CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 aprile 2021, n. 13062
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Bancarotta fraudolenta patrimoniale – Amministratore della società – Prelievi dal conto aziendale per spese personali
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Milano ha parzialmente riformato la decisione del Tribunale di Lecco – rideterminando le pene accessorie fallimentari – che aveva dichiarato F.C., amministratore della C. s.r.l., dichiarata fallita con sentenza del 4 luglio 2012, colpevole di bancarotta fraudolenta patrimoniale per avere distratto, in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, circa 15.000 euro, tramite prelievi dal conto aziendale per spese personali, nonché ulteriori 15.000 (circa) euro tramite restituzione di finanziamento soci.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso l’imputato, con il ministero del difensore, il quale svolge tre motivi, denunciando, con i primi due, violazione dell’art. 216 L.F. e vizi della motivazione, con riferimento alla valutazione sia dell’elemento oggettivo che di quello psicologico del reato.
2.1. Sotto il primo profilo, si contesta che il depauperamento sia stato causato destinando risorse sociali ad impieghi estranei all’attività sociale; in particolare, la Corte di appello non ha considerato la circostanza che i pagamenti previdenziali Inps per circa € 15.000 sono stati versati nel corso di 12 anni di attività aziendale, e che, quindi, il prelievo dalle casse sociali di poco più di € 1000,00 annui non fosse idoneo a cagionare alcuno squilibrio di contabilità, né a mettere in pericolo la conservazione dell’integrità del patrimonio dell’impresa. Inoltre, secondo la prospettazione difensiva, il prelievo di tale somma da parte del ricorrente, a fronte della sua funzione di socio amministratore, privo di compenso, sarebbe relativa a spesa inerente alla gestione sociale, in quanto corrispondente al versamento del contributi previdenziali in suo favore, e, dunque, si tratterebbe di spesa prevedibile per la società.
2.1.1. Ulteriore rilievo riguarda l’idoneità del versamento, da parte del ricorrente, dell’importo complessivo dì € 136.800,00 nel 2010, a elidere il pericolo concreto di pregiudizio ai creditori sociali, e a renderlo inattuale rispetto al fallimento intervenuto nel 2012. Si tratta, infatti, di un finanziamento del socio Amministratore, ottenuto personalmente dalla banca e versato nelle casse della società.
2.1.2. Si contesta, inoltre, la configurazione della bancarotta distrattiva, anziché preferenziale, poiché la circostanza che esista la nota di impegno della società a rimborsare le rate, inserita nella relazione del bilancio 2009, configura la fattispecie come un vero e proprio prestito di cui la mancata postergazione potrebbe, al più, integrare, appunto, la fattispecie della bancarotta preferenziale. Il caso non è confondibile con il pagamento di un debito personale del socio avvenuto in costanza di dissesto, trattandosi di prestito alla società che assume la veste di delegata passiva verso la banca. Al più, sarebbe ravvisabile la figura della bancarotta preferenziale in quanto l’istituto di credito sarebbe stato preferito rispetto agli altri creditori. Nel caso di specie, però, non ricorrerebbero gli altri presupposti del fatto tipico, in quanto la banca già godeva di privilegio.
2.1.3. Ci si duole ancora della mancata considerazione della bancarotta riparata – prospettazione alla quale aveva anche aderito la Procura della Repubblica – poiché, erroneamente, la Corte di Appello ha ritenuto, per un verso, la reintegrazione del patrimonio come avvenuta in costanza di dissesto, mentre essa è avvenuta, come si richiede, prima della dichiarazione del fallimento; inoltre, i giudici di merito non hanno considerato che il ricorrente ha annullato la sottrazione, versando una somma decisamente più cospicua di quanto sottratto, rinunciando alla restituzione di altrettanto considerevole importo, così annullando anche il pregiudizio dei creditori e la potenzialità del danno.
2.2. Il secondo motivo prende in esame l’elemento soggettivo. La Difesa esclude che il ricorrente potesse avere mai avuto la consapevolezza della natura distrattiva della propria condotta, in quanto egli ha rinunciato ai suoi diritti di compenso e di restituzione del prestito per l’importo di euro 96.000. Non corrisponde al vero, quanto affermato in sentenza, circa la criticità della situazione economica della società fin dal 2009, poiché, al contrario, nel 2009 e nel 2010, il ricorrente effettuò acquisti di beni e chiudeva positivamente il bilancio. In ogni caso, anche quando, nel 2011, il bilancio fu negativo, permanevano ingenti crediti verso la Pubblica amministrazione, che era cliente primario della società, ed era legittimo l’affidamento dell’amministratore della certa esigibilità di siffatti crediti, come emerge anche dalla circostanza che, negli anni, detti crediti sono andati a diminuire; d’altro canto, l’istruttoria ha pacificamente acclarato che la crisi fu determinata dal mancato pagamento da parte della P.A. a fronte della introduzione del patto di stabilità oltre che dalla diminuzione delle commesse da parte dei Comuni, a causa delle minori conseguenti risorse economiche. Inoltre, nel 2010, l’imputato versava sui conti sociali ben 136.8000, condotta che sarebbe in antitesi con la supposta situazione di criticità manifestatasi già nel 2009. A fronte di una situazione aziendale in bonis con previsione di incassi certi nel 2011, nulla autorizzava a rappresentarsi la pericolosità di un esborso di 1000 euro annui per la garanzia creditoria, tanto che egli effettuò acquisti nel 2009 e nel 2010.
2.3. Con il terzo motivo ci si duole che la Corte di appello, pur riducendo l’entità della pena accessoria, l’ha individuata senza prendere in esame, come avrebbe dovuto, alla luce del principio affermato dalle Sezioni Unite “Suraci”, la condotta del reo e gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.
3. Con requisitoria scritta del 26 gennaio 2021 il Procuratore generale della Corte di cassazione, L.O., ha concluso per il rigetto del ricorso.
4. La Difesa del ricorrente ha presentato memoria scritta riportandosi ai motivi e chiedendone l’accoglimento.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è parzialmente fondato, per quanto si dirà. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata, in parte qua, con rinvio per nuovo esame al giudice di merito.
2. Secondo la ricostruzione dei fatti proveniente dalla relazione del curatore fallimentare, e accolta dai giudici di merito nelle due conformi pronunce di condanna, il ricorrente, nella qualità, ha effettuato due operazioni di natura distrattiva, consistite: la prima, nel prelevare annualmente l’importo corrispondente ai contributi previdenziali in suo favore (fino al complessivo ammontare di 15.00 euro); la seconda, nel prelevare dalle casse sociali le somme per sostenere il pagamento degli interessi di un mutuo (di 150.000 euro), precedentemente contratto a titolo personale con istituto bancario, poi bonificando alla società la somma di euro 136.800 a titolo di credito.
3. Incontestati i fatti – ovvero che il C. abbia privato il patrimonio sociale di complessivi 30.000 euro – la Corte di appello, la cui motivazione deve essere letta in uno con la sentenza di primo grado, ha ritenuto, valutando il primo segmento della condotta contestata, che il prelevo frazionato nel tempo di somme destinate al pagamento di contributi personali ( anche nel periodo, dal 2010, in cui la società era in perdita) fosse estraneo alle finalità sociali e idoneo a creare un pericolo di danno al patrimonio sociale. Il percorso argomentativo fa corretta applicazione di consolidati principi di diritto, alla luce dei quali “In tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare, la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori in quanto espongono a pericolo la garanzia di soddisfacimento delle loro ragioni, segue la dichiarazione di fallimento.“(Sez. 5, Sentenza n. 19215 del 13/11/2014 Ud. (dep. 08/05/2015 ) Rv. 264844 -01) sicché deve escludersi che sia necessario un nesso causale tra i fatti distrattivi ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che la condotta sia in concreto idonea a creare un pericolo per il patrimonio sociale, ipotesi nella specie rinvenibile.
L’indirizzo si fonda sulla considerazione che, nel nostro ordinamento, l’imprenditore assume una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali confidano nel patrimonio dell’impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Da qui, la diretta responsabilità dell’imprenditore, quale gestore di tale patrimonio, per la sua conservazione ai fini dell’ integrità della garanzia. La perdita ingiustificata del patrimonio o la elisione della sua consistenza costituisce un vulnus alle aspettative dei creditori e integra, pertanto, l’evento giuridico presidiato dalla fattispecie della bancarotta fraudolenta. Tali considerazioni giustificano la, solo apparente, inversione dell’onere della prova incombente sul fallito, in caso di mancato rinvenimento di beni da parte della procedura e in assenza di giustificazione al riguardo (nel senso di dare conto di spese, perdite o oneri compatibili con il fisiologico andamento della gestione imprenditoriale), poiché, anche in ragione dell’obbligo di verità gravante sul fallito ai sensi dell’art. 8 comma 3 della legge fallimentare con riferimento alla destinazione di beni di impresa al momento in cui viene interpellato da parte del curatore, obbligo presidiato da sanzione penale, si tratta di legittima sollecitazione affinchè il diretto interessato dia adeguata dimostrazione, in quanto gestore dell’impresa, della destinazione dei beni o del loro ricavato. (Sez. 5 n. 7588 del 26/01/2011). Deve, altresì, aggiungersi che, per consolidato orientamento interpretativo, i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza.
D’altro canto, si è precisato che la c.d. “zona di rischio penale”, ossia il parametro spazio temporale entro il quale l’apprezzamento di uno stato di crisi dell’impresa, conosciuto dall’agente, è destinato ad orientare l’interpretazione di ogni iniziativa di distrazione dei beni da parte di quest’ultimo, può valere ad escludere la rilevanza penale della condotta solo quando l’azione addebitata, per le sue caratteristiche intrinseche, non sia idonea ad esporre a pericolo il patrimonio dell’impresa e non sia collocabile in un contesto di condotte che abbiano determinato il dissesto. (Sez. 5, n. 18517 del 22/02/2018 Rv. 273073). Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, sicché né la previsione dell’insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, né la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell’atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell’antigiuridicità penale della condotta. E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l’esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell’ambito della legge fallimentare, all’art. 223, distinguendo le condotte previste dall’art. 216 (legge fall., art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società (legge fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento (Sez. V, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, rv. 251214).
3.1. Quanto poi alla qualificazione giuridica del fatto in esame, secondo quanto, anche recentemente, ribadito da questa Corte (sezione 5 n. 32378 del 12/04/2018, Rv. 273576), risponde di bancarotta preferenziale il liquidatore che disponga in proprio favore il pagamento del compenso proporzionato alla quantità e alla qualità dell’attività svolta, ma in assenza di una corrispondente delibera societaria; mentre ricorre il delitto di bancarotta fraudolenta nel caso in cui l’amministratore si auto attribuisca un compenso sproporzionato all’attività svolta (conf. Sez. 5 n. 28077 del 15/04/2011, Rv. 250461; n. 5186 del 02/10/2013, dep. 2014, Rv. 260196; n. 48017 del 10/07/2015, Rv. 266311). Ebbene, nel caso di specie, la deduzione difensiva finalizzata ad accreditare un credito dell’amministratore per l’attività svolta in suo favore, è meramente assertiva e genericamente prospettata dal ricorrente, senza riscontri documentali, non essendo stati deliberati, i compensi, dal C.d.A., né contrattualizzati. La Corte territoriale ha, pertanto, correttamente ricostruito il fatto secondo lo schema legale della bancarotta fraudolenta, dovendosi osservare che, proprio in ragione dell’assenza di riscontro alla tesi che i prelevamenti fossero corrispondenti a spettanze lavorative, neppure è concretamente prospettabile la qualificazione della condotta quale bancarotta preferenziale.
3.2. E’ stato correttamente svolto anche lo scrutinio dell’elemento soggettivo, in coerenza con l’orientamento pacificamente accreditato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, per il perfezionamento del reato, è sufficiente il dolo generico, ovvero la consapevolezza di concorrere nella sottrazione delle risorse societarie alla funzione cui sono destinate, e, quindi, del possibile pregiudizio derivante da tale distrazione, senza che sia necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa; elemento soggettivo emergente, quindi dalla complessiva condotta, di inequivoca interpretazione. Siffatta interpretazione ha ricevuto l’autorevole avallo delle Sezioni Unite – secondo cui, stante la genericità del dolo bancarotta fraudolenta patrimoniale, per la sua sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo, pertanto, sufficiente che la condotta di colui che pone in essere l’attività distrattiva, o vi concorre, sia assistita dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, perché minano, depauperandolo, il patrimonio sociale e la correlata garanzia, senza che sia necessaria l’intenzione di causare tale danno. (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli e altro, Rv. 266805). E’ sufficiente, cioè, la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte. Con la conseguenza che ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell’art. 216 legge fall., in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo, il quale non costituisce l’evento del reato che, invece, coincide con la lesione dell’interesse patrimoniale della massa, per cui, se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori, ciò non significa che tale consapevolezza non possa ricavarsi da fattori diversi, quali la natura fittizia o l’entità dell’operazione che incide negativamente sul patrimonio della società. Del resto, la bancarotta per distrazione è reato di pericolo, e, pertanto, sotto il profilo oggettivo, non è necessaria, per la sua sussistenza, la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudizio ai creditori, mentre, come detto, il suo elemento soggettivo richiede solo la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alla finalità dell’impresa e di compiere atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori. (Sez. U. Passarelli cit.).
3.3. Neppure è fondata la deduzione con la quale si rivendica la riqualificazione del fatto in termini di bancarotta riparata, dovendosi dare atto alla Corte di appello di essersi correttamente determinata, considerando che la fattispecie non è integrata dalla mera rinuncia al credito, in mancanza di una reintegrazione del patrimonio utile a ritenere neutralizzata la condotta depauperativa. In tal senso è orientata infatti la giurisprudenza di legittimità, secondo cui la bancarotta cosiddetta “riparata” determina l’insussistenza dell’elemento materiale del reato e si configura allorché la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori; è, quindi, onere dell’amministratore, che si è reso responsabile di atti di distrazione e sul quale grava una posizione di garanzia rispetto al patrimonio sociale, provare l’esatta corrispondenza tra i versamenti compiuti e gli atti distrattivi precedentemente perpetrati ( giurisprudenza costante, da ultimo Sez. 5, n. 57759 del 24/11/2017 Rv. 271922 – 01).
4. Anche l’ultimo profilo di doglianza è destituito di fondamento, attesa che la riforma della pena accessoria inflitta in primo grado è stata operata dalla Corte territoriale Corte esprimendo un giudizio di congruità della stessa rispetto alla condotta. Come è stato già affermato nella giurisprudenza di questa Corte, una più ampia motivazione è necessaria nel caso in cui la durata della pena accessoria sia determinata in misura superiore alla media edittale, ipotesi non ricorrente nel caso in esame (Sez. 5 -, Sentenza n. 11329 del 09/12/2019 Cc. (dep. 03/04/2020 ) Rv. 278788 -01).
5. Coglie, invece, nel segno la Difesa quando si duole della qualificazione giuridica del secondo segmento della condotta distrattiva, quello riguardante i prelievi finalizzati al pagamento delle rate del finanziamento in buona parte riversato nelle casse della società, in relazione al quale la Corte territoriale ha escluso la riconducibilità della condotta allo schema della bancarotta preferenziale, per essere stato operato, il recupero del credito, in costanza di dissesto.
5.1. La valutazione della Corte territoriale sembra fondata sulla considerazione che detto versamento abbia costituito un finanziamento in conto capitale. Invero, come di recente ribadito da questa stessa Sezione, in tema di reati fallimentari, il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società; al contrario, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale (Sez. 5 – n. 8431 del 01/02/2019, Rv. 276031). Nell’ottica di tale distinguo, si afferma, infatti, che integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta dell’amministratore di una società che proceda al rimborso di finanziamenti da lui erogati in qualità di socio in violazione della regola della postergazione di cui all’art. 2467 cod. civ. (Sez. 5 – , n. 25773 del 20/02/2019) Rv. 277577; conf. Sez. 5, n. 34505 del 06/06/2014 Rv. 264277).
5.2. Alla luce di tale principio di diritto, osserva, tuttavia, il Collegio che la sentenza impugnata ha lasciato nel vago il tema della natura del versamento effettuato dal ricorrente nei confronti della società, riversandovi il finanziamento ottenuto dal circuito bancario. Infatti, a fronte di una descrizione della vicenda nei termini di “finanziamento di 150 mila euro dei quali 136.800 erano stati bonificati alla società a titolo di credito al quale l’imputato rinunciava parzialmente…”(pg. 1 della sentenza impugnata), nonché della circostanza, evidenziata dalla Difesa, dell’inserimento di una nota nella relazione di bilancio del 2009 nella quale la società si impegna al rimborso del finanziamento di C., circostanze che potrebbero indirizzare nel senso che si sia trattato di un prestito, (integrante bancarotta preferenziale), la Corte di appello, come premesso, ha qualificato il versamento quale bancarotta fraudolenta.
5.3. Il Collegio ritiene che la Corte di appello, nel lasciare irrisolto il tema della natura del versamento – se finanziamento in conto capitale, oppure prestito da restituire durante la vita della società – non abbia fatto buon governo della richiamata regula juris che, ai Animella qualificazione della fattispecie, richiede una specifica indicazione circa la effettiva natura di tale versamento. Mutuando principi della giurisprudenza civilistica, nella giurisprudenza di questa Corte si è, infatti, considerato che i versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno, tuttavia, una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo, ed è assimilabile a quella del capitale di rischio, sicché essi non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società, e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo per effetto dello scioglimento della società, e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione, fermo restando che, tra la società e i soci, può, viceversa, essere convenuta l’erogazione di capitale di credito, anziché di rischio, e che i soci possono effettuare versamenti in favore della società a titolo di mutuo (con o senza interessi), riservandosi in tal modo il diritto alla restituzione anche durante la vita della società (Sez. civ. 1, n. 7692 del 31/03/2006, Rv. 588234; conf., ex plurimis, Sez. civ. 1, n. 25585 del 03/12/2014, Rv. 633810; Sez. civ. 1, n. 2758 del 23/02/2012, Rv. 621560; Sez. civ. 1, n. 21563 del 13/08/2008, Rv. 605073).
Ne discende che l’erogazione di somme che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate può avvenire in forma di prestito, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento, destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva “in conto capitale” (o altre simili denominazioni), versamento, quest’ultimo, che non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale residuai daimant (Sez. civ. 1, n. 24861 del 09/12/2015, Rv. 637899; conf. Sez. 5 n. 8431/2019 cit.; nello stesso senso, Sez. 5, n. 14908 del 07/03/2008, Frigerio, Rv. 239487, e Sez. 5, n. 13318 del 14/02/2013, Viale, Rv. 254985).
5.5.. Nella sentenza impugnata, tuttavia, la Corte di appello non ha chiarito se nel caso di specie, sia stato effettuato un versamento “in conto capitale”, oppure un finanziamento rimborsabile, assoggettato alla disciplina di cui all’art. 2467 cod. civ., secondo cui il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, sul presupposto accertato dell’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento. La genericità delle indicazioni che, sul punto, si leggono nella sentenza gravata, per i riflessi che riverbera sull’esatto inquadramento del fatto – come bancarotta distrattiva o preferenziale – impone di chiarire, in sede di rinvio, la natura del versamento in denaro effettuato dal ricorrente, verificando se si sia trattato di un apporto in conto capitale di rischio ( per il quale non c’è obbligo di restituzione), oppure di un vero e proprio finanziamento ( per il quale sussiste, invece, l’obbligo di restituzione). E deve ricordarsi che la verifica della natura del versamento, per stabilire se, in concreto, un determinato versamento tragga origine da un mutuo, o se invece sia stato effettuato quale apporto del socio al patrimonio dell’impresa collettiva, secondo le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Corte, passa attraverso la interpretazione della volontà delle parti (Sez. civ. 1, n. 7692 del 31/03/2006, Rv. 588234; Sez. civ. 1, n. 15035 del 08/06/2018, Rv. 649557).
6. Si impone, pertanto, l’annullamento parziale della sentenza impugnata, limitatamente al punto riguardante la bancarotta distrattiva configurata in relazione al finanziamento soci per circa 15.000 euro, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, che si uniformerà ai principi di diritto enunciati ai punti che precedono. Nel resto il ricorso deve essere rigettato.
7. Ai sensi dell’art. 624 cod.pen., dall’annullamento con rinvio circoscritto a tale punto della decisione, deriva l’autorità di cosa giudicata in tutti i restanti punti della sentenza privi di connessione con quello annullato, e quindi, nella specie, con riferimento al l’accertamento della responsabilità dell’imputato relativamente alle restante condotta distrattiva e alla pena principale già determinata nel suo minimo edittale.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla bancarotta distrattiva relativa alla restituzione del finanziamento soci, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso.
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