CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 12290 depositata il 16 marzo 2018
Sanatoria per colf e badanti – Compenso per pratiche di regolarizzazione – Reato di favoreggiamento della permanenza sul territorio di individui stranieri irregolari – Falsità in atti pubblici
Rilevato in fatto
1. Con sentenza in data 07/03/2016 il Tribunale di Milano condannava A.E.M.S. alla pena di anni quattro di reclusione ed € 9.000,00 di multa per i reati di favoreggiamento della permanenza sul territorio di individui stranieri irregolari (cui venivano prospettate false formalità di emersione dal lavoro nero in cambio di danaro) e di falsità di atti pubblici (falsi modelli di pagamento unificati con attestazioni di versamento del contributo forfettario), contestualmente assolvendolo dall’accusa di avere partecipato ad una associazione per delinquere. Si legge in sentenza che le indagini si erano svolte per alcuni mesi nell’anno 2010, quando diversi soggetti extracomunitari avevano denunziato tale G.F. (separatamente giudicato) ed il ricorrente per averli truffati; in quel periodo era in corso la sanatoria per colf e badanti (nel senso che colui che aveva al proprio servizio un lavoratore domestico poteva pagare la somma di € 500,00 all’Agenzia delle Entrate e così regolarizzare quella posizione lavorativa presso la Prefettura, la quale avrebbe convocato datori di lavoro e lavoratori extracomunitari per poi rilasciare il permesso di soggiorno); in sintesi, i denunzianti avevano indicato il ricorrente come persona che, grazie al suo lavoro di panettiere, era in contatto con molti extracomunitari e prospettava loro, con la collaborazione del F.G., di seguire le pratiche di regolarizzazione per un compenso oscillante tra gli € 500,00 e gli € 3.000,00 garantendo l’impiego quali colf e badanti; ai richiedenti venivano consegnati modelli F24 recanti il timbro di un istituto di credito nonché ricevuta prefettizia dell’avvio della pratica; tuttavia, diversi mesi dopo il pagamento, nulla era avvenuto, tanto che i molti soggetti stranieri avevano finito per denunziare il fatto e produrre i documenti loro consegnati. Così i Carabinieri accertavano che i timbri degli istituti di credito sugli F24 erano falsi, al pari della ricevuta prefettizia di avvio della pratica, e che tutti i datori di lavoro indicati risultavano dimorare nello stesso luogo di Caltagirone, dove vi era in realtà una pizzeria; una perquisizione a casa del ricorrente faceva rivenire modelli F24 ancora in bianco, fotocopie di passaporti egiziani, prospetti sulla pratica di regolarizzazione ed appunti su persone che avrebbero dovuto essere indicate come datori di lavoro, oltre ad un assegno a lui intestato di € 1.000,00 tratto dal conto corrente di una società riferibile al G.. Alla stregua degli elementi raccolti, il giudice evidenziava che il F.G. aveva ammesso l’accordo con l’imputato per effettuare finte regolarizzazioni percependo il danaro di soggetti extracomunitari, nella consapevolezza che i moduli telematici non sarebbero mai stati inviati. Il giudice concludeva che il meccanismo era stato dimostrato, nel senso che l’imputato aveva contattato soggetti disposti a pagare per ottenere una regolarizzazione; quindi aveva deciso di sfruttare in modo illecito la procedura di emersione dal lavoro irregolare, aveva tratto un ingiusto profitto ed aveva favorito la permanenza nello Stato di soggetti privi di titolo; tutta la documentazione era falsa e non era necessario, per la consumazione del reato, che si attivasse davvero la procedura poiché ciò non era richiesto dalla norma: infatti, il possesso della ricevuta prefettizia, pur essendo falsa, consentiva all’extracomunitario l’esibizione ai controlli di polizia poiché impediva l’attivazione della procedura di espulsione; quanto ai modelli F24, si trattava di atti pubblici di fede privilegiata e la falsificazione era stata tutt’altro che grossolana. I testimoni esaminati avevano reso dichiarazioni che potevano considerarsi non utilizzabili, per la loro possibile (ma non attestata) consapevolezza della falsità dei rapporti di lavoro e di una compartecipazione al reato, per cui il giudice concludeva che le loro dichiarazioni non sarebbero state utilizzate: ma tutto il restante compendio probatorio era sufficiente per la condanna. Non venivano riconosciute le circostanze attenuanti generiche.
2. Interponeva appello l’imputato, eccependo l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di molti testimoni che in realtà erano state utilizzate dal giudice, poiché senza quelle non vi erano concrete prove a carico; si chiedeva l’assoluzione o un trattamento sanzionatorio più mite.
3. Con sentenza in data 15/12/2016 la Corte di Appello di Milano confermava la condanna di primo grado. Rilevava la Corte territoriale che le persone sentite si erano affidate all’imputato ed al suo complice per le pratiche di emersione, per cui non erano correi bensì persone offese, tanto che erano state loro a prendere l’iniziativa di volere scoprire l’esito delle pratiche; e comunque tutti i documenti falsi rinvenuti a casa dell’imputato non potevano che avere una sola destinazione e cioè l’azione a sostegno dei soggetti extracomunitari, per come confermato anche dal G. che aveva ammesso tutto il meccanismo ed il rapporto con l’imputato, il quale, ragionevolmente, ne traeva profitto. La pena era stata inflitta in misura inferiore a quella debita, in ragione del numero delle persone apparentemente assistite, che peraltro denotava un dolo intenso.
4. Avverso detta sentenza propone ricorso l’interessato a mezzo del suo difensore, Avv. D.T..
4.1. Deduce con il primo motivo, ex art. 606 comma 1 lett. c) ed e), cod.proc.pen., inosservanza di norme processuali e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che tutti i cittadini stranieri sentiti come testimoni erano consapevoli di non avere i requisiti per la regolarizzazione per cui avrebbero dovuto essere indagati e le loro dichiarazioni non potevano essere raccolte in semplici testimonianze; la Corte territoriale aveva sostenuto che si trattava di persone offese, ma in realtà erano autori di un reato e oltre ad essi non vi erano vere prove poiché il G. era poco attendibile (aveva fornito diverse versioni dei fatti) e gli operatori di polizia giudiziaria erano intervenuti dopo la commissione dei reati acquisendo semplicemente informazioni che non potevano riferire, mentre nessun altro teste aveva potuto riferire alcunché su detti fatti.
4.2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: si sostiene che gli atti falsi erano stati realizzati in modo grossolano per come emerso in dibattimento e al ricorrente erano state sequestrate soltanto fotocopie di versamenti su moduli F 24, ma la Corte di Appello non si era pronunziata sul punto.
4.3. Con il terzo motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che nessuna richiesta di emersione era stata inoltrata alla Prefettura e non era mai stata svolta un’indagine su eventuale superamento di controlli di polizia con le ricevute provvisorie né sul profitto del ricorrente.
4.4. Con il quarto motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che il reato di falso in atto pubblico era più grave di quello del favoreggiamento della permanenza di stranieri e lo assorbiva poiché il secondo conteneva una clausola di sussidiarietà.
4.5. Con il quinto motivo si chiede dichiararsi la prescrizione poiché il termine per la presentazione delle domande di regolarizzazione era la data del 30.09.2009.
4.6. Con il sesto motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e), cod.proc.pen., erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che la motivazione sul diniego delle circostanze attenuanti generiche era insufficiente e che non vi era reale motivazione sull’entità della pena, che superava il minimo edittale.
5. In udienza le parti hanno concluso come indicato in epigrafe.
Considerato in diritto
1. Il ricorso deve essere rigettato poiché infondato.
L’analisi dei singoli motivi di ricorso sarà effettuata nell’ordine in cui le doglianze sono state dedotte.
2. Il primo motivo di ricorso lamenta l’utilizzo dei criteri valutativi adoperati per l’affermazione della responsabilità penale e, in particolare, il fatto che si era fatto uso delle dichiarazioni rese dai cittadini stranieri coinvolti nella vicenda, i quali, per essere consapevoli di non avere i requisiti per la regolarizzazione, avrebbero dovuto essere sottoposti ad indagine, con conseguente impossibilità di considerare le loro dichiarazioni come semplici testimonianze: la Corte territoriale aveva sostenuto trattarsi di persone offese, ma ciò era stato un mero espediente mentre, eliminata quella fonte dichiarativa, il restante materiale istruttorio era poco probante.
Si tratta di doglianze infondate.
La censura circa l’utilizzo di dichiarazioni dei denunzianti costituisce un falso problema, poiché il primo giudice espressamente non le ha utilizzate per la sua decisione (pur dopo averle sintetizzate) e la Corte d’Appello ha ribadito che non vi era stata alcuna abusiva valutazione di dichiarazioni non utilizzabili. Entrambe le decisioni di condanna hanno fondato il loro convincimento su altre basi e, nel dettaglio, sugli esiti delle attività di indagine e sulle dichiarazioni del coimputato G.: si tratta di due fattori valutabili e pienamente utilizzabili. Infatti, la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che il G. aveva reso dichiarazioni etero ed autoaccusatorie idonee a sostanziare un quadro di accusa a carico del ricorrente, spiegando l’intero meccanismo fraudolento organizzato a danni di soggetti stranieri (il ricorrente, grazie alla sua rete di conoscenze, avvicinava i soggetti interessati ed il G. offriva la sua collaborazione per seguire le false pratiche di regolarizzazione in cambio di un compenso, garantendo l’impiego di detti soggetti quali colf e badanti; ai richiedenti, poi, venivano consegnati modelli F24 recanti il timbro di un istituto di credito nonché ricevuta prefettizia dell’avvio della pratica, tutti non rispondenti al vero).
Questa ricostruzione dettagliata della condotta criminale aveva poi trovato diverse conferme: in primo luogo, il numero ed il nominativo dei soggetti stranieri che avevano sporto denunzia (dato oggettivo sul quale l’ufficiale di polizia giudiziaria escusso quale testimone ben poteva riferire); in secondo luogo, il numero dei soggetti che aveva cercato informazioni presso l’agenzia specializzata nel campo della immigrazione, riferito da una impiegata della agenzia stessa, la quale ricordava le concordi narrazioni di questi soggetti ed aveva riconosciuto il ricorrente come una persona che si era a lei rivolta interessata alla gestione di pratiche di “emersione”; in terzo luogo, la documentazione rinvenuta nella abitazione del ricorrente medesimo (modelli F24 ancora in bianco, fotocopie di passaporti egiziani, prospetti sulla pratica di regolarizzazione, appunti su persone che avrebbero dovuto essere indicate come datori di lavoro, elenco di soggetti extracomunitari – alcuni dei quali avevano appunto presentato denunzia – con indicate delle cifre nonché un assegno a lui intestato di € 1.000,00 tratto dal conto corrente di una società riferibile al G.). La Corte territoriale – con percorso argomentativo logico esente da vizi giuridici – concludeva che si trattava di elementi per nulla neutri, ma indicativi di un ben preciso disegno criminoso, rispetto al quale era inverosimile ipotizzare che il ricorrente – il quale era appunto il primo ad avere contatto con i soggetti stranieri in cerca di regolarizzazione – non lucrasse alcunché dalla sua azione.
3. La seconda doglianza del ricorrente attiene al tema della realizzazione asseritamente grossolana degli atti falsi per come emerso in dibattimento ed al fatto che al ricorrente erano state sequestrate soltanto fotocopie di versamenti su moduli F 24, ma la Corte di Appello non si era pronunziata sul punto.
Anche questa doglianza è priva di fondamento.
In primo luogo, sul rinvenimento di copie di moduli F 24 nell’abitazione del ricorrente, la Corte territoriale si era pronunziata, per come rammentato nel precedente paragrafo 2: ed essa ha correttamente sottolineato che, da un lato, non poteva ipotizzarsi una coincidenza, vista la peculiare natura del documento, il quale veniva poi contraffatto «non senza una specifica finalità»; d’altro lato, ha sottolineato che quella documentazione tenuta in casa non poteva avere un carattere neutro, ma si inseriva perfettamente nella narrazione-ricostruzione offerta dal G. e rafforzava l’intero contesto probatorio.
Quanto al tema del falso grossolano, pur considerando che i soggetti danneggiati erano stranieri con limitate nozioni di documenti e lingua italiana, si tratta, in realtà, di un tema che non ha rilievo nella fattispecie concreta, nella quale la falsità aveva raggiunto l’obiettivo di ingannare i soggetti danneggiati.
Questa Corte, infatti, ha già ribadito che, in tema di falso, la valutazione dell’inidoneità assoluta dell’azione, che dà luogo al reato impossibile, dev’essere fatta ex ante, vale a dire sulla base delle circostanze di fatto conosciute al momento in cui l’azione viene posta in essere, indipendentemente dai risultati, e non ex post, tale principio riguarda, peraltro, i casi in cui il falso sia stato scoperto e si discuta se lo stesso fosse così grossolano da dover essere riconoscibile ictu oculi per la generalità delle persone, ovvero sia stato scoperto per effetto di particolari cognizioni o per la diligenza di determinati soggetti, non anche quelli in cui il falso non sia stato scoperto ed abbia prodotto l’effetto di trarre in inganno, nei quali, quindi, la realizzazione dell’evento giuridico esclude in radice l’impossibilità dell’evento dannoso o pericoloso di cui all’art. 49 cod. pen. (Sez. 2, n. 36631 del 15/05/2013, Rv. 257063).
4. Il terzo motivo di ricorso sostiene la mancata integrazione dei reati, poiché nessuna richiesta di “emersione” era stata inoltrata alla Prefettura e non era mai stata svolta un’indagine su eventuale superamento di controlli di polizia con le ricevute provvisorie né sul profitto del ricorrente.
La doglianza non può essere accolta.
È sufficiente ribadire che, per la configurazione del reato di favoreggiamento della permanenza, nel territorio dello Stato, di stranieri, previsto dall’art. 12, comma quinto, D.Lgs. n. 286 del 1998 (testo unico delle norme in tema di immigrazione), al fine di trarre ingiusto profitto dalla loro condizione di illegalità, è irrilevante che si attivi la procedura di regolarizzazione della loro posizione e che essa pervenga ad un esito positivo mediante il rilascio del permesso di soggiorno, non essendo tanto richiesto dalla norma incriminatrice, che contempla qualsiasi attività con cui si favorisca comunque la permanenza degli stranieri nel territorio dello Stato (Sez. 1, n. 40320 del 09/10/2008, Rv. 241434).
Quanto detto appare idoneo anche a contrastare la censura della mancata verifica circa l’eventuale superamento di controlli di polizia con le ricevute provvisorie: si tratta di elemento estraneo alla fattispecie tipica contestata ed è sufficiente rammentare che, in tema di reato di favoreggiamento dell’illegale permanenza dello straniero nel territorio dello stato, di cui all’art. 12, comma quinto D.Lgs. n. 286 del 1998, la condotta di presentazione di false dichiarazioni di emersione di lavoro irregolare, sorretta dal fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità del cittadino extracomunitario, è di per sé sufficiente ad integrare la fattispecie delittuosa, in quanto impedisce l’attivazione della procedura di espulsione.
Quanto al profitto del ricorrente, la Corte territoriale non ha sottovalutato il punto, evidenziando che, da un lato, era stato rinvenuto in casa del ricorrente un assegno della cifra di € 1.000,00 – riconducibile al G. – e che, d’altro lato, sulla base di tale elemento e del compendio intero delle prove, ha dedotto appunto l’inverosimiglianza di un siffatto coinvolgimento senza alcun corrispettivo.
5. La quarta doglianza del ricorrente sostiene che il reato di falso in atto pubblico era più grave di quello del favoreggiamento della permanenza di stranieri e lo assorbiva poiché il secondo conteneva una clausola di sussidiarietà.
L’argomentazione non è accoglibile: il reato di falso e il favoreggiamento della permanenza di soggetti extracomunitari non possono avere un rapporto di assorbimento, trattandosi di fattispecie ben diverse per tipologia, condotta e natura: il primo (posto a tutela della pubblica fede) è stato strumentale al secondo (posto a presidio dell’ordine pubblico) e non richiede affatto la finalità di favorire una permanenza siffatta. Infatti, il meccanismo dell’assorbimento, a cui rimanda l’inciso “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, presuppone che il reato più grave sia posto a tutela del medesimo interesse protetto dal reato meno grave da assorbire (Sez. 3, n. 50561 del 08/10/2015, Rv. 265647; Sez. 2, n. 25363 del 15/05/2015, Rv. 265045).
6. Con il suo quinto motivo il ricorrente chiede dichiararsi la prescrizione poiché il termine per la presentazione delle domande di regolarizzazione era la data del 30.09.2009.
È una doglianza priva di fondamento: la contestazione e la successiva condanna riguardavano la falsità degli atti e la permanenza irregolare dei soggetti extracomunitari sul territorio, per cui le condotte criminose erano andate oltre il termine di presentazione delle domande, e ciò proprio grazie alle false ricevute prefettizie, per cui correttamente era stata contestata la prosecuzione dell’azione criminosa sino al maggio 2010, il che elimina la maturazione della prescrizione prima della conclusione del giudizio.
7. L’ultimo motivo di ricorso riguarda la motivazione sul diniego delle circostanze attenuanti generiche, ritenuta insufficiente al pari di quella sull’entità della pena.
Va subito detto che si tratta di una doglianza piuttosto genericamente espressa. Ad ogni modo, sul tema delle circostanze attenuanti generiche, la Corte territoriale ha confermato la valutazione espressa dal giudice di primo grado, che aveva escluso l’attenuazione della pena a causa della particolare intensità del dolo desunta dal numero rilevante delle pratiche e dalla pluralità delle condotte delittuose. La Corte territoriale ha ritenuto perciò immeritevole il ricorrente di qualsiasi attenuazione della sanzione.
Si tratta di una motivazione corretta: secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. 1, n. 11361 del 19.10.1992, Rv 192381).
Dunque, per come scritto in precedenza, il giudice ha motivato in modo congruo sul punto, richiamando i fattori valutativi presi in considerazione e dipanando la sua convinzione sulla base delle dinamiche dell’accaduto e della personalità dimostrata dal ricorrente.
Infine, l’entità della pena è stata ritenuta dalla Corte territoriale come computata in modo erroneo ma a favore del ricorrente, poiché, non era stato considerato in modo pedissequo il numero dei cittadini stranieri solo apparentemente supportati, altrimenti la sanzione avrebbe dovuto essere ben più rilevante.
Il ricorrente lamenta una pena più alta del minimo edittale, ma si tratta di una doglianza aspecifica, che non si confronta con la decisione ora menzionata e non esprime ragioni apprezzabili.
8. Complessivamente, dunque, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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