riaffermazione della validità di quegli accordi, anche se assunti in epoca anteriore all’approvazione della legge; si è ulteriormente precisato che le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 3888/1993, hanno escluso che il servizio mensa o l’indennità sostitutiva della stessa abbiano natura ontologicamente retributiva, ribadendo che è rimessa alla fonte legale o contrattuale l’individuazione delle voci da includere nella retribuzione base per il calcolo degli istituti di retribuzione indiretta o differita; si è aggiunto che, a seguito della disciplina dettata dall’art. 6 del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359, l’indennità sostitutiva della mensa non è computabile a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali, che gli accordi collettivi che stabilivano tale principio, in vigore prima dell’introduzione della nuova legge, sono fatti salvi (anche se in contrasto con disposizioni di legge) nella parte in cui prevedevano limiti e valori convenzionali del servizio mensa e dell’importo della prestazione sostitutiva di esso, a qualsiasi effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro subordinato), che è tuttavia possibile all’autonomia collettiva disporre diversamente, vale a dire includere il valore reale o l’importo della relativa indennità sostitutiva nella base di calcolo di qualsiasi istituto;
20. i precedenti di legittimità richiamati, e dai quali questo Collegio non ha ragione di discostarsi, non operano alcuna distinzione in base al rilievo dell’effettiva istituzione o meno del servizio mensa, ma si concentrano sulla natura in sé dell’indennità di mensa, escludendone il valore ontologicamente retributivo, salva diversa previsione da parte dei contratti collettivi;
21. deve quindi ritenersi che la Corte d’Appello abbia male interpretato l’art. 6 della legge n. 359 del 1992, in contrasto con il significato letterale come unanimemente inteso dalla giurisprudenza di legittimità;
22. pertanto, in accoglimento dell’ottavo motivo di ricorso, ritenuti infondati o inammissibili gli altri motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie l’ottavo motivo di ricorso per quanto di ragione, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Bari, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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