CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 21468 depositata il 31 maggio 2021

Reato di bancarotta fraudolenta documentale – Mancata consegna dei documenti contabili richiesti dal curatore fallimentare – Pene accessorie – Inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa – Durata – Determinazione

Ritenuto in fatto

1. L.G., per il tramite del difensore di fiducia, ricorre per la cassazione della sentenza del 24.6.2016 della Corte di Appello di ANCONA, di conferma della pronuncia del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Fermo del 5.2.2015, che, in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato il predetto alla pena condizionalmente sospesa di anni uno, mesi quattro di reclusione in ordine al reato di bancarotta fraudolenta documentale – prima parte – di cui agli artt. 216, comma 2, 223 Legge fall., con applicazione delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per anni dieci,

1.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce travisamento dei fatti e delle prove, violazione e falsa interpretazione degli artt. 216 n. 2 e 223 L.F. in relazione all’art. 606 comma 1 lett. b), per essere stato erroneamente ritenuto integrato il dolo specifico del contestato reato di bancarotta fraudolenta documentale pur in mancanza di prova.

1.2. Con il secondo motivo deduce i vizi della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, formulati anche in relazione all’art. 530 comma 2 c.p.p., e violazione dell’art. 192 comma 2 c.p.p.. Una corretta valutazione degli elementi probatori raccolti avrebbe certamente condotto ad un esito assolutorio, quanto meno in forma dubitativa.

1.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizi di motivazione, promiscuamente dedotti anche in relazione all’art. 27 Cost., comma 2, e all’art. 533 c.p.p., lamentando che non si sia fatto corretto governo del principio di presunzione di non colpevolezza, condannando l’imputato nonostante il ragionevole dubbio circa la sua colpevolezza.

2. Il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

1. il ricorso è inammissibile, peccando in ogni sua parte di assoluta genericità intrinseca, e reiterando in ogni caso censure a cui la Corte di appello aveva già dato risposte precise ed esaustive; ciò nondimeno va rilevata l’illegalità delle pene accessorie, come quantificate.

1.1. La Corte di appello, richiamando la sentenza di promo grado, la relazione del curatore fallimentare e la documentazione in atti chiarisce come non sussistano dubbi sul fatto che la contabilità sia esistita, risultando tenuta dalla costituzione della società – ” Il R. s.r.l.” amministrata dal L. e dichiarata fallita nel 2012 – e fino al 18 febbraio 2011 presso lo studio F., ove insisteva anche la sede sociale, e poi consegnata al ricorrente che ne aveva chiesto la restituzione; ciò era desumibile anche dalla presenza di fatture di acquisto, del registro corrispettivo, di agende e di alcuni scontrini fiscali rinvenuti presso la sede della società, ritenuta anch’essa indicativa della effettiva tenuta della contabilità.

A fronte di ciò non risulta riscontro alla richiesta, con raccomandata, di consegna delle scritture contabile inviata dal curatore al L. a seguito del fallimento.

Indi, su tale premessa, e tenuto conto della pluralità degli ulteriori elementi emersi, puntualmente passati in rassegna nel provvedimento impugnato, la Corte territoriale, con motivazione qui non censurabile per la sua esaustività e logicità, ha coerentemente posto in relazione la richiesta di L. di restituzione delle scritture contabili con la dichiarazione di fallimento, che sarebbe seguita di lì a meno di un anno, quale elemento che depone per una programmata sparizione delle scritture contabili finalizzata a impedire ai creditori della società, (nel caso in esame, I.N.P.S. e lavoratori dipendenti) la ricostruzione del movimento di affari e l’entità del patrimonio sociale a garanzia dei creditori, e quindi a recare danno ad essi.

La Corte territoriale, in particolare, a riprova della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, rileva :

– nel 2011 il ricorrente ha richiesto – senza apprezzabile ragione – la restituzione delle scritture contabili ai professionisti presso il cui studio erano tenute e custodite;

– la società dichiarata fallita aveva avviato le attività – di fatto – nel 2010 e nel 2011 le aveva già chiuse, dunque in prossimità della sollecitata restituzione delle scritture contabili allo studio commerciale ove erano tenute;

– il volume di affari – della cui entità il curatore non ha potuto avere contezza in assenza delle dedotte scritture contabili – doveva ritenersi tuttavia considerevole se è vero, come è vero, che presso il ristorante di Fermo risultavano operare cinque dipendenti;

– alla chiusura dell’attività non è seguita la regolarizzazione delle posizioni retributive dei dipendenti;

– il fallimento è stato dichiarato a marzo 2012 su istanza di alcuni dipendenti occupati presso la sede di Fermo della società;

– il passivo ammontava ad oltre 60.000,00 euro, parte dei quali dovuti ai dipendenti, parte all’I.N.P.S. per contributi previdenziali;

– la mancanza delle scritture contabili non ha consentito al curatore, così come ai creditori, di ricostruire il patrimonio della società e di individuare i beni sui quali i creditori avrebbero potuto agire a tutela delle loro ragioni.

Con valutazione logica e coerente con le evidenze disponibili la Corte territoriale ha ritenuto che il complesso degli elementi probatori in atti depongano, univocamente, per la sussistenza del dolo specifico del reato contestato non rinvenendosi plausibile spiegazione alternativa alla richiesta di restituzione delle scritture contabili e all’omessa consegna delle medesime dal ricorrente al curatore fallimentare, se non una preordinata predisposizione dell’impossibilità per i creditori di ricostruire il patrimonio della società, il movimento degli affari, l’individuazione della garanzie per i loro crediti, al fine precipuo di recar loro pregiudizio.

D’altronde per la sussistenza del reato è sufficiente l’accertamento di una delle condotte previste dalla norma – nel caso di specie la mancata consegna è stata ritenuta equiparabile alla sottrazione delle scritture contabili in cui essa si è di fatto risolta – e la presenza in capo all’imprenditore dello scopo di recare pregiudizio ai creditori e di rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari.

1.2. Il secondo e il terzo motivo peccano entrambi di assoluta aspecificità anche propria intrinseca, limitandosi essi a prospettare aspetti e criteri che in astratto devono guidare la valutazione delle prove e il giudizio di colpevolezza (condensati nell’ astratta affermazione secondo cui il principio del libero convincimento del giudice si estrinseca in ogni caso attraverso “un’attività legale e razionale, legale perché si esercita su prove legittimamente acquisite, razionale perché implica l’obbligo di motivare, di giustificare la decisione secondo criteri di ragionevolezza”).

Trattasi peraltro di vizi di motivazione dedotti in maniera, oltre che generica, anche “promiscua”, modalità parimenti non consentita che; a fronte della genericità dei contenuti, si appalesa a maggior ragione inappropriata.

In tema di ricorso per cassazione, la denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi degli artt. 581, comma primo, e 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio (Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015 Ud. (dep. 25/09/2015) Rv. 264535 – 01).

Ed invero, il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione (Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Rv. 277518 – 02); profili, questi, del tutto ignorati dal ricorrente nel caso di specie.

2. Rimane il profilo delle pene accessorie, applicate ex lege per la durata di anni dieci – da affrontare di ufficio trattandosi di questione incidente sulla legalità della pena, ed applicandosi il principio di legalità della pena anche con riferimento alle pene accessorie» (Sez. U. n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., in motivazione) – che, com’è noto, è stato affrontato dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 222 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, u. c. l. fall, nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

La sostituzione della cornice edittale, operata dalla sentenza n. 222 del 2018, ha determinato l’illegalità delle pene accessorie irrogate in base al criterio dichiarato illegittimo, indipendentemente dal fatto che quelle concretamente applicate possano rientrare o meno nel nuovo parametro, posto che il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale, di talché s’impone l’annullamento della sentenza impugnata in parte qua.

Sorge allora la necessità di indicare al giudice del rinvio il criterio cui attenersi nella rideterminazione della durata della pena accessoria non più fissa (dieci anni), ma indicata solo nel massimo (“fino a dieci anni”).

Soccorre al riguardo la sentenza di questa Corte a Sezioni Unite (nelle more intervenuta il 28.2.2019, a cui è stata rimessa la questione in ordine all’individuazione del criterio di commisurazione di tali pene accessorie, se quello di cui all’art. 37 cod. pen. secondo cui la pena accessoria va commisurata alla pena principale o se, in applicazione dei principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatori, quello di cui art. 133 cod. pen.), che si è espressa condividendo il criterio improntato alla discrezionalità valutativa del giudice che consente una maggiore personalizzazione del trattamento sanzionatorio.

3. La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata limitatamente alla determinazione delle pene accessorie ex art. 216 ultimo comma della legge fallimentare, con rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Perugia. Nel resto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 624 cod. pen., dall’annullamento con rinvio circoscritto a tale punto della decisione, deriva l’autorità di cosa giudicata in tutti i restanti punti della sentenza privi di connessione con quello annullato, e quindi, nella specie: accertamento della responsabilità dell’imputato, quantificazione della pena principale e relativi benefici.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della durata delle pene accessorie di cui all’art. 216, ultimo comma, L. Fall., con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte di Appello di Perugia. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.