CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 48269 depositata il 23 ottobre 2018
Imposte indirette – IVA – Dichiarazioni fiscali – Occultamento o distruzione di documenti contabili – Reati fiscali
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del Tribunale di Como dell’11 novembre 2015, M.S. veniva condannato alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione in ordine ai reati di cui agli art. 10 (capo A) e 5 (capo B) del d.lgs. n. 74/2000.
Con sentenza del 27 settembre 2017, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti di S. in ordine al reato di cui al capo B, perché estinto per prescrizione e, per l’effetto, rideterminava la pena, con riferimento al residuo reato di cui al capo A, in mesi 8 di reclusione, confermando nel resto.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello meneghina, S., tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi.
Con il primo, la difesa lamenta la formulazione del giudizio di colpevolezza rispetto al delitto di cui all’art. 10 del d. Igs. 74/2000, evidenziando che la Corte di appello non si è confrontata con le doglianze sollevate nell’atto di impugnazione, omettendo in particolare di verificare se la condotta fraudolenta di S. fosse stata idonea a mettere in pericolo la funzione probatoria dei cespiti imponibili che la legge assegna alle scritture obbligatorie, dovendo il reato contestato essere escluso nel caso in cui sia possibile ricostruire con altri documenti il risultato economico dell’impresa, come avvenuto nel caso di specie, attraverso la documentazione reperita dagli agenti della Guardia di Finanza.
Peraltro, sostiene la difesa, nel caso di specie è mancata la valutazione sia dell’elemento soggettivo del reato, consistente nel dolo specifico, nel caso di specie insussistente, sia dell’elemento oggettivo, non essendosi considerato che, ai fini fiscali, i documenti rilevanti devono essere conservati per i 4 anni successivi alla presentazione della dichiarazione dei redditi e dell’iva di riferimento, ai sensi degli art. 43 del d.P.R. 600/73 e 57 del d.P.R. 633/72, per cui gli operanti, in occasione del controllo del 2013, non avrebbero potuto richiedere i documenti fiscali riferiti alle annualità 2006-2007.
Con il secondo motivo, viene censurato il mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena, potendo S. fruire ancora del beneficio, sia in ragione dell’entità della pena, pari a 8 mesi di reclusione, sia in considerazione del fatto che l’imputato non è mai stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, né era stato sottoposto a misura di sicurezza.
Il 21 maggio 2018 la difesa ha presentato due motivi nuovi.
Con il primo, viene ribadita la doglianza sulla carenza di motivazione della sentenza impugnata rispetto alle censure difensive prospettate nell’atto di appello, in relazione agli elementi costitutivi della fattispecie di cui al capo A.
Con il secondo motivo, la difesa deduce che gli operanti hanno compiuto un accertamento illegittimo, in quanto avvenuto oltre il termine decadenziale previsto dagli art. 43 del d.P.R. 600/73 e 57 del d.P.R. 633/72, fermo restando che S., rispetto alle annualità 2006-2007, aveva l’obbligo di conservare la documentazione fiscale fino all’anno 2012, per cui alcun documento fiscale poteva essere legittimamente richiesto all’imputato dagli agenti accertatori.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
1. Iniziando dal primo motivo di ricorso e dai due motivi nuovi, che possono essere trattati congiuntamente, riferendosi tutti, peraltro in termini talora ripetitivi, alla valutazione sulla sussistenza del reato contestato, deve escludersi che la sentenza impugnata presenti sul punto vizi rilevabili in questa sede.
Per quanto concerne la ricostruzione del fatto, che non risulta sostanzialmente contestata, occorre premettere che le due conformi sentenze di merito hanno richiamato gli esiti del controllo effettuato nel marzo 2013, a seguito di una segnalazione proveniente dalla Direzione Provinciale di Lecco, dall’Agenzia delle Entrate di Como, da cui è emerso che M.S., nella veste di titolare dell’omonima ditta individuale, ha omesso la presentazione delle dichiarazioni dei redditi dal 1995 e in particolare negli anni d’imposta 2006 e 2007, con evasione di imposte dirette sui redditi e del l’iva per importi superiori a € 77.468,53. L’imputato, sebbene interpellato, non si presentava inoltre all’Agenzia delle Entrate a fornire i dovuti chiarimenti, né forniva le scritture contabili, evidentemente occultate proprio al fine di celare le sue illecite condotte fiscali, per cui a suo carico, oltre al reato di cui all’art. 5 del d. Igs. n. 74/2000, dichiarato estinto per prescrizione, veniva ascritta anche la fattispecie ex art. 10 del d. Igs. 74/2000, per la quale invece il momento consumativo, da cui far decorrere il dies a quo dei termini di prescrizione, trattandosi di reato permanente, è stato correttamente individuato nella data conclusiva dell’accertamento fiscale (23 aprile 2013), ciò in sintonia con l’orientamento costante di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 38376 del 09/07/2015, Rv. 264676).
Ciò posto, non può ritenersi pertinente il richiamo difensivo alla presunta illegittimità dell’accertamento fiscale, in quanto avvenuto oltre il termine decadenziale fissato dagli art. 43 del d.P.R. 600/73 e 57 del d.P.R. 633/72, dovendosi rimarcare l’autonomia tra procedimento penale e procedimento tributario, autonomia confermata peraltro dalla stessa previsione di cui all’art. 43 del d.P.R. 600/73, secondo cui, in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. per uno dei reati previsti dal d. Igs. 74/2000, n. 74, i termini per la notifica degli accertamenti sono raddoppiati.
Allo stesso modo, deve escludersi che l’imputato, all’epoca dell’accertamento, fosse esonerato dal dovere di esibire le scritture contabili agli organi accertatori.
Al riguardo, deve evidenziarsi che, come già osservato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 36624 del 18/07/2012, Rv. 253365), l’art. 10 del d. Igs. 74/2000, ai fini dell’individuazione dell’oggetto materiale della condotta di occultamento o distruzione, rimanda, implicitamente, a quelle scritture contabili e a quei documenti che, alla stregua di altre norme, il cui novero è lasciato, peraltro, del tutto “aperto”, devono essere obbligatoriamente conservate.
Allo stesso tempo, occorre considerare che la ratio della norma incriminatrice, in continuità normativa con la precedente disposizione dell’art. 4 comma 1, lett. b) della legge n. 516/1982, è quella di garantire l’esatto adempimento delle obbligazioni tributarie, per cui i documenti e le scritture contabili in oggetto non possono che essere quelle (e solo quelle) aventi rilievo sotto il profilo fiscale.
E’ per questo motivo, dunque, che ai fini della individuazione di tali documenti, deve guardarsi al d.P.R. n. 600/1973, recante “disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi” e, in particolare, all’art. 22, ove si specifica, al comma secondo, che «le scritture contabili obbligatorie ai sensi del presente decreto, di altre leggi tributarie, del codice civile o di leggi speciali devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 del codice civile o da altre leggi tributarie, salvo il disposto dell’articolo 2457 del detto codice…», dovendosi al riguardo evidenziare il predetto art. 2220 cod. civ. fissa in 10 anni il termine di conservazione delle scritture contabili, prevedendosi che per lo stesso periodo devono conservarsi le fatture, le lettere e i telegrammi ricevuti e le copie di tali documenti spediti. Quanto all’individuazione in concreto delle scritture contabili obbligatorie, il comma secondo della norma sopra citata rimanda, a propria volta, tra le altre disposizioni normative, al codice civile; ne deriva, dunque, che, in forza dell’art. 2214 cod. civ., da intendersi, per quanto appena detto, richiamato dal comma 2 dell’art. 22 del d.P.R. n. 600 del 1973, tra le scritture contabili obbligatorie devono ritenersi ricomprese, a norma del comma 1, «il libro giornale e il libro degli inventari», oltre che, a norma del comma 2, «le altre scritture che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa».
Alla luce di tale premessa, deve quindi affermarsi che, al momento del controllo (2013) da cui è scaturito il presente procedimento penale, S. fosse ancora tenuto a conservare le scritture contabili relative agli anni di imposta (2006 e 2007) oggetto di accertamento, dovendosi ritenere, stante anche l’assenza di allegazioni di segno contrario, volte a smentire la premessa fattuale dell’assunto accusatorio, che nel caso di specie si sia in presenza non di un’omessa tenuta delle scritture contabili (di per sé non penalmente rilevante), ma di un vero e proprio occultamento delle stesse, del resto funzionale alla “esigenza” dell’imputato di nascondere le sue condotte elusive degli obblighi fiscali.
Né infine assume carattere dirimette, in senso ostativo alla ravvisabilità del reato, la circostanza che comunque sia stata ricostruita dagli operanti l’entità delle evasioni fiscali riconducibili all’imputato, dovendo al riguardo richiamarsi la costante affermazione di questa Corte (Sez. 3, n. 39711 del 04/06/2009, Rv. 244619 e Sez. 3, n. 36624 del 18/07/2012, Rv. 253365), secondo cui il delitto di distruzione od occultamento di scritture contabili o documenti obbligatori non richiede, per la sua integrazione, che si verifichi in concreto una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa, non esclusa quando a tale ricostruzione si possa pervenire “aliunde”, potendosi cioè ritenere il reato integrato anche quando è necessario procedere all’acquisizione dei documenti mancanti presso terzi.
Deve pertanto concludersi che l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato operata nelle decisioni di merito, in quanto fondata su argomenti logici e aderenti alla risultanze probatorie raccolte, resiste alle censure difensive.
2. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
Ed invero il diniego della sospensione condizionale della pena è stato giustificato dalla Corte territoriale in ragione dei numerosi precedenti penali a carico dell’imputato, il quale peraltro aveva fruito altre due volte del beneficio (revocato poi in sede esecutiva), non potendosi ragionevolmente presumere perciò che l’imputato in futuro potesse astenersi dal commettere ulteriori reati.
Il richiamo alla negativa personalità dell’imputato risulta senz’altro idoneo a giustificare il mancato riconoscimento del beneficio invocato dalla difesa, costituendo affermazione costante di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 57704 del 14/09/2017, Rv. 272087), quella secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla concessione della sospensione condizionale.
In quanto sorretta da argomenti logici, la valutazione dei giudici di merito resiste dunque alle censure difensive, risultando in particolare non pertinente l’obiezione secondo cui l’imputato non è stato mai dichiarato delinquente abituale o professionale, trattandosi di una circostanza che di per sé non vale a smentire il presupposto (l’esistenza dei numerosi precedenti penali a carico dell’imputato e la conseguente impossibilità di formulare una prognosi positiva sui suoi futuri comportamenti) in forza del quale è stato legittimamente negato il beneficio.
3. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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