CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 7861 depositata il 4 marzo 2022

Lavoro agricolo – Sussistenza di più indici di sfruttamento – Accertamento – Reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale del riesame di Cosenza 24 giugno 2020, in accoglimento dell’istanza formulata da A.C. ha annullato il provvedimento del G.I.P. del Tribunale di Castrovillari, con cui -ravvisato il fumus commissi delicti del reato di cui all’art. 603 bis, comma 1 n. 2), comma 2 nn. 1, 2, 3, e comma 3) nn. 1 e 3), 4) n. 1) cod. pen. – era stato disposto il sequestro preventivo del complesso aziendale dell’impresa individuale di C.A. disponendone il dissequestro.

2. Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame propone ricorso per cassazione il Pubblico ministero presso il Tribunale di Cosenza, formulando tre motivi di impugnazione.

3. Con il primo fa valere la violazione della legge penale, con riferimento al disposto dell’art. 603 bis, comma 1 n. 2) cod. pen., ed il vizio di motivazione. Richiamato il testo normativo, osserva che il Tribunale, da un lato, contravvenendo al disposto normativo, ritiene necessaria per l’integrazione del reato la sussistenza di più indici di sfruttamento, dall’altro, opera una commistione fra autonomi elementi costitutivi del reato, ritenendo non integrato l’approfittamento dello stato di bisogno, in assenza degli indici di sfruttamento e ciò senza affrontare il vaglio degli indizi valorizzati dal G.I.P., che si limita ad elencare, operando una sintesi non consentita (sostiene, in particolare, che il giudice del riesame non valuta, in relazione alle condizioni di sfruttamento: le conversazioni intercettate nn. 1424, 1426, 761, 3316; le relazioni del servizio di osservazione (OCP) in data 16 marzo 2018 e 11 aprile 2018; i verbali di sequestro e perquisizione del 16 marzo 2018; le sommarie informazioni rese in data 11 aprile 2018 dai lavoratori C.G., L.R., G.C.V., P.L., M.S., N.M.A., V.G.M., M.I.R.; in relazione allo stato di bisogno: le conversazioni intercettate di cui ai nn. 3316, 337 e 77, e le sommarie informazioni rese in data 5 ottobre 2017 da L.I.). Rileva che, in violazione del disposto dell’art. 2 cod. pen. e dell’art. 603 bis cod. pen., nella parte in cui individua presupposto sufficiente per l’integrazione del reato “la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme” dalle previsioni dei contratti collettivi nazionali o territoriali, stipulati dalla organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, il Collegio della cautela fa riferimento, discostandosi dall’ordinanza genetica- ritenendola più aggiornata- alla tabella paga dei lavoratori a tempo determinato valide per la provincia di Matera in vigore dal 1^ febbraio 2018, diversa da quella vigente al momento del fatto. L’applicazione di una tabella paga più aggiornata, nondimeno, comporta la disapplicazione dell’art. 603 bis cod. pen., rendendo lecite condotte illecite all’epoca della commissione del fatto. Invero, dall’applicazione della tabella paga vigente all’epoca dei fatti si trae: che le retribuzioni corrisposte sono inferiori a quelle previste, all’epoca dei fatti, dalla contrattazione territoriale per la provincia di Matera, secondo cui la retribuzione lorda è pari ad euro 41,378 e quella netta è pari ad euro 37,514, mentre è stato provato che le retribuzioni dei lavoratori P., M., V., sono inferiori anche a quelle previste dalla tabella ‘più aggiornata, applicata dal Tribunale del riesame, che stabilisce la retribuzione minima giornaliera in euro 31,009/31,722; che le ore di lavoro svolte dai braccianti impiegati)superiori a quelle previste dagli accordi sindacali in ore 6,30 giornaliere, avendo i medesimi dichiarato di avere lavorato 7,30-8 ore, a seconda dell’inizio delle attività alle ore 6.30 o 6 del mattino. Sicché debbono ritenersi integrate le violazioni di cui all’art. 603 bis comma 3 nn. 1) e 2) cod. pen., stante la reiterata corresponsione di retribuzioni difformità quelle previste dalla contrattazione nazionale e territoriale e la reiterata violazione dell’orario di lavoro, ivi stabilita.

4. Con il secondo motivo si duole della violazione dell’art. 125, comma 3 cod. pen.. Sostiene che la motivazione dell’ordinanza impugnata si rivela del tutto apparente, connotata dal ricorso a mere formule di stile, omettendo l’esame di elementi decisivi per l’accertamento del fatto. Sottolinea che l’affermazione del Tribunale con cui si esclude la reiterata violazione delle norme contrattuali sull’orario di lavoro essendo i braccianti impiegati per sei ore e mezza -sette ore, considerata la pausa colazione, non trova riscontro negli atti processuali, né nelle dichiarazioni dei lavoratori, che pure il Collegio assume di fare proprie. Tutti i braccianti, infatti, hanno dichiarato di svolgere attività lavorativa per 7,30-8 ore quotidiane, mentre nessuno ha riferito alcunché in ordine ad una pausa pranzo. Dal che risulta evidente il superamento sistematico dell’orario contrattuale di ore 6,30 giornaliere, con l’integrazione del presupposto di cui all’art. 603 bis, comma 3 n. 2) cod. pen.. Lamenta l’assenza di giustificazione in ordine all’applicazione della tabella paga “più aggiornata”, nonché l’indebita generalizzazione della valutazione sulla conformità fra le retribuzioni corrisposte e quelle contrattualmente previste, nonostante l’escussione dei lavoratori abbia messo in evidenza che le somme corrisposte ai singoli erano diverse, con la conseguenza dell’omissione della valutazione della sussistenza dell’indice di sfruttamento rispetto ad ogni singolo bracciante. Ricorda che è sufficiente, per integrare il reato di cui all’art. 603 bis, comma 1, n. 2) cod. pen., che lo sfruttamento e l’approfittamento dello stato di bisogno riguardino uno solo dei lavoratori impiegati. Critica il provvedimento gravato per avere eluso gli indizi, rinvenienti dalle intercettazioni, in ordine alla mancata fruizione dei riposi, benché analiticamente esaminati dall’ordinanza genetica, con la quale il Tribunale del riesame omette il confronto. Richiama sul punto la conversazione n. 1426, del 28 aprile 2018 fra la reclutatrice di manodopera E.S. ed il C.G., sul cui significato il Collegio sorvola, benché essa dimostri che presso l’azienda dell’indagata si lavorava tutti i giorni, senza osservanza del riposo settimanale. Sostiene che il giudice del riesame omette di motivare in ordine alla violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro, come richiamate dal disposto dell’art. 603, comma 3, n. 3) cod. pen., non recependo il valore indiziario della relazione di OPC dell’11 aprile 2018, da cui si desume che i braccianti presenti sul furgone condotto da F. Gabriele avevano le scarpe sporche di fango. Assume che il Collegio non si confronta con la circostanza -evidenziata dal G.I.P., quale elemento sintomatico dello stato di bisogno e della sproporzione fra il lavoro svolto e la paga percepita- emersa nel corso delle conversazioni captate, che il lavoro svolto in favore dell’indagata implicava che i braccianti stessero con la schiena piegata. Sottolinea che l’ordinanza non motiva sulle ragioni per le quali l’indagata, pur avvalendosi di manodopera reclutata da F.G., in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno, non avrebbe posto in essere alcuna condotta di sfruttamento dei lavoratori impiegati. Richiama il contenuto delle conversazioni captate di cui ai nn. 104, 2554, 3316, 3459, 3942, nonché dei servizi di OPC del 16 marzo 2018 e del 11 aprile 2018, elementi da considerarsi decisivi in ordine all’utilizzazione da parte di G.A. e del padre C.G. dei lavoratori, versanti in stato di bisogno, reclutati da F.G. Critica l’assenza di confronto con l’ordinanza genetica nella parte in cui riprendendo la conversazione n. 3316 del 25 aprile 2018, fra F.G. ed A.G., inerente all’abbandono del lavoro da parte di molti lavoratori, per le condizioni di fatica, ed alla mancanza di un numero sufficiente di braccianti, ne ricava elementi di riscontro delle condizioni di sfruttamento. Rileva che il provvedimento impugnato omette di considerare gli esiti della perquisizione disposta nei confronti di F.G. in data 11 aprile 2018, benché la documentazione rinvenuta nella sua disponibilità dimostrasse: che ciascuno dei braccianti impiegati da C.G. e C.A. percepiva in concreto solo euro 28,00 giornalieri: che i datori di lavoro non pagavano direttamente i lavoratori, bensì F.; che i C. erano consapevoli dell’attività illecita, tanto che sui “buoni consegna” riportanti i nominativi dei braccianti sono poste le loro firme. Tutti elementi questi dimostrativi della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato. Osserva che il Tribunale, pur escludendo la sussistenza del fumus del delitto di cui all’art. 603 bis cod. pen., nondimeno, riconosce che gli elementi indiziari raccolti confermano l’intermediazione di manodopera e il ricorso all’intermediazione da parte del datore di lavoro, e tuttavia contraddittoriamente dispone il dissequestro.

5. Con il terzo motivo fa valere l’inosservanza degli artt. 321 e 322 cod. proc. pen. e dell’art. 603 bis.2 cod. pen.

Si duole che il Tribunale del riesame, anziché limitarsi al controllo di compatibilità fra la fattispecie concreta e quella legale, abbia trasmodato nella valutazione del merito delle accuse, ponendosi in contrasto con i principi enunciati dalle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 7 del 23/02/2000, Mariano, Rv. 215840). Conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Considerato in diritto

1. Le doglianze vanno affrontate nel loro ordine logico e trattate congiuntamente ove necessario.

2. Il terzo motivo -da esaminarsi per primo in quanto costituente la premessa giuridica dell’impugnazione- è manifestamente infondato.

3. Il Pubblico ministero ricorrente lamenta che il Tribunale per il riesame, anziché limitarsi al controllo di compatibilità fra la fattispecie concreta e quella legale, al fine di verificare la ricorrenza del fumus commissi delicti, si sia spinto a valutare la sussistenza del quadro indiziario, benché la giurisprudenza di legittimità escluda che l’esame sulle condizioni di legittimità delle misure cautelari reali possa tradursi nell’anticipazione della decisione di merito sulla fondatezza delle accuse.

L’assunto muove da un presupposto erroneo sui limiti del sindacato del giudice della cautela in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti, rifacendosi ad un indirizzo risalente secondo cui “Il controllo del giudice del riesame non può investire, in relazione alle misure cautelari reali, la concreta fondatezza di un’accusa, ma deve limitarsi all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato” (Sez. U, Sentenza n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118). Siffatta impostazione, che circoscrive il giudizio sul presupposto dell’apparenza del reato alla sola compatibilità fra la fattispecie legale e quella ipotizzata, risulta essere stata superata da un orientamento che, pur senza tradurre l’esame del giudice in quella valutazione della gravità indiziaria della fondatezza dell’accusa nei confronti dell’indagato che connota le misure cautelari personali, valorizza l’effettività del controllo al di là della mera postulazione dell’esistenza del reato da parte del pubblico ministero, imponendo al giudice di “rappresentare in modo puntuale e coerente, nella motivazione dell’ordinanza, le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, dimostrando la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale sottoposta al suo esame” (cosi Sez. 6, Sentenza n. 16153 del 06/02/2014, De Amicis, Rv. 259337; in precedenza: Sez. 4, n. 15448 del 14/03/2012, Vecchione, Rv. 253508; Sez. 6, n. 45591 del 24/10/2013, Ferro, Rv. 257816, nonché analogamente da ultimo: Sez. 3, Sentenza n. 26007 del 05/04/2019, Pucci, Rv. 276015).

L’esigenza di riscontrare il collegamento fra il reato e la res -che può appartenere ad un terzo- passa, infatti, attraverso la premessa della sussistenza di un reato a carico di taluno – non necessariamente il proprietario del bene oggetto di sequestro- che rende non indispensabile l’individuazione del responsabile dell’illecito, ma ineludibile il giudizio prognostico positivo sulla pronuncia di condanna per il reato perseguito, pur nei termini tipici del procedimento cautelare. In questa differenza fra il collegamento della cosa sottoposta a sequestro ed il reato e l’individuazione di gravi indizi di reità nei confronti dell’autore di un illecito sta la diversità di valutazione che distingue il sindacato del giudice nell’ipotesi di misura cautelare reale ed in quella di misura personale, essendo nel primo caso sufficiente, ma indispensabile, la constatazione che si sia effettivamente verificato un fatto avente la natura dell’illecito penale e che la cosa sequestrata inerisca al reato, nel secondo, invece, essendo necessario che sussista a carico di un preciso soggetto un quadro di gravità indiziaria di colpevolezza. Non è, dunque, sufficiente per comprimere la libera disponibilità della cosa sottoposta a sequestro preventivo la semplice ed astratta configurabilità di un reato, come rappresentata dall’accusa, essendo invece essenziale che la sua sussistenza risulti in concreto configurabile, sulla base delle risultanze processuali e degli elementi eventualmente sottoposti dalle parti, perché, pur prescindendo dal profilo di colpevolezza dell’indagato, occorre stabilire il collegamento fra la cosa e l’illecito, che deve, pertanto, essere valutato nella sua esistenza materiale, pur avendo riguardo allo stato del procedimento ed alla sua natura cautelare ( in questo senso da ultimo cfr.: “Nella valutazione del “fumus commissi delicti”, quale presupposto del sequestro preventivo, il giudice deve verificare la sussistenza di un concreto quadro indiziario, non potendosi limitare alla semplice verifica astratta della corretta qualificazione giuridica dei fatti prospettati dall’accusa” Sez. 6, Sentenza n. 18183 del 23/11/2017, dep. 24/04/2018, Polifroni, Rv. 272927; in senso analogo: Sez. 5, Sentenza n. 49596 del 16/09/2014, Armento, Rv. 261677; Sez. 6, Sentenza n. 49478 del 21/10/2015, Macchione, Rv. 265433; in precedenza in senso parzialmente difforme: Sez. U, Sentenza n. 920 del 17/12/2003, dep. 19/01/2004, Montella Rv. 226492).

D’altro canto, che questo sia il criterio che il giudice del riesame deve seguire è principio che, nella sua sostanza, appare condiviso dallo stesso Pubblico ministero ricorrente che, nell’esporre in questa sede i motivi di gravame si spinge, con parte della prima (par. 5.1.del ricorso) e parte della seconda doglianza (par. 5.2. del ricorso) sino a rimproverare al Tribunale di non avere adeguatamente motivato sul quadro indiziario a carico di A.C. tanto da dolersi del mancato confronto con gli esiti dei servizi di osservazione e con il contenuto delle intercettazioni telefoniche.

4. Simili contestazioni, nondimeno, pur prospettate come violazione di legge, non solo, da un lato, contestano il vizio di motivazione, sindacabile rispetto a siffatti provvedimenti cautelari reali solo in ipotesi di assenza o apparenza della motivazione, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen., ma, dall’altro contraddicono la stessa premessa giuridica del ricorso, che non casualmente è stata formulata a chiusura dell’impugnazione.

5. Escluso -avuto riguardo ai limiti di indagine del tribunale per il riesame nelle ipotesi di misure cautelari reali, come sopra delineati- che si possa ritenere assente o apparente la motivazione del provvedimento gravato, non potendosi affermare che sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza tali da rendere comprensibile la vicenda e l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 18951 del 14/03/2017, Napoli e al. Rv. 269656) entrambi perfettamente intellegibili, pur se non condivisi dal ricorrente, deve procedersi al vaglio delle ulteriori critiche formulate dal Procuratore ricorrente, che ineriscono più puntualmente alla lettura del disposto dell’art. 603 bis cod. pen.

6. Per rispondere alle sollecitazioni introdotte con il primo profilo occorre fare un passo indietro e ricordare che il legislatore non definisce lo “sfruttamento” -condizione che deve caratterizzare tanto l’attività di reclutamento [art. 603 bis, comma 1 n. 1)], quanto quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera [art. 603 bis, comma 1 n. 2)]- preferendo, in un’ottica di facilitazione della prova, indicare degli indici che lo caratterizzano e che vengono elencati al terzo comma della disposizione nelle seguenti condizioni: 1) reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

La stessa dizione normativa -non menzionando la necessità dell’integrazione di una pluralità di indici- chiarisce non solo che la ricorrenza di una sola delle circostanze sintomatiche è sufficiente per integrare lo sfruttamento, ma anche che in relazione alla violazione dei contratti collettivi in tema di salario e delle disposizioni relative all’orario (siano esse di natura pattizia o normativa), è necessaria la “reiterazione” della condotta. E ciò per distinguere il mero ed isolato inadempimento, non rilevante, dallo sfruttamento, che invece integra la fattispecie. Ciò implica, altresì, che per aversi reiterazione la condotta deve essere posta in essere nei confronti del singolo lavoratore, non essendo tale l’isolata violazione nei confronti di una pluralità di lavoratori, che configura semplicemente una pluralità di singoli inadempimenti, nei confronti di una molteplicità di soggetti. Ancora, il testo normativo suggerisce, non individuando il numero minimo dei lavoratori in relazione ai quali debbono realizzarsi i comportamenti integranti sfruttamento, che la condotta sia punibile ancorché riguardi un solo lavoratore.

7. L’indicazione di condizioni che integrano lo sfruttamento, tuttavia, non chiude la strada dell’interprete e quella del giudice all’individuazione di altre condotte che integrino la condotta di abuso del lavoratore, posto che esse costituiscono appunto “indici” del fatto tipico, cioè sintomi della sua sussistenza, che ben può risultare diversamente, purché si concreti la condizione di coartazione a condizioni di lavoro di cui si subisce l’imposizione.

8. Distinto dallo sfruttamento appare- nella dizione normativa-il concetto di approfittamento dello stato di bisogno, presupposto quest’ultimo che deve ricorrere affinché la condotta di sfruttamento sia punibile.

Anche in questo caso il legislatore non definisce la nozione, pur richiedendo che lo sfruttamento “derivi” dallo stato di bisogno, il quale, quindi, deve essere noto ed oggetto del vantaggio che il reclutatore o l’utilizzatore tendono a realizzare proprio attraverso l’imposizione di quelle condizioni lavorative che indicano lo sfruttamento.

Questa Sezione ha recentemente osservato che con l’art. 603 bis cod. pen. “il legislatore ha scelto di utilizzare la locuzione “stato di bisogno”, già usata nel nostro ordinamento con riferimento ad istituti civilistici ed altri reati (quali, ad esempio, l’usura nell’originaria configurazione), e non quella “posizione di vulnerabilità”, di matrice sovranazionale (cfr. art. 3 del Protocollo traffiking e la nota dei lavori preparatori; art. 2 direttiva 2011/36/EU), che, nell’art. 1 della decisione del Consiglio Cee 19 luglio 2002, n. 629, sulla lotta alla tratta degli esseri umani, viene definita come quella situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima. Al contrario, nella formulazione dell’art. 600 cod.pen. (riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù), si è fatto espressamente riferimento alla “posizione di vulnerabilità” della vittima”. Si tratta di una scelta lessicale non priva di conseguenze e che comporta che – nell’individuare lo stato di bisogno- non occorra “indagare sulla sussistenza di una posizione di vulnerabilità, da intendersi, secondo le indicazioni sovranazionali, come assenza di un’altra effettiva ed accettabile scelta, diversa dall’accettazione dell’abuso – indagine che, peraltro, anche nella fattispecie di cui all’art. 600 cod.pen. è alternativa rispetto alla verifica di altre e diverse situazioni di debolezza della vittima, specificamente indicate dal legislatore”. Lo stato di bisogno, infatti non si identifica “con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose” (Sez. 4, Sentenza n. 24441 del 16/03/2021, Sanitrasport soc. coop. Soc., Rv. 281405, con cui si è ritenuto immune da censure il provvedimento impugnato che aveva ravvisato lo stato di bisogno nella condizione di difficoltà economica delle vittime, capace di incidere sulla loro libertà di autodeterminazione, trattandosi, in quel caso, di persone non più giovani e non particolarmente specializzate, e quindi prive della possibilità di reperire facilmente un’occupazione lavorativa).

9. Questa lunga premessa è necessaria per dare soluzione al primo quesito posto, perché, contrariamente a quanto affermato dal pubblico ministero ricorrente, la condizione di sfruttamento che non si avvantaggi dello stato di bisogno non integra il reato di cui all’art. 603 bis cod. pen. avendo il legislatore scelto di punire non lo sfruttamento in sé ma solo l’approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore, sia essa economica, che di altro genere, che lo induca a svilire la sua volontà contrattuale sino ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall’utilizzatore, cui altrimenti non avrebbe acconsentito.

10. Non basta, dunque, che ricorrano i sintomi dello sfruttamento, come indicati dal terzo comma dell’art. 603 bis cod. pen., ma occorre l’abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la sua conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella volontariamente si trae.

11. L’ordinanza impugnata mostra di conoscere la distinzione laddove chiarisce che l’assunzione di una persona in stato di bisogno non è di per sé sintomatica di sfruttamento, laddove siano rispettate le prerogative retributive ed orarie del lavoratore e sia garantita la sua sicurezza sul luogo di lavoro. A ciò si potrebbe aggiungere- pur solo in via meramente astratta- che lo sfruttamento può non essere derivante dall’approfittamento dello stato di bisogno, quando quest’ultimo non sia configurabile in capo al lavoratore che accetta le condizioni di lavoro delineate dal terzo comma dell’art. 603 bis cod. pen.. Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi di scuola, o quantomeno residuale, avuto riguardo al fatto che lo sfruttamento lavorativo è normalmente accompagnato dalla grave difficoltà del lavoratore di autodeterminarsi in modo meno deprezzante. Ma certamente è possibile che lo sfruttamento non si accompagni all’approfittamento dello stato di bisogno, quando questo sia non sia conosciuto.

12. L’ordinanza chiarisce, invero, che manca, innanzitutto, la condizione di sfruttamento, non essendo integrati gli indici di cui al terzo comma, dell’art. 603 bis cod. pen.. Dall’esame delle sommarie informazioni rese dai lavoratori i C.L., L.R., G.C.V., P.L., M.S., N.M.A., V.G.M., M.I.R.. Infatti, non sarebbero ricavabili né la reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, sui riposi e sulle ferie, né la reiterata violazione degli accordi sindacali inerenti alla retribuzione, essendo provato che i lavoratori svolgevano l’attività di raccolta di fragole e piselli per 6,30-7 ore al giorno, con un’ora di pausa per il pranzo, a fronte di una previsione contrattuale di sei ore e mezza, per una retribuzione pari ad euro 31,00 giornalieri (secondo quanto previsto per il corrispondente sesto livello del contratto collettivo ritenuto applicabile), avendo i diversi braccianti affermato di percepire una paga quotidiana fra euro 28,00 ed euro 35,00. Mentre, secondo il giudice del riesame non è risultata provata la violazione delle disposizioni sul riposo settimanale, essendo stato riferito dai lavoratori che il datore di lavoro diceva loro “quando lavorare e quando stare a casa”, non potendosi al contrario valorizzare la conversazione (n. 1426) in cui E.S. e C.G., affermano, in modo assolutamente generico che “da Pino si lavora ogni giorno”.

13. Ora, il pubblico ministero ricorrente fa valere una serie di errori interpretativi delle risultanze investigative, sostenendo, primo luogo, che il Tribunale per il riesame avrebbe tratto dalle dichiarazioni dei braccianti -i quali hanno riferito di essere impegnati per 7,30-8 ore al giorno- che i medesimi facessero una pausa pranzo di un’ora, benché ciò risulti dall’ordinanza genetica, in secondo luogo, avrebbe considerato, senza motivare, “generica” la conversazione dalla quale emergeva che nell’azienda di A.C. e del padre G. “si lavorava ogni giorno”.

14. A questo proposito si coglie nella censura una cattiva lettura del provvedimento impugnato, perché, da un lato, non rileva che l’ordinanza genetica non faccia riferimento alla circostanza relativa alla pausa pranzo, avendo il giudice del riesame dato conto di avere esaminato direttamente le dichiarazioni dei lavoratori (di cui richiama i verbali), dall’altro, anche la diversa considerazione del valore probatorio della conversazione fra terzi (1426), da cui il ricorrente trae la reiterata violazione delle disposizioni sui riposi settimanali, viene giustificata dal Tribunale che la mette a confronto con le più precise informazioni ricavabili dalle sommarie informazioni rese dai lavoratori.

La doglianza con cui si fa valere l’apparenza della motivazione – tutt’altro che mancante, seppure non condivisa dal ricorrente- finisce, dunque, per risolversi nella richiesta di censura sulla valutazione del materiale indiziario, per come riportato dal ricorso e dall’ordinanza genetica, ponendosi al di fuori del perimetro che il legislatore assegna, con l’art. 325 cod. proc. pen., al controllo del giudice di legittimità.

15. Parimenti non può rilevarsi alcuna mancanza della motivazione in ordine alla contestazione sulla consistenza dell’indice di cui all’art. 603 bis, comma 3 n. 1) cod. pen.. Il ricorrente, infatti, sostiene che il giudice del riesame avrebbe generalizzato le dichiarazioni relative al salario, ancorché le reiterate violazioni della contrattazione collettiva in materia di retribuzioni integrino lo sfruttamento anche quando poste in essere nei confronti di un singolo lavoratore. Invero, l’ordinanza non omette affatto l’esame individuale della condizione di sfruttamento, ma ritiene che la differenza fra la retribuzione percepita da quattro dei lavoratori coinvolti, pari ad euro 28,00 e quella prevista dalla contrattazione collettiva applicata, pari a 31,00 euro giornalieri, non costituisca una violazione “palesemente difforme” della previsione pattizia sulla retribuzione. Né spetta a questa Corte la verifica, pretesa dal ricorrente, sulla correttezza del contratto collettivo di settore preso a riferimento, avendo, peraltro, il Tribunale posto a fondamento della decisione l’accordo provinciale in vigore dal febbraio 2018, con una decorrenza sovrapponibile a quella indicata nel capo provvisorio di imputazione (che fa riferimento a fatti commessi a far data dal febbraio 2018).

16. Neppure può trovare accoglimento la doglianza con la quale si censura il provvedimento nella parte in cui esclude l’integrazione dell’indice di cui al n. 3) del terzo comma dell’art. 603 bis cod. pen., non ritenendo che l’avere consentito ai braccianti di svolgere l’attività di raccolta con calzature da ginnastica, senza fornire loro adeguato presidio individuale, costituisca violazione delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro.

17. Al di là della vaghezza della contestazione introdotta dal pubblico ministero -che si limita a dolersi del fatto che il Tribunale per il riesame non si sia fatto carico di spiegare perché, nonostante il d.lgs 81/2008 si estenda anche ai lavori agricoli, possa ritenersi non necessario l’utilizzo dei presidi nelle operazioni di raccolta di frutta- vi è che i dispositivi di protezione individuali sono prescritti al fine di evitare rischi specifici derivanti dalla lavorazione, suscettibili di minare la salute del lavoratore.

18. Ed invero, l’art. 79 d.lgs. 81/2008 rimanda -per l’individuazione dei dispositivi necessari per le singole lavorazioni- all’Allegato Vili contenente le indicazioni generali relative a protezioni particolari, laddove si prevede che “Per la protezione dei piedi nelle lavorazioni in cui esistono specifici pericoli di ustioni, di causticazione, di punture o di schiacciamento, i lavoratori devono essere provvisti di calzature resistenti ed adatte alla particolare natura del rischio. Tali calzature devono potersi sfilare rapidamente” e che “Qualora sia necessario proteggere talune parti dei corpo contro rischi particolari, i lavoratori devono avere a disposizione idonei mezzi di difesa, quali schermi adeguati, grembiuli, pettorali, gambali o uose”. Nell’elenco indicativo contenuto nello stesso allegato si distinguono diversi tipi di protezioni dei piedi e delle gambe, a seconda del tipo di rischio da contenere, sia esso meccanico, chimico, fisico o biologico (punto 2), mentre nell’elenco indicativo delle attività (punto 3.2) si specifica quale caratteristica debba avere la calzatura (con o senza suola imperforabile, con o senza tacco ecc.) per ciascun tipo di attività, cui è connesso il rischio.

19. Ciò che l’ordinanza sostiene, pur senza fare cenno al contenuto delle disposizioni appena richiamate, così come peraltro il ricorrente, è che nella raccolta delle fragole, in serra o in campo, non sono presenti rischi che impongano l’utilizzo di calzature con caratteristiche particolari.

Rispetto a questa affermazione, con cui si esclude la presenza di un rischio specifico implicante la necessità dell’adozione di un determinato tipo di calzatura, il ricorrente non oppone l’identificazione del rischio che rende necessaria l’adozione del dispositivo individuale di protezione, ancorché per aversi violazione della normativa antinfortunistica sia necessario che esso sia individuato e che sia previsto uno specifico dispositivo di contenimento.

Manca, in buona sostanza, a fronte dell’assunto del giudice secondo cui non sussiste un rischio da proteggere, un’efficace contestazione sulla sua esistenza e natura, che consenta di valutare se non fornire calzature specifiche possa costituire violazione della normativa antinfortunistica, mentre non spetta a questa Corte valutare direttamente “sé e “quale” tipo di rischio (meccanico, fisico, chimico, termico ecc.) comporti un certo genere di attività, tanto più in assenza di qualsiasi allegazione.

La genericità della doglianza ne comporta l’inammissibilità.

20. Ancora nessun difetto di motivazione si appalesa in ordine alla contestata sussistenza di condizioni di lavoro degradanti. Anche su questo punto il giudice del riesame spiega come non possa tenersi in considerazione quale indice di sfruttamento l’avere i lavoratori dovuto operare a “schiena piegata”, posto che il lavoro di raccolta in campo di fragole e piselli non conosce modalità alternative. Da ultimo, va ritenuta manifestamente infondato l’ultimo profilo di censura sollevato dal ricorrente, con cui si sottolinea che il Tribunale ha riconosciuto che A.G. ha fatto ricorso a canali non istituzionali di somministrazione di manodopera, avvalendosi dell’intermediazione di G.F., così ritenendo quantomeno integrando se non il fumus del delitto contestato, quantomeno quello del reato cui all’art. 18, comma 2 d. Igs. 276/2003. Dimentica, tuttavia, il pubblico ministero che “A seguito della depenalizzazione intervenuta con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, l’illecita utilizzazione di manodopera, per violazione delle norme in materia di agenzie di somministrazione di lavoro, di cui agli artt. 4, comma 1, lett. a), e 18, comma 1, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, non è più prevista dalla legge come reato. (Sez. 3, Sentenza n. 48015 del 31/05/2019, Rv. 277992).

21. Il ricorso è, pertanto, inammissibile.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.