CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 8565 depositata il 29 marzo 2024
Lavoro – Licenziamento – Carta carburante – Acquisto di carburante per finalità estranee al servizio ed agli interessi aziendali – Card abbinata a mezzi diversi da quello assegnato nel turno di lavoro – Rigetto
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a A.M. in data 3 aprile 2019 e ha condannato A. S.p.a., ai sensi del comma 4 dell’art. 18 S.d.L. novellato dalla legge richiamata, a reintegrarlo nel posto di lavoro nonché a risarcirgli il danno pagando un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, nella misura non superiore a dodici mensilità, oltre accessori e rivalutazione monetaria e versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali;
2. la Corte, in estrema sintesi, premesso che “oggetto della contestazione” al dipendente nelle operazioni di rifornimento con l’utilizzo di carte carburanti e codice PIN personale consistesse “nell’avere effettuato rifornimenti di carburante con la card abbinata a mezzi diversi da quello assegnato nel turno di lavoro e di aver pertanto utilizzato la card aziendale per finalità estranee al servizio e comunque in violazione delle procedure aziendali in materia di gestione rifornimento carburante”, ha ritenuto, sulla base del tenore della contestazione disciplinare e degli elementi istruttori acquisiti, anche in altri giudizi, che “i fatti addebitati attengono esclusivamente al disallineamento fra la card utilizzata e il mezzo assegnato, ma non certo che i rifornimenti in questione siano avvenuti per finalità estranee al servizio e contrarie agli interessi aziendali”; ha, quindi, argomentato che “trattasi di condotte che, anche ove dimostrate, non sarebbero punibili, secondo il CCNL con la sanzione espulsiva né in concreto appaiono suscettibili di ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per l’azienda”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A. Spa con quattro motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. preliminarmente occorre dichiarare l’inammissibilità del deposito della sentenza penale prodotta da parte ricorrente unitamente alle note ex art. 380 bis 1, c.p.c., perché in violazione del tassativo disposto dell’art. 372 c.p.c., il quale consente il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo solo laddove riguardino “la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso”;
2. i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati;
2.1. il primo deduce: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; violazione e falsa applicazione artt. 99 c.p.c., 101 comma 2 c.p.c., 434 c.p.c., 437 comma 2 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per aver accolto la domanda del lavoratore di applicazione dell’art. 18 comma 4 Stat. Lav. sulla scorta di una causa petendi non prospettata dal medesimo con il ricorso introduttivo di primo grado e rilevata di ufficio nel giudizio di secondo grado”;
2.2. il secondo motivo individua nella sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., “per aver omesso di accertare e dichiarare l’inammissibilità del reclamo proposto dal sig. A. con riferimento al primo motivo di reclamo”;
2.3. col terzo si denuncia: “violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per aver la Corte di Appello di Roma interpretato la contestazione disciplinare dell’11.02.2019 disattendendone il contenuto letterale e aver omesso di interpretarla sistematicamente, nonché per aver ritenuto generica la contestazione di aver acquistato il carburante “per finalità estranee al servizio ed agli interessi aziendali”, per aver ritenuto non specificamente contestati alcuni rifornimenti con card abbinate a diversi mezzi effettuati a distanza ravvicinata l’uno dall’altro, per aver ritenuto non contestati i rifornimenti in quanto effettuati fuori orario di servizio, con conseguente violazione e falsa applicazione anche dell’art. 7 L. 300/1970, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.”;
2.4. il quarto mezzo denuncia: “violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per aver omesso di porre a fondamento della propria decisione i fatti non specificamente contestati (in relazione agli episodi del 3.03.2017, 29.03.2017, 10.05.2017, 3.08.2017 e del 28.03.2017); sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. per aver omesso di porre a carico del lavoratore l’onere di provare i fatti addotti a giustificazione della condotta contestata con riferimento ai predetti episodi e a quelli del 28.03.2017, 1.04.2017, 18.04.2017”;
3. per ragioni di priorità nell’ordine logico-giuridico delle questioni, occorre esaminare il secondo motivo di ricorso che è infondato;
parte ricorrente lamenta che la Corte territoriale non abbia accolto la propria eccezione di inammissibilità del primo, secondo e quarto motivo di reclamo del lavoratore deducendo che: “La motivazione dell’appello deve, […], contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”;
orbene, le Sezioni unite civili (Cass. SS.UU. n. 27199 del 2017) hanno considerato, in relazione agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, come, per superare il vaglio di ammissibilità dell’appello, non “occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”, risultando sufficiente che l’impugnazione contenga “una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze”; si è, in particolare, ribadito che “la riforma del 2012 non ha trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l’appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata […] l’appello è rimasto una revisio prioris instantiae; e i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l’appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione”; secondo il Supremo Collegio “la diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa del 2012 la quale, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre all’inammissibilità dell’appello a determinate condizioni (artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ.), ha nel contempo ristretto le maglie dell’accesso al ricorso per cassazione per vizio di motivazione; il che impone di seguire un’interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire un’ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste”; tanto in coerenza con la “regola generale” secondo cui “le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale” (tra le successive conf. v. Cass. n. 13535 del 2018; Cass. n. 7675 del 2019);
ciò posto in diritto, la Corte territoriale, pronunciandosi nel merito, ha chiaramente ritenuto che la parte appellante avesse individuato sufficientemente, oltre ai punti e ai capi della decisione investiti dall’impugnazione, anche le ragioni in base alle quali veniva chiesta la riforma, in guisa tale che il quantum appellatum restasse specificato in modo esauriente, ponendo il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza quale fosse il contenuto delle censure proposte, potendo le stesse anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado; sicché la decisione della Corte territoriale che ha evitato di comminare la più grave delle sanzioni processuali, definendo invece nel merito il gravame, appare corretta;
4. sono, invece, inammissibili le censure formulate nel terzo e nel quarto motivo di ricorso;
posto che l’accertamento della sussistenza in fatto della condotta addebitata, così come la valutazione degli elementi probatori volti ad accertare i fatti, rappresentano questioni di merito, che esorbitano dal controllo di legittimità, i motivi di censura pretendono di sollecitare la revisione del giudizio di merito, in parte criticando l’interpretazione offerta dalla Corte territoriale alla contestazione disciplinare (che pure è questione di merito) ed in parte con l’improprio riferimento della violazione di norme di diritto quali l’art. 115 c.p.c. e 2697 c.c.;
per il primo aspetto, la violazione dell’art. 115 c.p.c. non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (Cass. SS.UU. n. 11892 del 2016; Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), evenienza non realizzata nella specie;
con riguardo al secondo aspetto, va, poi, rammentato che la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (tra molte: Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), e nella specie gravava interamente sul datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, l’onere di provare la sussistenza dell’addebito nei suoi connotati non solo oggettivi ma anche soggettivi;
in definitiva occorre ribadire l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);
5. infondate sono, infine, le doglianze contenute nel primo motivo di ricorso, attinente alla tutela ex art. 18, comma 4, S.d.L., riconosciuta dalla Corte quale conseguenza dell’illegittimità del licenziamento;
si eccepisce che la Corte, in violazione dell’art. 112 c.p.c., avrebbe “accolto la domanda sulla base di un motivo di invalidità del licenziamento dalla stessa rilevata d’ufficio, che invece solamente la parte avrebbe potuto e dovuto prospettare con il giudizio di primo grado”, invero, è sufficiente ribadire che il vizio di ultra ed extra petizione ricorre solo quando il giudice pronunzia oltre i limiti delle domande e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell’esercizio della sua potestas decidendi, resta libero di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronunzia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all’uopo prospettate, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta osservanza della legge, che il giudice deve conoscere e applicare (art. 113 c.p.c.);
nella specie è la stessa sentenza impugnata a riportare le conclusioni formulate dal lavoratore nell’atto introduttivo del giudizio che, al punto b), chiedono, quale conseguenza della dichiarazione di “illegittimità del licenziamento intimato al Sig. A. in data 20.2.18”, la condanna di “A. s.p.a., in persona del legale rappresentante, ai sensi dell’art. 18 L. 300/70 c. 4, come modificato dall’art. 1 c. 42, 43 L. 92/12 a reintegrare il Sig. A. nel proprio posto di lavoro, con pagamento di una indennità risarcitoria pari all’ultima retribuzione globale di fatto euro 2.485,09 (€ 2130,08 x 14 / 12) dal dì del licenziamento al momento dell’effettiva reintegra”;
sicché non può certo dirsi che la Corte abbia attribuito un bene della vita diverso da quello comunque richiesto dal lavoratore, mentre affinché l’eventuale modifica di circostanze di fatto che possono essere poste a fondamento di una domanda o di una eccezione possa concretare la violazione dell’art. 112 c.p.c. è necessario che i medesimi abbiano natura costitutiva della fattispecie integrante la domanda o l’eccezione e che introducano nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alterando l’oggetto sostanziale dell’azione o dell’eccezione ed i termini della controversia; anche per questo verso il motivo è infondato atteso che il lavoratore che impugna il licenziamento disciplinare può limitarsi a dedurre, a fondamento della sua azione, che non sussiste la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo di recesso, mentre grava interamente sul datore l’onere di fornire la prova della sussistenza di essi, sotto ogni profilo oggettivo e soggettivo;
6. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con le spese regolate dalla soccombenza e attribuite al procuratore del controricorrente che si è dichiarato anticipatario;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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