Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 13002 depositata il 28 marzo 2023
bancarotta fraudolente per distrazione – concorrente “extraneus”
I ricorsi sono entrambi inammissibili.
1.Il ricorso nell’interesse di A.A..
1.1.Il primo motivo è del tutto aspecifico e privo di pregio.
A fronte dell’articolata ma lineare ricostruzione svolta dai giudici di merito nella pronuncia impugnata, il motivo in scrutinio per confutarla estrapola tre circostanze del fatto, come se esse costituissero gli unici aspetti intorno a cui ruota l’impostazione accusatoria – recupero della gestione del conto, emissione degli assegni circolari per quasi due milioni di Euro, nomina di un nuovo liquidatore ed organizzazione del sistema di home banking -, e, attraverso la prospettazione in negativo di altre – partecipazione del ricorrente alla scelta del nuovo liquidatore, intenzione di nominare un liquidatore fantoccio, effettuazione dei bonifici che comportavano la distrazione dei fondi della società – rispetto alle quali difetterebbe la prova di un coinvolgimento di A.A., ritiene di concludere che il quadro indiziario sia costituito solo da meri sospetti non idonei a provare la partecipazione di A.A. nelle scelta del nuovo liquidatore C.C. e nella realizzazione dei bonifici distrattivi.
Se solo si legge la sentenza impugnata risulta evidente come il motivo in scrutinio ne lambisca la motivazione senza attingerne il fulcro ricostruttivo, che ruota intorno anche ad altri elementi, tralasciati dal ricorrente nella sua impostazione parziale ed atomistica, e soprattutto li collega a quelli indicati in ricorso nell’ambito di una valutazione complessiva che si cementa per la logicità e coerenza dell’apparato argomentativo che la sostiene.
Ed invero, la Corte di appello ha piuttosto posto in evidenza come, una volta fallito il tentativo di superare la situazione di insolvenza in cui già versava la società con lo strumento del concordato preventivo risolto per grave inadempimento, A.A., all’epoca liquidatore della società, e già amministratore della stessa, unitamente a B.B., commercialista storico della medesima, abbiano architettato di sottrarre ingenti somme di denaro dalle casse societarie, escogitando la nomina a nuovo liquidatore di C.C. – soggetto dotato di “una scarsa capacità di giudizio, creduloneria, inaffidabilità” affetto da lieve deficit intellettivo tanto da avere un’amministratrice di sostegno – al solo fine di imputare a questi – e non a A.A. – i prelievi ingiustificati di notevoli importi di denaro, realizzati mediante home banking, che veniva attivato dal medesimo A.A. in data 27.7.2017, ossia poco prima della sua cessazione formale dalla carica – risalente al 4.8.17 – all’evidente scopo di poter continuare ad agire sul conto della società anche dopo il subentro del nuovo liquidatore – circostanza quest’ultima avvalorata dal fatto che A.A. aveva anche le credenziali per operare sul conto tant’è che operò anche formalmente su di esso fino alla cessazione dalla carica.
Che egli abbia partecipato, se non proprio istigato la scelta di C.C., ovvero di una persona che potesse non essere di ostacolo alla realizzazione del piano, è argomentato dal giudice di merito evidenziando come, tra l’altro, la sua versione, nella parte in cui afferma di non avere avuto contezza di chi fosse C.C., ovvero il suo successore, non fosse affatto attendibile perchè implicante la circostanza, non credibile, che A.A. avesse affidato la società di famiglia a uno sconosciuto, “con cui pure parla per pochi minuti, non accerta se era una persona “qualificata”, non gli chiede il numero di telefono, non gli spiega nulla della situazione aziendale, non consegna documenti, ma in compenso gli dà il telefono collegato al conto societario su cui cii sono circa due milioni di Euro, per “renderlo operativo”” (così testualmente nella pronuncia impugnata); laddove peraltro anche B.B., a sua volta, nulla riferisce di sapere in ordine al soggetto prescelto – nè il titolo di studio, nè l’esistenza di precedenti incarichi nè il nome dei collega che gli avrebbe inviato C.C.. L’ipotesi alternativa che offre il motivo in scrutinio, che si risolve nell’attribuire la responsabilità dei bonifici ad altri e la scelta del nuovo liquidatore al solo B.B., è per altro verso rimasta affidata a flebili inferenze di tipo logico nella parte in cui si vorrebbe addirittura dimostrata la esecuzione dei bonifici da parte di terzi in virtù del fatto che precedenti operazioni, sicuramente effettuate dal ricorrente, sarebbero intervenute in luogo diverso da quello in cui sono poi avvenute quelle incriminate, e della circostanza che alle ulteriori operazioni compiute in favore del notaio e dello stesso C.C., eseguite dopo la cessazione dalla carica di A.A., non potevano che avere interesse altri e non certamente il ricorrente che era oramai fuori dalla società a seguito della nomina del nuovo liquidatore. Trattasi all’evidenza di aspetti non dotati di alcun effettivo substrato dirimente risolvendosi essi in asserzioni, prive di effettiva portata dimostrativa disarticolante a fronte dei passaggi argomentativi, ben strutturati, di cui si compone la complessiva, convergente, ricostruzione accusatoria; in questa trovano idonea e confacente collocazione anche le spese del notaio, che pose in essere un atto che non riguardava solo C.C., e lo stesso versamento di una somma di denaro in favore di C.C., che nella logica dell’ottica ricostruttiva non poteva che porsi quale compenso per quanto lo stesso si era prestato a fare in favore e per conto dei ricorrenti; sicchè si appalesa del tutto improduttivo il tentativo di scardinare quella ricostruzione passando attraverso gli argomenti indicati che in definitiva si qualificano come meramente congetturali, essendo in buona sostanza di tipo congetturale l’assunto da cui essi muovono: le operazioni incriminate non potrebbero che essere state effettuate da altri perchè non disposte dai medesimi luoghi da cui partirono quelle incriminate, e ad altri sarebbero certamente da imputare quelle altre operazioni poste in essere nel medesimo arco temporale, successivo alla cessazione dell’incarico di A.A., laddove come ha giustamente osservato il giudice di merito le spese del medesimo periodo non possono ritenersi estranee alla sfera di competenza e di interesse del ricorrente, al quale, non va peraltro dimenticato, come invece sembra fare il ricorso, è imputato di aver proseguito nella gestione della società anche dopo le dimissioni, di avere in buona sostanza solo apparentemente lasciato la carica.
Davvero un percorso a dir poco arzigogolato, quello della difesa, che palesa piuttosto l’intento di porre in essere l’estremo tentativo di scardinare ciò che in realtà era per la granitica sostanza di cui si compone difficilmente scardinabile.
1.2.Quanto al secondo motivo, esso ripropone temi già affrontati col primo motivo, così riguardo alla contestazione del fatto che il cellulare sarebbe rimasto in possesso di A.A., che si risolve anch’essa in una mera negazione dell’evidenza, costituendo il possesso del telefono da parte di A.A. una inferenza che trova la sua logica giustificazione nell’ambito della complessiva ricostruzione accusatoria e che il motivo in scrutinio intende confutare estrapolando semplicemente il dato dal contesto in cui congruamente si inserisce; tale circostanza peraltro viene contestata sempre sulla base dei rilievi dei quali si è già dato conto esaminando il primo motivo.
Il motivo è nel resto in ogni caso aspecifico impingendo aspetti – quali la mancata conoscenza dell’incapacità di C.C. e la possibilità che C.C. sia stato aiutato da terzi nelle operazioni di bonifico – che trovano puntuale spiegazione nella dinamica ricostruttiva come sopra riportata (che si fonda soprattutto sull’annotazione dirimente della inverosimiglianza di tale ipotesi alternativa implicante la messa a disposizione di una persona incapace, e di terzi sconosciuti, di una così ingente somma di denaro giacente sul conto intestato alla società).
1.3. Il terzo e il quarto motivo – che si muovono nella medesima ottica sia pure attaccando la sentenza l’uno sotto il profilo della violazione di legge l’altro del vizio di motivazione – sono, di là delle etichette impugnatorie, interamente impostati sul fatto e sul merito, sulle circostanze e ragioni che avrebbero indotto A.A. a non richiedere il fallimento prima della cessazione della carica – in buona sostanza individuate nella necessità di attendere, su consiglio degli avvocati difensori che si sarebbero al riguardo anche consultati con gli organi della procedura, l’esito del reclamo proposto avverso la revoca del concordato preventivo intervenuta per grave inademp1mento. Essi, in ogni caso, non considerano – e soprattutto in tale guisa si appalesano secondo il Collegio nella presente sede indeducibili – che ciò che è ascritto all’imputato non si ferma con la cessazione della sua carica di liquidatore risalente al 4.8.2017, essendo a lui addebitato di avere agito anche successivamente in veste di amministratore di fatto – qualifica in realtà non incisa specificamente in ricorso – compiendo atti incompatibili con la fase liquidatoria in cui versava la società.
Sicchè tutto il ragionamento che la difesa sviluppa in ricorso – tendente ad accreditare la buona fede dell’imputato che nel legittimo e sacrosanto esercizio del diritto di difesa si sarebbe limitato ad interporre reclamo avverso la revoca del concordato, per di più in tal senso indirizzato dai suoi legali ovvero a porre in essere un’attività che non lascerebbe Spa zio alla configurazione dell’omissione di cui agli artt. 217, 224 L. Fall. – fermandosi alla data della cessazione dalla carica risalente al 4.8.17, finisce col tralasciare proprio quel segmento successivo ritenuto di nevralgica importanza nella ricostruzione accusatoria recepita dal giudice di merito – anche – ai fini della con1″igurazione della condotta omissiva avente ad oggetto la mancata richiesta di fallimento della società – protrattasi ben oltre il momento valutativo dell’esperimento del rimedio giurisdizionale apprestato dall’ordinamento avverso la revoca del concordato – e a lui imputata quale effettivo dominus della società fino alla dichiarazione di fallimento, che interveniva, tardivamente, solo in data 9.4.2018 (ben oltre la stessa data di scadenza del termine per proporre il ricorso per cassazione); laddove evidente era, d’altra parte, che non vi fosse Spa zio per una nuova proposta di concordato La Corte territoriale ha anche osservato come il comportamento di A.A. non è stato solo omissivo perchè ponendosi una “testa di legno” quale liquidatore della società era prevedibile un ulteriore ritardo nella richiesta di fallimento, e che irrilevante era il fatto che ancora avrebbe potuto ricorrersi in Cassazione avverso la decisione della Corte di appello poichè, date le condizioni in cui versava la società, si sarebbe dovuto chiedere in ogni caso il fallimento e il ricorso non avrebbe avuto altra conseguenza che ritardarlo.
Tale impostazione è del tutto conforme all’orientamento di questa Corte in materia che ha più volte avuto modo di affermare che nel reato di bancarotta semplice, la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento da parte dell’amministratore (anche di fatto) della società è punibile se dovuta a colpa grave che può essere desunta, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma. in concreto, da una provata e consapevole omissione (Sez. 5, Sentenza n. 18108 del 12/03/2018, Rv. 272823 – 01); e che ai fini della configurabilità del reato di bancarotta semplice per mancata tempestiva richiesta di fallimento, non è ostativa la condotta dell’amministratore che presenta un’istanza di rateizzazione del debito erariale, strumento previsto dall’ordinamento per far fronte alla crisi dell’impresa, se essa avviene in una situazione di conclamata ed irrimediabile insolvenza della società, in assenza di qualsivoglia iniziativa volta a risollevarne le sorti (Sez. 5, Sentenza n. 57757 del 24/11/2017 Ud. (dep. 28/12/2017) Rv. 271861 – 01), sicchè, a rigore, in linea generale, l’adozione di un rimedio apprestato dall’ordinamento come strumento di difesa non è di per sè – necessariamente – scriminante rispetto al ritardo nella dichiarazione di fallimento imputabile all’amministratore.
2.11 ricorso nell’interesse di B.B..
2.1. Il primo motivo è aspecifico. Esso genericamente deduce la mancanza di elementi idonei a supportare in capo al ricorrente la configurazione sia del momento rappresentativo doloso, consistente nella piena consapevolezza della condotta distrattiva ideata e perpetrata da altri, sia del momento volitivo, implicante la diretta volontà di partecipare rinalisticamente al fatto criminoso, e non si confronta, peccando quindi anche di genericità estrinseca, con la sentenza impugnata che ha invece ben posto in evidenza le plurime circostanze, che incastrandosi tra loro come in un armonico mosaico, depongono per la piena partecipazione dell’imputato alla vicenda criminosa; secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, la vicenda si è evidentemente articolata attraverso le condotte di entrambi i ricorrenti e solo in virtù della loro sinergica collaborazione conseguiva l’obbiettivo distrattivo oggetto di imputazione; al centro di essa vi era l’interesse di A.A. a recuperare il denaro prima della dichiarazione di fallimento, che costituiva oramai una ipotesi più che reale, e, al contempo, a non esporsi in prima persona, come dimostra il fatto che egli per realizzare il suo scopo, per un verso, si servì dello sprovveduto C.C. e, per altro, verso si avvalse della cooperazione del fidato B.B. – che oltre ad essere il commercialista ventennale della società si era anche prestato a ricoprire l’incarico di sindaco proprio nel periodo del concordato preventivo – ovvero di persona che, bene a conoscenza della realtà societaria, poteva dargli una mano concreta; e quanto ai due elementi che in ricorso si assumono del tutto neutri, e quindi erroneamente valorizzati dal giudice di merito – ausilio nella scelta del nuovo liquidatore e consegna delle fatture in banca – la sentenza impugnata ha fornito risposte del tutto esaurienti ai rilievi che già in sede di appello si erano enucleati al riguardo, rintuzzando tutti gli argomenti che la difesa aveva in quella sede esposto al fine di dimostrare l’assoluta buona fede del ricorrente, indicato, in contrasto con le emergenze valutate anche logicamente dal giudice di merito, come persona ignara sia delle condizioni di salute di C.C. che del ruolo di mera testa di legno che lo stesso avrebbe dovuto assumere, oltre che del contenuto della busta consegnata al direttore di banca – contenente in realtà le fatture prodotte al fine di giustificare i bonifici di così ingente somma di denaro in favore di società estere.
Trattasi in definitiva di rilievi qui pedissequamente riproposti nonostante le esaurienti argomentazioni svolte nella pronuncia impugnata che – alle pagine 11, 12 e 13 – scolpisce in maniera nitida la figura ed il ruolo svolto da B.B. nella vicenda, il cui abbrivio con la scelta mirata – e non occasionale come da lui sostenuto con argomenti giustamente ritenuti non convincenti – di una persona ad hoc avente determinate caratteristiche, e che diversamente non avrebbe avuto ragione di essere selezionata, ha evidentemente connotato l’intero iter logico-ricostruttivo del fatto che nel suo dipanarsi non fa che confermare quella intenzionalità iniziale andando a saldarsi con essa in un unicum deliberativo.
E’ nella effettiva portata degli accadimenti, mal celata dietro l’apparenza della formalità, che disvelano piuttosto, per il modo in cui si svolsero ed evolsero, e per la evidenza della ragione che li sostenne, l’intima essenza del loro divenire finalistico, che si annida la componente soggettiva del contributo reso da B.B., come F.F. sticamente ricostruito dal giudice dm merito.
D’altra parte, in tema di concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, il dolo del concorrente “extraneus” nel reato proprio dell’amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell'”intraneus”, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società che può rilevare sul piano probatorio quale indice significativo della rappresentazione della pericolosità della condotta per gli interessi dei creditori (Sez. 5 -, Sentenza n. 4710 del 14/10/2019 Ud. (dep. 04/02/2020), Rv. 278156 – 02), laddove nel caso di specie la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del ricorrente è per tutto quanto sopra esposto – in re ipsa e si aggiunge quale ulteriore elemento di connotazione della condotta e del dolo.
2.2. Il secondo motivo, che lamenta che nel caso di specie l’affermazione di responsabilità si fonderebbe su meri sospetti circa la dolosità dell’apporto – ricavati anche in violazione della cd. presumptio de presumpto, mediante la deduzione di fatto ignoto da fatto altrettanto ignoto – a ben vedere non esclude, al pari del primo motivo, il coinvolgimento del ricorrente nella vicenda, contestandone la componente soggettiva, e parte, nella sua impostazione tesa a dimostrare l’insufficienza della prova in tal senso, proprio da quei comportamenti che hanno costituito la base – certa e nota – su cui il giudice di merito ha ricostruito la vicenda, anche sotto il profilo soggettivo, con procedimento inferenziale logico-indiziario conducente in senso unidirezionale verso l’affermazione della dolosità del contributo del ricorrente. Esclusione d’altronde difficilmente ipotizzabile, atteso l’evidente contributo fattivo reso dal ricorrente nella scelta del liquidatore e nella consegna alla banca proprio di quelle fatture che servivano e servirono a giustificare l’ammanco, che nella dinamica di cui si è più volte fatto cenno non poteva che assumere connotato doloso.
La partecipazione di B.B. alle due condotte è invece indicata dalla difesa come neutra in quanto letta in maniera avulsa dal sottostante contesto in cui sì inserisce; essa, tuttavia, anche per altro verso, tradisce la sua vera natura se si considera che gli adempimenti svolti da B.B. andarono ben oltre gli ordinari compiti del professionista che segue una società essendosi piuttosto egli prestato a più riprese, e in più di un’occasione, sempre nell’ambito della medesima vicenda ruotante intorno alla sostituzione di A.A. con soggetto non affatto qualificato, che ebbe come unico risultato quello dell’effettuazione dei bonifici incriminati.
Se è vero che l’elemento soggettivo va ricostruito in via indiretta desumendolo da elementi concreti sintomatici – a meno che esso non sia espressamente esplicitato – trattandosi di fattore interno involgente la rappresentazione e volizione dell’azione e che quindi il procedimento che conduce al suo accertamento deve essere improntato alla ricerca accurata di quei fattori effettivamente idonei a palesare la sua effettiva portata, è altrettanto vero che il procedimento inferenziale che in tal modo si innesca nell’accertamento della componente soggettiva non può escludere l’incidenza anche di quei fattori di tipo logico che non di rado vanno a cementare i passaggi ricostruttivi di una vicenda consentendo di colmare gli Spa zi esistenti tra i vari tasselli che la compongono; sicchè allorquando – come nel caso di specie – il tessuto ricostruttivo si tiene in piedi, nel senso che assuma significato secondo il criterio della razionalità umana, solo a condizione che ad esso si dia una determinata qualifica soggettiva, si deve concludere che non vi sia Spa zio nè per una ricostruzione alternativa nè di conseguenza per il dubbio.
Nel caso di specie – si ribadisce – il giudice è partito da fatti noti – anzi pacifici quali quello del coinvolgimento di B.B. nella individuazione del liquidatore e nella consegna delle fatture, tra loro collegati, oltre che con altri elementi – pretermessi dalla difesa nella ricostruzione parziale che offre – sia strutturalmente, in quanto si dipanano nell’abito del medesimo archetipo contestuale, sia funzionalmente per il rilievo che assumono nella dinamica della complessiva vicenda, elementi che tutti insieme considerati hanno consentito al giudice di giungere alla conclusione accolta.
Il motivo, in altri termini, mira a scardinare la ricostruzione accusatoria attraverso passaggi argomentativi privi di pregio per la loro visione atomistica e parcellizzata del quadro probatorio, meramente indirizzata a sminuirne la portata mediante lo svilimento delle pregnanti azioni poste in essere dal ricorrente a meri comportamenti innocui e insignificanti; e finisce col risolvendosi in una prospettiva difensiva destinata ad infrangersi sull’efficienza del costrutto del giudice di merito che in quanto tale non è suscettibile di essere scalfito.
2.3. Quanto al diniego delle attenuanti generiche va subito detto che, di là del rilievo su quanto osservato dal giudice sulla qualifica professionale rivestita dal ricorrente che nell’ottica della sentenza impugnata avrebbe determinato un aggravio di responsabilità, ciò che il ricorso di concreto oppone come elemento idoneo a entrare nella valutazione al riguardo è l’incensuratezza. Tuttavia per il consolidato orientamento giurisprudenziale dei questa Corte, formatosi sul punto ancor prima della modifica dell’art. 62-bis c.p., disposta con il d. L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, l’incensuratezza non è di per sè sufficiente ai fini della concessione dell’attenuante in parola (in questo senso, tra tante, Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017 Ud. Rv. 270986 – 01 che ha affermato che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato).
Quanto all’attenuante della minima partecipazione, pure invocata dal ricorrente, la Corte di appello ha ritenuto, con argomenti logici e congrui, che il contributo di B.B. non potesse ritenersi minimo bensì essenziale avendo egli contribuito a gettare le premesse per la distrazione per poi tentare di occultarla successivamente.
Tale impostazione è in linea con la giurisprudenza di questa Corte che ha già avuto più volte modo di affermare che l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. è configurabile solo quando l’opera prestata da taluno dei concorrenti sia stata non solo minore rispetto a quella degli altri concorrenti, ma addirittura minima, sì da aver esplicato un’efficacia eziologica del tutto marginale e quasi irrilevante nella produzione dell’evento (cfr. per tutte Sez. 5, Sentenza n. 2302 del 11/11/1988 Ud. (dep. 15/02/1989), Rv. 180497 – 01, che si è espressa proprio con riferimento a unn caso di bancarotta fraudolenta); ed ancora, che in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p. è configurabile a condizione che sia possibile, attraverso l’esame delle modalità di commissione del fatto, stabilire che l’imputato abbia svolto un ruolo assolutamente marginale di efficacia causale così lieve nella determinazione dell’evento criminoso da risultare del tutto trascurabile (Sez. 2, n. 38492 del 23/09/2008, Rv. 241461 – 0), laddove nel caso di specie la valutazione del giudice di merito, sia nella parte specificamente dedicata alla verifica della sussistenza dell’attenuante in parola, che in quella complessiva di ricostruzione del fatto, depone per uno spessore tutt’altro che insignificante della condotta del ricorrente.
3. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, cui consegue, per legge, ex art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di procedimento, nonchè, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate. L’imputato B.B. deve essere altresì condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile liquidate bn complessivi Euro 4.000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3,000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato B.B. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 4.000,00, oltre accessori di legge.
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