CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 22806 depositata il 13 giugno 2022

Rapporto di lavoro – Omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali – Reato omissivo istantaneo – Particolare tenuità del fatto – Esclusione – Decorso del termine di prescrizione

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 5.10.2020 la Corte di Appello di Messina ha integralmente confermato la pronuncia resa all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale della stessa città che ha condannato D.N. alla pena di due anni di reclusione ed € 1000 di multa, ritenendola responsabile del reato di cui all’art. 2 comma 1-bis d.l. 638/1983 per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni del personale dipendente della M.T. 2 per la complessiva somma di € 15.252,83 dovuta per l’anno 2013.

2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputata ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando cinque motivi, di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. cod.proc.pen.

2.1. Con il primo motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 43 e 45 cod. pen., il mancato riconoscimento della causa di forza maggiore a fronte della specifica allegazione relativa all’improvvisa ed imprevedibile crisi totale di liquidità che aveva colpito l’azienda, pacificamente applicabile ai reati omissivi in materia di imposte e contributi previdenziali, cui non aveva potuto far fronte trattandosi di fatti esulanti dal proprio dominio finalistico.

2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 157 cod. pen., che erroneamente la Corte di appello aveva disatteso l’eccepita prescrizione delle mensilità dicembre 2012-febbraio 2013, dovendo trovare applicazione ai fini della prescrizione la natura di reato omissivo istantaneo dell’omesso versamento dei contributi previdenziali, il quale perfezionandosi alla scadenza del termine utile concesso al datore di lavoro per il pagamento impone di considerare quale dies a quo ai fini del calcolo della prescrizione il sedicesimo giorno successivo a quello delle singole mensilità. Sostiene conseguentemente che, dovendosi considerare per dicembre 2012 la scadenza del 16.1.2013, per gennaio 2013 la scadenza del 16.22013 e per febbraio 2013 la scadenza del 16.3.203, il termine di sette anni e sei mesi fosse ampiamente decorso alla data della pronuncia della sentenza impugnata e che per l’effetto, non potendosi ritenere superata la soglia di punibilità fissata in 10.000 euro annuali, l’imputata andasse assolta perché il fatto non costituisce reato.

2.3. Con il terzo motivo lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 131 bis cod. pen., il diniego della particolare tenuità del fatto, alla luce della continuità temporale che lega i due specifici precedenti penali dell’imputata, relativi a omessi versamenti risalenti al periodo 2007-2011, ai fatti in contestazione, tale da escludere l’abitualità della condotta, nonché del modesto importo dei contributi non versati, tale da consentire la ravvisabilità della particolare tenuità dell’offesa.

2.4. Con il quarto motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione resa in punto di diniego delle attenuanti generiche, senza che si fosse considerata la prossimità temporale dei due precedenti penali specifici dell’imputata con il reato sub judice, lamentando che “la palese distanza temporale” non fosse stata oggetto di adeguata disamina.

2.5. Con il quinto motivo lamenta, in relazione al trattamento sanzionatorio, il mancato contenimento della pena nei minimi edittali e comunque la mancanza di motivazione in ordine al suo discostamento in misura considerevole non solo dal minimo ma anche dalla media edittale.

Considerato in diritto

1. Il primo motivo deve essere dichiarato inammissibile alla luce dell’aspecificità delle devolute censure che, nel riprodurre le medesime argomentazioni articolate con l’atto di appello, non si confrontano con i puntuali rilievi con i quali sono state disattese dalla Corte territoriale.

Premesso che il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali si perfeziona, in quanto a dolo generico, con la mera pretermissione del versamento delle ritenute all’erario da parte del datore di lavoro quale sostituto di imposta, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare, ne consegue che a fronte della contestualità e della indefettibilità del sorgere dell’obbligazione di versamento con il fatto stesso del pagamento della retribuzione, manca ogni presupposto per invocare l’impossibilità di adempiere dovendo, la punibilità della condotta essere individuata proprio nel mancato accantonamento delle somme dovute all’Istituto, in nome e per conto del quale tali somme sono state trattenute (Sez. 3, n. 43811 del 10/04/2017 – dep. 22/09/2017, Agozzino, Rv. 271189; Sez. 3, n. 38269 del 25/09/2007 – dep. 17/10/2007, Tafuro, Rv. 237827).

Se in forza di tali rilievi la crisi di liquidità aziendale invocata dalla ricorrente non costituisce, non potendo mai assurgere a fatto sopravvenuto, una possibile scriminante, deve vieppiù rilevarsi che la causa di forza maggiore impone la prova rigorosa che la violazione del precetto penale sia dipesa da un evento del tutto estraneo alla sfera di controllo del soggetto agente, imprevedibile ed imprevisto, nonché cogente, tale da rescindere il legame psicologico tra azione ed evento: caratteristiche queste che di per sé escludono, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, che le difficoltà economiche in cui versa l’obbligato possano configurare una causa di forza maggiore non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente. (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, cit.; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013 – dep. 24/04/2013, Giro, Rv. 255880; in senso conforme: Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007 – dep. 29/01/2008, Cairone, Rv. 238986). Rilievo dirimente riveste in ogni caso la stessa deduzione difensiva secondo la quale la società M.T. 2 s.r.l., di cui l’imputata era la legale rappresentante, vantava crediti per alcuni milioni di euro sia pur esigibili in epoca successiva alla scadenza dell’obbligazione nei confronti dell’ente previdenziale: deduzione questa che, al netto della sua mancata dimostrazione e della transitorietà della carenza di liquidità che avrebbe consentito di reperire aliunde le risorse necessarie, esclude di per sé l’imprevedibilità dell’evento.

2. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi, seguendo l’ordine logico e sistematico derivante dalla struttura dell’impugnazione in sede di legittimità anche per il terzo motivo.

Ben due sono gli elementi ostativi al riconoscimento della causa di non punibilità ritenuti dalla Corte distrettuale, nessuno dei quali risulta superato dalle doglianze difensive che, al di là della loro genericità, non colgono il punto di diritto correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata.

La ravvisabilità della particolare tenuità del fatto – astrattamente applicabile, pur in presenza della soglia di punibilità prefissata dal legislatore, anche ai reati tributari e previdenziali come riconosciuto dalla sentenza a Sezioni Unite Tushaj del 25/2/2016 – implica comunque una valutazione in ordine alla sussistenza dei due indici-requisito costituiti, come si desume dal tenore letterale del citato articolo, dalla particolare tenuità dell’offesa e dalla non abitualità del comportamento. Al netto del rilievo che entrambi devono sussistere congiuntamente e non alternativamente, mentre l’esclusione della particolare tenuità dell’offesa in ragione dell’ingente somma non versata, valutazione questa che in quanto devoluta alla discrezionalità del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità, non è neppure confutata dalla difesa che si limita ad esprimere il proprio dissenso sull’apprezzamento dell’entità dell’importo svolgendo una doglianza all’evidenza inammissibile, deve del pari ritenersi sussistente l’abitualità della condotta attesi i due precedenti penali specifici della prevenuta. Del tutto inconferenti risultano le contestazioni articolate al riguardo volte a sollecitare una valutazione unitaria dei singoli illeciti in ragione della continuità temporale: oltre al fatto che nessuna pronuncia risulta essere stata mai resa in ordine all’unificazione ex art. 81 cod. pen. neppure in sede esecutiva, deve comunque rilevarsi che la causa di esclusione della punibilità non può essere comunque applicata, ai sensi del terzo comma dell’art. 131-bis, essendo il comportamento abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Rv. 266591, secondo cui il giudice può fare riferimento tanto alle condanne irrevocabili ed agli illeciti della stessa indole sottoposti alla sua cognizione, quanto ai reati in precedenza ritenuti non punibili ex art. 131 bis cod. pen.).

3. In ordine al quarto motivo è sufficiente rilevare la contraddittorietà delle doglianze in ordine al diniego delle attenuanti generiche posto che la ricorrente, nel contrastare la rilevanza dei due precedenti penali a suo carico, da un canto valorizza la contiguità temporale delle riportate condanne rispetto al reato sub judice e, dall’altro, nel corpo dello stesso motivo, evidenzia “la palese distanza temporale” fra essi. Dirimente in ogni caso, ove si consideri che le attenuanti ex art. 62 bis cod. pen. non costituiscono un diritto automatico dell’imputato in assenza di elementi negativi di valutazione, è la mancata evidenziazione da parte della difesa di fattori di segno positivo che potessero convincere il giudice della fondatezza del beneficio invocato.

4. Non può invece ritenersi manifestamente infondato il quinto motivo.

A fronte di una pena fissata dal primo giudice in misura superiore, in assenza della benché minima motivazione, alla media edittale, nessuna risposta è stata resa dai giudici del gravame al riguardo, quantunque l’imputato avesse devoluto specifica censura con l’atto di appello lamentando la severità del trattamento sanzionatorio riservatogli senza che ne fossero state esplicitate le ragioni.

Dovendosi perciò ritenere, in ragione del riscontrato deficit motivazionale, che il rapporto processuale sia stato con il presente ricorso validamente instaurato innanzi a questa Corte, si impone, in difetto di condizioni per l’adozione di una formula assolutoria nel merito, come si evince dai rilievi svolti in ordine ai già esaminati motivi, la declaratoria di estinzione del reato per intervenuto decorso del termine di prescrizione.

Trovando applicazione come già sopra rilevato la previgente disciplina in quanto più favorevole al reo e muovendo dall’inadempimento in termini cronologici più recente secondo il prospetto INPS, ovverosia dal giugno 2013, la cui scadenza era quella del 16.7.2013, da tale data va computato il termine di tre mesi cd. di comporto, previsto nel caso di «versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione (decorso il quale soltanto, la condotta può ritenersi punibile); alla data di effettiva decorrenza del 16.10.2013 occorre aggiungere il termine di sette anni e sei mesi, comprensivo del termine di prescrizione ex art. 157 cod. pen. e della relativa interruzione ex art. 161, secondo comma cod. pen., nonché gli ulteriori 123 giorni di sospensione conseguenti ai rinvìi disposti in primo e secondo grado secondo il calcolo contenuto nella sentenza impugnata. Essendo pertanto il termine di prescrizione spirato il 17.8.2021, e dunque in data antecedente alla presente pronuncia, la decisione impugnata deve essere annullata senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.