CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 37856 depositata il 6 agosto 2018
Fallimento – Bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale ed impropria
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 25 gennaio 2017, la Corte d’appello di Bologna ha, in parziale riforma della pronunzia del Tribunale di Forlì, confermato l’affermazione di responsabilità penale di D. L. per fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo A), documentale (capo B) ed impropria (capo C) con riferimento al fallimento della società V. S.r.l. (dichiarato con sentenza del Tribunale di Forlì il 14 novembre 2008).
I fatti di bancarotta sono stati ascritti al L. nella sua qualità di amministratore di fatto della predetta società.
2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolato in un unico motivo, con il quale si deducono violazione di legge e correlati vizi motivazionali in ordine all’affermazione della penale responsabilità.
2.1. Si sostiene che sulla base delle prove acquisite nel giudizio di merito (le testimonianze del curatore fallimentare S. B. e della dipendente della V. S.r.l. R. R.) non sia possibile attribuire all’imputato un peso determinante nell’attività di impresa – e, quindi, lo svolgimento di fatto delle funzioni di amministratore – ma, al più, “una collaborazione sporadica e non apprezzabile dal punto di vista decisionale”.
In effetti dalle dichiarazioni rese dai testimoni era emerso “un quadro in cui la gestione era riferibile genericamente alla famiglia L.”, giacche il figlio dell’imputato (M.) era stato amministratore di diritto della società fallita.
II ricorrente, quindi, fa riferimento alle risultanze processuali (prova dichiarativa), che correttamente valutate non indurrebbero a ritenere sussistenti gli elementi per attribuirgli l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri inerenti alla funzione di amministratore di diritto.
2.2. Il ricorrente censura, inoltre, la mancata applicazione delle circostante attenuanti generiche, attesa la possibilità di concedere le stesse in considerazione del disvalore complessivo del fatto e del positivo atteggiamento processuale dell’imputato.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile.
1. Si rende anzitutto necessario specificare che l’istanza di rinvio dell’udienza di discussione, formulata dal difensore dell’imputato avv. F. R., per la sussistenza di concomitanti impegni professionali, deve essere rigettata in quanto generica e assolutamente priva di documentazione a supporto.
E’ stato infatti chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte che l’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire, ai sensi dell’art. 420 ter, comma quinto, cod. proc. pen,, a condizione che il difensore prospetti l’impedimento non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni, indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione nel diverso processo e rappresenti l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen, sia nel processo a cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio (Sez. U, Sentenza n. 4909 del 18/12/2014, Rv. 262912).
Tali indicazioni sono del tutto assenti nell’istanza esaminata dal Collegio, con la quale ci si limita a comunicare “la sussistenza di concomitanti impegni professionali che conducono lo scrivente ad essere impossibilitato a presenziare all’udienza del 24/04/2018”, richiedendosi pertanto “l’adozione dei provvedimenti consequenziali”.
È evidente che, come chiarito dalle Sezioni Unite con la pronunzia già citata, la mera concomitanza di altri impegni professionali non può integrare di per sé un legittimo impedimento; in tal modo si rimetterebbe all’arbitrio del difensore la decisione in merito a quale dei due procedimenti privilegiare. Il rinvio per concomitante impegno professionale rappresenta, a ben vedere, una condizione “obiettiva” (come tale positivamente scrutinata dal giudice) di impossibilità assoluta di prestare la propria opera in una sede processuale, per l’esistenza di un concomitante e (in quel momento) “prevalente” impegno difensivo.
L’istanza presentata dal difensore non consente di ritenere integrata tale condizione e va, pertanto, respinta.
2. Passando all’esame del primo motivo di ricorso, con il quale si sostiene che il L. non avrebbe rivestito la qualità di amministratore di fatto della società fallita, avendo in realtà svolto una mera attività di collaborazione sporadica con la stessa, si rende opportuno ribadire il principio – espressione di un orientamento consolidato di questa Corte – secondo cui, in tema di reati fallimentari, la prova della posizione di amministratore di fatto costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, Sentenza n. 8479 del 28/11/2016, Rv. 269101; Sez. 5, Sentenza n. 35249 del 03/04/2013, Rv. 255767; Sez. 5, Sentenza n. 43388 del 17/10/2005, Rv. 232456; Sez. 5, Sentenza n. 22413 del 14/04/2003, Rv. 224948).
Tale valutazione implica infatti l’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare.
Del resto, merita evidenziare che la censura in questione era già stata formulata con l’atto di appello e compiutamente esaminata dalla Corte territoriale; quest’ultima ha infatti affermato, con apprezzamento di fatto immune da vizi e dunque insindacabile in sede di legittimità, che la responsabilità dell’imputato quale amministratore di fatto della società fallita è stata desunta dall’esame delle risultanze processuali: in particolare, nella pronunzia impugnata vengono valorizzate le dichiarazioni di due dipendenti della società – R. R. e N. F. L. – secondo cui era il L. a gestire di fatto la società provvedendo all’assunzione del personale, al pagamento degli stipendi, nonché alla conclusione dei contratti commerciali.
Tali dichiarazioni risultano peraltro implicitamente avvalorate dall’imputato, il quale ha ammesso, nello stesso atto di appello, la propria presenza sui luoghi di lavoro, nonché i contatti con fornitori e clienti; a parere insindacabile della Corte territoriale, tali attività risultano giustificate soltanto alla luce di quanto affermato dai due dipendenti, essendo riconducibili all’esercizio dei poteri inerenti alla funzione di amministratore di fatto rivestita dal L. Va del resto rammentato che, in tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 L. fall, vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Ottobrini, Rv. 268273; Sez. 5, Sentenza n. 19145 del 13/04/2006, Rv. 234428); la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cod. civ., postula infatti l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; significatività e continuità che non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale (Sez. 5, Sentenza n. 35346 del 20/06/2013, Rv. 256534; Sez. 5, Sentenza n. 43388 del 17/10/2005, Rv. 232456).
Detta attività gestoria è stata ritenuta sussistente dai giudici di merito, sulla base di un apprezzamento delle risultanze processuali – come si è detto – insindacabile in questa sede.
3. Prive di pregio appaiono anche le considerazioni del ricorrente in ordine alla valenza dimostrativa delle dichiarazioni rese dal teste O. – in quanto, spiega il ricorrente, si tratterebbe di una persona anziana – e dalla teste R., le quali non sarebbero state idonee a dimostrare il ruolo gestorio rivestito dall’imputato; tali prospettazioni rappresentano, a ben vedere, il tentativo di sollecitare una rivalutazione del compendio probatorio, peraltro su una base valutativa selezionata in maniera del tutto arbitraria e parziale, senza indicare precise carenze od omissioni argomentative ovvero illogicità della motivazione della sentenza impugnata, idonee ad incidere negativamente sulla capacità dimostrativa del compendio indiziario posto a fondamento della decisione di merito (Sez. 2, n. 30918 del 07/05/2015, Falbo, Rv. 264441).
4. Per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, con il quale ci si duole della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, non può che condividersi l’argomentazione già resa sul punto dalla Corte territoriale; quest’ultima ha infatti preliminarmente osservato come la richiesta in esame fosse “assolutamente immotivata, a fronte di una specifica e puntuale motivazione del giudice di primo grado in ordine a detto diniego.
Il giudice di appello ha inoltre rimarcato l’assenza di circostanze che potessero essere positivamente apprezzate ai fini dell’attenuazione della risposta sanzionatoria; si è anzi sottolineata la presenza di “numerosi, gravi e specifici precedenti dell’imputato”, nonché la gravità del fatto commesso, per escludere la concessione di dette attenuanti.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d’appello si è sostanzialmente attenuta al principio di diritto secondo il quale la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato.
D’altra parte, la “ratio” della disposizione di cui all’art. 62 bis cod. pen. permette al giudice di limitarsi ad indicare gli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti; ne deriva che queste ultime possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell’imputato, perché in tal modo viene formulato comunque, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità (Sez. 5, Sentenza n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269; Sez. 2, Sentenza n. 3896 del 20/01/2016, Rv. 265826; Sez. 1, n. 12787 del 05/12/1995, Longo, Rv. 203146).
Merita altresì evidenziare che, laddove la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche non specifichi gli elementi e le circostanze che, sottoposti alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione per il diniego dell’attenuante è soddisfatto con il richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 3, Sentenza n. 9836 del 17/11/2015, Rv. 266460).
Per concludere si rileva che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, Sentenza n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269),
Alla luce di quanto suesposto, il motivo di ricorso formulato nell’interesse del L. si appalesa generico (essendosi omesso ancora una volta di indicare quali circostanze positive il giudice di merito avrebbe dovuto apprezzare) e manifestamente infondato, in quanto il giudice di appello ha fatto buon governo dei principi costantemente affermati da questa Corte in materia.
4. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., si impone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 2.000,00, così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.
P. Q. M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000,00 in favore della cassa delle ammende.
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