Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 45950 depositata il 20 giugno 2017

reati di cui agli art. 8 e 10 del d.lgs. n. 74/2000 – libro unico del lavoro rientra tra le scritture contabili

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 28/10/2016, la Corte d’appello di Palermo confermò la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Agrigento in data 18/04/2013 con la quale G.B. era stato condannato, in esito a giudizio abbreviato, alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno di reclusione in quanto riconosciuto colpevole, con le attenuanti generiche e la diminuente del rito, dei reati di cui agli artt. 8 e 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 (contestati, rispettivamente, ai capi a e b dell’imputazione); fatti accertati in Ravanusa il 20/10/2011. Secondo quanto era, infatti, emerso nel corso del giudizio di merito, l’imputato, nella sua qualità di legale rappresentante della Ices S.r.I., aveva emesso quattro fatture (contrassegnate con i nn. 5 e 7 del 2009 e 4 e 6 del medesimo anno) in relazione a operazioni in parte
inesistenti, allo scopo di consentire alla società I. S.n.c. di D’Angelo Mario & C. di illegittimamente dedurre i relativi costi e di detrarre l’Iva. Inoltre, era stato accertato che egli, nella medesima qualità, aveva distrutto, o comunque occultato, il libro unico del lavoro e gli estratti conto, la cui conservazione è obbligatoria per legge, nonché le fatture indicate ai nn. 4 e 7, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o, comunque, per consentire a terzi l’evasione tributaria.

2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso G.B., a mezzo del difensore fiduciario, deducendo tre distinti motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex 173 disp. att. cod. proc. pen..

2.1 Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, e), cod. proc. pen., la contraddittorietà e manifesta illogicità, intrinseca ed estrinseca, della motivazione, con violazione degli artt. 125, comma 3, cod. proc. pen., 24, 111, commi 6 e 7 Cast., per avere la sentenza impugnata motivato !”affermazione di responsabilità dell’imputato attraverso l’esclusivo riferimento all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, ovvero su una disposizione inapplicabile al caso di specie, attenendo la contestazione ai delitti previsti dagli artt. 8 e 10 del citato decreto.

2.2 Con in secondo motivo, la difesa di G.B. deduce, ex 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 8, comma 1 del d.lgs. n. 74 del 2000 nonché il vizio di motivazione in relazione alle fatture ritenute inesistenti.

2.3 Con il terzo motivo, il ricorrente censura, ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e), proc. pen. l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 nonché il vizio di motivazione in relazione alla distruzione o comunque all’occultamento del libro unico del lavoro, degli estratti conto e delle fatture ritenute inesistenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il primo motivo di ricorso è del tutto aspecifico, oltre che infondato nelle sue premesse fattuali.

Sotto un primo profilo, infatti, la relativa censura, incentrata sull’asserito riferimento, in via esclusiva, all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, non corrisponde al reale contenuto della sentenza, la quale ha preso spunto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 80 del 2014 per delineare, quale mera premessa, il perimetro della fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 8, che al citato art. 10-bis fa rinvio. Ma soprattutto, la doglianza in questione non si confronta con il contenuto della pronuncia impugnata, che lungi dall’esaurirsi nell’esposizione delle vicende relative al giudizio di costituzionalità sull’art. 10- bis, ha preso, in realtà, in considerazione entrambe le condotte contestate e ne ha vagliato la sussistenza “in fatto” e la corretta sussunzione nelle due fattispecie incriminatrici indicate dall’imputazione.

3. Venendo al secondo motivo di censura, il ricorrente opina che soltanto le due fatture contrassegnate con i numeri 4 e 6 non siano state emesse, sottolineando come le altre due, indicate con i numeri 5 e 7, corrispondessero ad operazioni reali e che la relativa numerazione fosse frutto di un errore derivante dalla caotica tenuta delle scritture Pertanto, non vi sarebbe stata, in realtà, alcuna falsa fatturazione preordinata alla realizzazione di illecite finalità tributarie.

Invero, già la sentenza di primo grado aveva osservato come la materialità della condotta fosse stata sostanzialmente ammessa dall’imputato e come non avesse, invece, trovato alcun riscontro l’affermazione dell’interessato in ordine alla presentazione di documenti, dopo la constatazione tributaria, all’Agenzia delle Entrate, volta a dimostrare la dedotta giustificazione. E del resto, come logicamente rilevato dal primo giudice, non poteva rinvenirsi alcuna giustificazione plausibile in tale condotta, in specie per l’assenza di qualunque deduzione difensiva, se non quella di consentire a terzi la realizzazione di condotte di evasione fiscale.

A fronte delle doglianze espresse nell’atto di appello, nel quale G.B. aveva comunque dichiarato che due delle fatture in questione si riferivano effettivamente a operazioni inesistenti, pur precisando che le altre due erano state, invece, emesse, la Corte ha nondimeno ritenuto, anche in questo caso con ragionamento che appare del tutto scevro da profili di illogicità, che essendo rimaste le deduzioni difensive soltanto enunciate, non potesse in alcun modo superarsi il non equivoco dato documentale, asseverato dai numeri progressivi delle fatture.

4. Infine, quanto al terzo motivo, le considerazioni che precedono impongono di affermare l’esistenza del reato innanzitutto con riferimento alle due fatture (contrassegnate ai 4 e 6) che, come rilevato al paragrafo che precede, erano state emesse al fine di favorire la società I.. Infatti, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 10 D.Lgs. 74 del 2000 è sufficiente l’occultamento o la distruzione di una o più scritture contabili o documenti obbligatori, sicché l’eventuale pluralità di documenti occultati o distrutti incide solo sul piano sanzionatorio, alla luce dei parametri di cui all’art. 133, comma 1, nn. 1 e 2 cod. pen. (Sez. 3, n. 38375 del 9/07/2015, dep. 22/09/2015, Lazzeri, Rv. 264761).

Quanto, poi, al cd. libro unico del lavoro, correttamente la Corte di appello ne ha affermato l’obbligatorietà.

Infatti, i documenti da conservarsi obbligatoriamente cui si riferisce il richiamato art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, sono quelli che riguardano accadimenti rilevanti sotto il profilo fiscale, la cui individuazione deve essere effettuata tenendo conto del disposto degli artt. 13 e seguenti del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, tra i quali assume rilevanza, in particolare, l’art. 22, recante “Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi”. Da tali norme emerge l’obbligo di conservazione delle scritture contabili obbligatorie ai sensi del menzionato decreto, di altre leggi tributarie, del codice civile o di leggi speciali (v. il citato art. 22, comma 2), tra cui rientra l’art. 39 del d.l. n. 112 del 2008, convertito in legge n. 133 del 2008, che nel prevedere il cd. Libro unico del lavoro in sostituzione dei libri contabili, quali il libro matricola e il libro paga, che il datore di lavoro era originariamente obbligato a tenere ai sensi degli artt. 20 e 21 del d.P.R. n. 1124 del 1965, ne ha espressamente sancito l’obbligatorietà.

Per il resto, la evidente funzione, assolta dal documento in questione, di descrivere la situazione occupazionale dell’impresa, contribuendo alla ricostruzione della capacità reddituale e in particolare del volume degli affari della società, consente, in conclusione, di ricondurre pacificamente il libro unico del lavoro nell’ambito applicativo della fattispecie contestata.

5. Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro.

PER QUESTI MOTIVI

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.