Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 36197 depositata il 28 dicembre 2023
prescrizione dei crediti di lavoro nel pubblico impiego
FATTO
1. Con sentenza del 23 luglio 2016, la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’appello dell’Inail avverso la sentenza di primo grado, di accertamento del diritto di G.O. al riconoscimento, ai fini dell’anzianità lavorativa e della maturazione dei conseguenti aumenti stipendiali, dell’intero periodo di lavoro prestato come dipendente a tempo determinato dell’Ispesl.
Egli aveva, infatti, lavorato alle sue dipendenze, con inquadramento di III livello del CCNL del comparto istituzioni di enti pubblici di ricerca e sperimentazione, in forza di plurimi contratti a tempo determinato dal 16 dicembre 1993 al 17 febbraio 2008, essendo stato quindi stabilizzato con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 18 febbraio 2008, con azzeramento dell’anzianità maturata nei pregressi rapporti a termine, che gli era peraltro valsa un solo passaggio ad una superiore fascia stipendiale. A seguito della soppressione dell’Ispesl nell’anno 2010, tutto il personale, compreso il lavoratore predetto, era stato trasferito all’Inail, cui pure erano state attribuite le relative funzioni.
2. Preliminarmente ribadita l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione dei crediti retributivi, siccome decorrente dalla data di stabilizzazione del rapporto di lavoro per la condizione di incertezza del lavoratore in ordine alla continuazione del rapporto, in pendenza dei contratti a tempo determinato, la Corte territoriale ha condiviso il riconoscimento del suo diritto all’anzianità di servizio maturata nel periodo anteriore alla stabilizzazione, in applicazione del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, sancito dalla clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, trasfuso nella Direttiva 1999/70/CE.
Essa ha, in particolare, ritenuto tale diritto rientrare nelle “condizioni di impiego” indicate al p.to 1 della suddetta clausola, secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia UE (nel senso di poter “servire da fondamento di una pretesa … che mira ad attribuire ad un lavoratore a tempo determinato scatti di anzianità che l’ordinamento interno riserva ai soli lavoratori a tempo indeterminato”), con derogabilità del principio di parità del trattamento per “ragioni oggettive” (consistenti in “elementi precisi e concreti, che contraddistinguono il rapporto di impiego … nel particolare contesto in cui si iscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di valutare se tale disparità corrisponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria … ”), non ravvisabili nella mera temporaneità del rapporto.
3. Con atto notificato il 22 dicembre 2016, l’Istituto ha proposto ricorso per cassazione con un unico motivo, illustrato da memoria finale, cui ha resistito il lavoratore con controricorso.
4. Con ordinanza interlocutoria 28 febbraio 2023, n. 6051, la Sezione Lavoro di questa Corte ha ritenuto l’oggetto della controversia devoluta “questione di massima di particolare importanza”, ai sensi dell’art. 374, secondo comma c.p.c. e ha disposto la trasmissione del procedimento al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite.
5. Essa ne ha individuato la questione centrale nella decorrenza, nel pubblico impiego contrattualizzato, della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori assunti a seguito di procedura di stabilizzazione, dopo lo svolgimento di rapporti di lavoro regolari e dotati di stabilità reale.
6. Con articolata ed argomentata ricognizione critica del formante giurisprudenziale costituzionale e di legittimità sul tema dell’individuazione del momento di decorrenza della prescrizione, l’ordinanza ha prospettato la necessità di una rimeditazione, da parte della Suprema Corte nella sua massima composizione, della questione, in ragione dell’evoluzione socio-economica dei rapporti di lavoro, dei
significativi mutamenti normativi che hanno interessato la materia del pubblico impiego, per effetto della sua contrattualizzazione, dell’incidenza sugli assetti normativi interni dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato e delle decisioni della Corte di Giustizia U.E.
7. Essa ha pertanto posto i seguenti quesiti:
a) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell’ultimo, come accade nel lavoro privato;
b) se, nell’eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita da stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;
c) se la prescrizione dei crediti retributivi, nell’ipotesi sub b), sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la P.A. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti.
8. Il Primo Presidente ha quindi fissato la trattazione del procedimento davanti a queste Sezioni Unite per l’odierna pubblica udienza.
9. Il P.G. ha comunicato requisitoria scritta.
10. Entrambe le parti hanno comunicato memoria finale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con un unico motivo, il ricorrente ha dedotto violazione degli artt. 2948, n. 4, 2941 e 2942 c.c., per essere la domanda di condanna al pagamento di differenze retributive, conseguenti al riconoscimento dell’anzianità maturata dal lavoratore nel corso di più contratti a termine dotati della necessaria stabilità, soggetta alla prescrizione quinquennale, senza alcuna sospensione per il metus del lavoratore medesimo.
2. Esso è fondato.
3. In via preliminare, deve essere ribadita la formazione del giudicato sul diritto del lavoratore al riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata prima della sua stabilizzazione, non più in discussione; ma neppure ponendosi in merito problemi di prescrizione, per essere l’anzianità non uno status, né elemento costitutivo di uno status del lavoratore subordinato, né di un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, rappresentando piuttosto la dimensione temporale del rapporto di lavoro di cui integra il presupposto di fatto di specifici diritti.
Sicché, l’attribuzione, in sede di assunzione a tempo indeterminato dell’anzianità di servizio maturata nei precedenti rapporti a termine dà diritto al lavoratore alla percezione, dal momento dell’assunzione, di una retribuzione commisurata a tale anzianità: secondo l’orientamento di questa Corte, per il quale la clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato, recepito dalla direttiva 99/70/CE, di diretta applicazione, impone al datore di lavoro pubblico di riconoscere, ai fini della progressione stipendiale e degli sviluppi di carriera successivi al 10 luglio 2001, l’anzianità di servizio maturata sulla base di contratti a tempo determinato, nella medesima misura prevista per il dipendente assunto ab origine a tempo indeterminato, fatta salva la ricorrenza di ragioni oggettive che giustifichino la diversità di trattamento (Cass. 16 luglio 2020, n. 15231, che ha ritenuto tale principio applicabile anche nell’ipotesi di anteriorità del rapporto a termine all’entrata in vigore della direttiva, per l’applicabilità, in assenza di espressa deroga, del diritto dell’Unione agli effetti futuri delle situazioni sorte nella vigenza della precedente disciplina; Cass. 8 marzo 2022, n. 7584).
3.1. Ciò rende irrilevante il profilo dell’ordinanza di rimessione di un prospettato contrasto (peraltro insussistente) del supposto svuotamento di contenuto dell’anzianità di servizio dei lavoratori a termine nel pubblico impiego contrattualizzato, fino al suo azzeramento (con pesanti conseguenze anche sulla progressione stipendiale), con la giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di maggiorazioni retributive derivanti dall’anzianità di servizio, in quanto condizioni di impiego, ai sensi della clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato.
4. La questione posta dall’ordinanza di rimessione riguarda invece, specificamente, la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore “stabilizzato” dall’amministrazione pubblica, maturati nel corso dei rapporti di lavoro a termine legittimi intercorsi prima della stabilizzazione.
5. È noto l’insegnamento giurisprudenziale costituzionale e di legittimità, consolidatosi alla stregua di “diritto vivente”, secondo il quale la prescrizione dei diritti retributivi matura in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), nel lavoro pubblico ancorché contrattualizzato: sia nell’ipotesi di rapporto a tempo indeterminato, sia nell’ipotesi di reiterazione di rapporti a tempo determinato (tanto se legittimi: Cass. S.U. 16 gennaio 2003, n. 575; tanto se illegittimi: Cass. 28 maggio 2020, n. 10219, in motivazione sub p.to 36). E ciò sul presupposto della sua “stabilità” (individuata in “una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”: Corte cost. 20 novembre 1969, n. 143, Considerato in diritto, p.to 1; Cass. S.U. 12 aprile 1976, n. 1268 e succ.).
Il principio – a garanzia del timore (metus) condizionante le scelte del lavoratore, quale parte debole del rapporto, di tutela dei propri diritti – è stato analogamente esteso ai rapporti di lavoro, cui siano applicabili le leggi 15 luglio 1966, n. 604 e 20 maggio 1970, n. 300, dovendo “la seconda … considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (Corte cost. 12 dicembre 1972, n. 174, Considerato in diritto, p.to 3).
6. Ora, è parimenti noto che, per effetto della modulazione attuata dalla legge n. 92/2012 e dal d.lgs. 23/2015, nel rapporto di lavoro privato a tempo indeterminato – in mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, con il conseguente venir meno di un regime di stabilità – sia stata ritenuta la decorrenza, per tutti i diritti non prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92/2012, del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. 6 settembre 2022, n. 26246).
7. Occorre allora verificare se analoga conclusione sia estensibile anche ai rapporti di lavoro pubblico suindicati, sulla base della rimeditazione sollecitata dall’ordinanza di rimessione, per le ragioni ivi illustrate con diffusa e argomentata ricognizione critica e sopra sintetizzate, sulla doverosa premessa dell’ovvio fondamento di una rigorosa interpretazione giuridica, letterale e sistematica, “disciplinata dal diritto stesso”, come si esige, anche secondo autorevole dottrina, per “l’interpretazione giudiziale”; senza attribuzione della dignità di criteri interpretativi ad elementi storico – fattuali, in particolare relativi all’evoluzione del contesto storico, sociale ed economico: certamente rilevante in funzione di una migliore aderenza del dato normativo all’effettiva attualità cui debba essere applicato, ma evidentemente non in funzione manipolativa o sostitutiva della norma di legge. Tanto più in una materia, quale la prescrizione, di “fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie”, per cui occorre ribadire la necessità che “sia garantita una conoscenza, in termini di generalità e di sicura predeterminazione, di quali siano le regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione” (Cass. 6 settembre 2022, n. 26246, in motivazione sub p.to 5.1).
8. Reputano queste Sezioni Unite che debba essere negata una piena parificazione dei rapporti di lavoro privato e pubblico contrattualizzato. E ciò alla luce dei principi regolanti questo secondo comparto, significati dalle sue principali leggi di riforma (d.lgs. 29/1993, di “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421; d.lgs. 165/2001, seguito alla cosiddetta “seconda privatizzazione” del lavoro pubblico operata dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, di Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”): a) il primo, rispondente “alle finalità di accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei paesi della Comunità europea, di razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica, di integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato”; b) il secondo, di conferma del“l’impianto della riforma del 1993, diretta a <<valorizzare la distinzione tra organizzazione della pubblica amministrazione, la cui disciplina viene affidata in primo luogo alla legge, e rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, tendenzialmente demandato allo strumento della contrattazione collettiva>>” (così: Corte cost. 14 luglio 2015, n. 150, Considerato in diritto, p.to 2.2).
8.1. È indubbiamente vero che la privatizzazione del pubblico impiego abbia comportato una scissione fra l’organizzazione amministrativa e i rapporti di lavoro. Sicché, in conseguenza del processo di privatizzazione e di contrattualizzazione, la prima resta affidata alla legge e coperta dalla riserva di cui all’art. 97 della Costituzione, mentre, per converso, è ad essa sottratta la disciplina dei rapporti di lavoro, invece regolati dalla contrattazione collettiva.
Tuttavia, seppure sia venuta meno la concezione dogmatica dell’esercizio di pubbliche funzioni mediante il rapporto di immedesimazione organica dei cittadini, cui esse siano affidate, alla stregua di una promanazione dello Stato stesso, a loro presidio restano indiscutibilmente: il citato art. 97 Cost. – che continua a disciplinare gli obiettivi dell’azione amministrativa secondo la regola generale di accesso ai ruoli del pubblico concorso (salvi i casi stabiliti dalla legge); l’art. 28 Cost., di diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti (con estensione, in tali casi, della responsabilità civile allo Stato e agli enti pubblici); l’art. 98 Cost., secondo cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione, per un principio di neutralità, cui è funzionale anche la regola del pubblico concorso (oltre che il principio affermato dall’art. 51 Cost., di garanzia dell’accesso ai pubblici uffici a tutti i cittadini in condizioni di uguaglianza).
Ma se il rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato è regolato dalla disciplina di diritto comune – che ne traccia le regole, rinviando alla peculiare contrattazione collettiva, per un verso e, per altro verso, alla disciplina del codice civile – esso trova comunque limiti conformativi nelle norme costituzionali richiamate.
Inoltre, le pubbliche amministrazioni devono – anche in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea – assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico in un armonico assetto che miri alla sostenibilità del complessivo debito dello Stato, così coordinandosi come parti di un unico complesso organizzativo.
8.2. D’altro canto, la giurisprudenza di legittimità ha correttamente ribadito la distinzione tra rapporto di lavoro privato e di pubblico impiego contrattualizzato.
“La privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell’impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (articolo 51, secondo comma d.lgs. 165/2001 e, all’attualità, articolo 63, secondo comma d.lgs. cit.), che, in punto di eccezionalità del lavoro a termine (secondo la disciplina speciale dell’articolo 36 d.lgs. cit.) … ” (Cass. 19 novembre 2021, n. 35676, in motivazione sub p.to 42, così, massimata: “In tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela”).
8.3. Peraltro, prima della novellazione (ad opera dell’art. 21 d.lgs. 75/2017) dell’art. 63, secondo comma d.lgs. 165/2001 (secondo cui “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”), la medesima giurisprudenza ha ritenuto inapplicabile l’art. 18 della legge n. 300/1970, come novellato dalla legge n. 92/2012.
Essa ha, infatti, ritenuto che “le modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 all’art. 18 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata legge n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 legge cit. nel testo antecedente la riforma; rilevano a tal fine il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera dell’art. 1, ottavo comma legge n. 92/2012, l’inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al d.lgs. 165/2001, neppure richiamate al sesto comma dell’art. 18 nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui all’art. 51, secondo comma d.lgs. cit., incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato” (Cass. 9 giugno 2016, n. 11868; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23424). In particolare, la prima sentenza ha affermato che “una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato; poiché, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24.10.2008 n. 351). Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41, primo e secondo comma, della Costituzione, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica” (Cass. 9 giugno 2016, n. 11868, in motivazione sub p.to 3.3, lett. d).
9. Si evince pertanto con nitida evidenza come la questione qui all’esame sia assolutamente diversa da quella relativa al settore privato, nel quale non sussiste alcuna conformazione dell’azione datoriale ai principi costituzionali innanzi richiamati, essendo la norma di riferimento invece l’art. 41 della Carta fondamentale. Sicché, da ciò consegue la piena armonia, con i richiamati insegnamenti del giudice costituzionale e di legittimità, della sentenza di questa Corte 6 settembre 2022, n. 26246 (che anzi conferma la necessità di mantenere la differente decorrenza, in corso di rapporto, della prescrizione nei rapporti di pubblico impiego contrattualizzato, assistiti dal regime di stabilità), che, in virtù delle rilevanti modifiche normative sopravvenute nella disciplina del lavoro privato, ha dovuto completamente ridisegnare l’area della stabilità ovvero dell’instabilità a vantaggio di quest’ultima.
10. Deve allora essere affermata con chiarezza l’inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del cittadino verso un potere dello Stato, quale la pubblica amministrazione, nella fisiologia del sistema.
Esso assicura, infatti, a tutela del lavoratore pubblico, un concreto ed efficiente assetto di stabilità del rapporto, che si articola in concorrenti profili di garanzia attraverso un articolato ed equilibrato sistema di controlli tra poteri e di bilanciamento di interessi, orientato da quello prioritario generale, fondato sui principi dello Stato costituzionale di diritto.
Il sistema garantisce, infatti, il controllo sulla res publica dei cittadini, che si esprime sia nella forma diretta partecipativa attraverso la composizione degli organi costituzionali rappresentativi con l’esercizio del diritto di voto (art. 48 Cost.) e la vigilanza critica sul loro operato come opinione pubblica (art. 21 Cost.), sia in quella mediata delle formazioni intermedie e della loro libera associazione (artt. 2 e 18 Cost.) e, in particolare, delle organizzazioni sindacali (art. 39 Cost.) e dei partiti politici (art. 49 Cost.); non potendo essere sottaciuta l’essenziale tutela dell’accesso al giudice (artt. 24 Cost. e 6 CEDU), anche nei confronti della pubblica amministrazione attraverso la giurisdizione amministrativa (art. 113 Cost.).
Il rappresentato assetto ordinamentale di diritti e di poteri, tutelato dai reciproci controlli di garanzia, assicura pienamente il lavoratore pubblico negli eventuali comprovati casi di patologia del sistema (che, in quanto tale, costituisce deviazione eccezionale dall’ordinario andamento fisiologico), attraverso la responsabilità diretta de“i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici … secondo le leggi penali, civili e amministrative” per gli “atti compiuti in violazione di diritti” (con estensione, in tali casi, della responsabilità civile allo Stato e agli enti pubblici), prevista dal già citato art. 28 Cost.
10.1. Giova allora qui richiamare la citata giurisprudenza costituzionale e di legittimità (che alla prima si è conformata) per sottolineare come, nella prospettiva da essa tracciata, assuma rilevanza essenziale, quale criterio discretivo ai fini di individuazione della decorrenza del termine di prescrizione, proprio il metus: posto che la stabilità del rapporto è il parametro misuratore di esso. Sicché, da una tale evidenza consegue la sostanziale ininfluenza della previsione (cui ha invece fatto significativo riferimento l’ordinanza interlocutoria), quale misura di tutela del lavoratore pubblico, di reintegrazione nel posto di lavoro, ma con limitazione dell’indennità risarcitoria a ventiquattro delle mensilità retributive (art. 63, secondo comma d.lgs. 165/2001, come novellato dal d.lgs. 27/2017): peraltro, neppure foriera di alcun metus, per il ripristino comunque del rapporto di lavoro, accompagnato da un’indennità risarcitoria di entità non propriamente irrisoria.
Se dunque, nella giurisprudenza della Corte costituzionale la stabilità o meno del lavoro costituisce un mero parametro, per rilevare l’esistenza o l’inesistenza del timore, l’esclusione in radice della sua configurabilità nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in quanto vincolate al rispetto dei principi costituzionali e della legge, priva di alcun valore il riferimento al suddetto mutamento della disciplina della reintegrazione.
11. Tanto chiarito e in più specifico riferimento alla reiterazione della contrattazione a tempo determinato – tenuto anche conto di quanto osservato dal P.G. in ordine alla mancanza di prova di una “prassi” di “stabilizzazioni” da parte della P.A., a fronte di una normativa limitativa del ricorso alla contrattazione a tempo determinato e di un suo obbligo di periodica informazione alle organizzazioni sindacali sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate, per combatterne gli abusi (dal penultimo capoverso di pg. 4 al secondo di pg. 5 della sua requisitoria) – queste Sezioni Unite ritengono di non poter accogliere la proposta dell’ordinanza interlocutoria di rilettura e di ampliamento del concetto di metus, in asimmetria con quanto costantemente ritenuto dal giudice costituzionale e di legittimità.
Al riguardo, appare pure ostativa la corretta qualificazione giuridica del metus (non già del licenziamento, ma) del mancato rinnovo del contratto a termine da parte del datore. Contrariamente al primo, che si colloca all’interno di un rapporto di lavoro fonte (qualora cessato per illegittimo recesso datoriale) di una posizione giuridica qualificabile alla stregua di diritto soggettivo tutelabile, il mancato rinnovo del contratto a tempo determinato suscita (non tanto un “timore” siffatto, quanto piuttosto) un’apprensione, che, per quanto meritevole di giustificabile comprensione, integra tuttavia una mera aspettativa di fatto, non giustiziabile per la sua irrilevanza giuridica.
11.1. Giova, infine, richiamare la radicale negazione dell’esistenza del metus quale delineato dal giudice costituzionale (come chiarito da Cass. S.U. 16 gennaio 2003, n. 575, in motivazione sub p.ti 3.1, 4. e 4.1), per il riconoscimento ai rapporti a termine, in caso di illegittimità del recesso, di una piena tutela attraverso la condanna al pagamento delle retribuzioni dovute e il risarcimento del danno.
12. In via conclusiva, nonostante l’evoluzione socio-economica dei rapporti di lavoro e dei significativi mutamenti normativi che hanno interessato la materia del pubblico impiego, per effetto della sua contrattualizzazione, bene evidenziati con perspicua sensibilità dall’ordinanza interlocutoria, la disciplina del pubblico impiego contrattualizzato non può, tuttavia, che continuare a muoversi nel segno della continuità rispetto alle linee tracciate, in primis, da Cass. S.U. 16 gennaio 2003, n. 575 e successivamente da Cass. 28 maggio 2020, n. 10219 e dalla consolidata giurisprudenza conforme (tra le altre: Cass. 24 giugno 2020, n. 12443; Cass. 30 novembre 2021, n. 37538; Cass. 29 dicembre 2022, n. 38100; Cass. 18 luglio 2023, n. 20793).
13. In esito al superiore ragionamento argomentativo, il ricorso deve essere accolto; la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:
“La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato – in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l’inconfigurabilità di un metus. Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela”.
La seria perplessità in ordine alla rimeditazione del consolidato indirizzo giurisprudenziale, meritevole di rimessione a queste Sezioni Unite quale questione di massima di particolare importanza, giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte
d’appello di Roma in diversa composizione.
Dichiara le spese del giudizio di legittimità compensate tra le parti.