Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Udine, sezione n. 1, sentenza n. 58 depositata il 31 marzo 2023
La clausola penale contenuta nell’atto di compravendita deve essere assoggettata all’imposta di registro in misura autonoma, in quanto disposizione non necessariamente connessa al negozio principale. L’art. 21 del D.P.R. n. 131/1986 stabilisce, infatti, che “se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto”
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La controversia trae origine dall’impugnazione dell’avviso di liquidazione n. 21014029157 con il quale l’Ufficio ha liquidato le imposte dovute in relazione all’atto a rogito Notaio aaaaa, contratto denominato “Compravendita” (rep. n. 12.229; racc. n. 9.944), registrato telematicamente a Udine il 07.09.2021 al n. 18580 serie 1T.
Con il citato atto, bbbbb vendeva a ccccc un fabbricato residenziale e relativa pertinenza; all’art. 7 le parti inserivano una clausola penale comportante un indennizzo qualora vi fosse stato un ritardo nella consegna dell’immobile (nello specifico, convenivano una penale per ogni giorno di ritardo quantificata in euro 30,00 giornaliere).
Con riferimento a detta clausola, il Notaio rogante non aveva autoliquidato la relativa imposta.
In sede di controllo in merito alla corretta liquidazione operata, l’Ufficio rilevava che la predetta clausola penale configurava una condizione sospensiva da registrarsi con il pagamento di un’imposta di registro in misura fissa, ai sensi degli artt. 21, c. 1 e 27 TUR.
Pertanto, verificato che si trattava di una disposizione che, per sua natura, non derivava necessariamente dalla compravendita, che era stata pattiziamente aggiunta per produrre ulteriori e distinti effetti giuridici, autonomamente costituenti espressione di capacità contributiva e che, quindi, doveva essere assoggettata ad autonoma imposizione, l’Ufficio notificava l’avviso di liquidazione indicato in premessa con il quale recuperava l’imposta di registro pari ad euro 200,00, nonché l’imposta di bollo ex art. 1-bis, p. 4, DM 22.02.2007.
In data 21.12.2021 il Notaio presentava istanza di mediazione / reclamo ex art. 17-bis D.Lgs. 546/1992 avverso l’avviso di liquidazione dell’imposta sopra enunciato, chiedendone l’annullamento.
L’Ufficio, ritenendo corretta la liquidazione effettuata, a mezzo PEC n. 46350 dd. 18.03.2022, comunicava che l’istanza non poteva trovare accoglimento ed allegava copia della bozza di controdeduzioni con la quale motivava, in punto di fatto e diritto, il diniego opposto.
Il Ricorrente ha quindi depositato il ricorso presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale di Udine.
L’Ufficio ha presentato controdeduzioni.
Il Ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
L’Agenzia delle Entrate afferma che la clausola penale contenuta nell’atto di compravendita debba essere assoggettata all’imposta di registro in misura autonoma, in quanto disposizione non necessariamente connessa al negozio principale.
La disciplina fiscale applicabile ad un atto che contiene più disposizioni si rinviene nell’art. 21 DPR 131/1986 il quale, al primo comma, dispone che “se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto”, mentre al secondo comma prevede che “se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo all’imposizione più onerosa”. Dalla disamina della citata norma emerge che il primo comma ha riguardo ai casi in cui, nel medesimo atto, vengano trasfusi più negozi privi di “ontologico” collegamento tra loro e, per ciò, scindibili ed autonomamente rilevanti. Il secondo comma, invece, disciplina i negozi caratterizzati da una connessione necessaria, ovvero quei casi in cui la connessione tra le disposizioni deve sussistere sul piano oggettivo, nel senso che, tra le stesse, deve rinvenirsi una concatenazione logica necessaria in forza di legge e non per volontà delle parti.
L’Agenzia delle Entrate ritiene che la clausola penale sia riconducibile al primo comma dell’art. 21 sopra citato.
Il Ricorrente si richiama viceversa a quel filone giurisprudenziale di merito (CTP Milano n. 2231/2020; CTR Emilia Romagna 716/2020, tra le altre) che ha accolto un orientamento diametralmente opposto rispetto a quello sostenuto dell’Agenzia delle Entrate, ritenendo che debba applicarsi il secondo comma dell’art. 21, e non il primo, assumendo che la clausola penale di cui all’art. 1382 c.c. sia una disposizione accessoria, con la quale le parti predeterminano e quantificano convenzionalmente il danno derivante da inadempimento o da ritardo nell’adempimento. Essa non è contemplata espressamente dal TUIR, che dunque non ne disciplina in modo specifico la tassazione.
L’esclusione della debenza dell’imposta fissa per la clausola penale sarebbe coerente con il fatto che: “- la clausola penale non ha causa autonoma e propria, ma accede a quella del negozio principale; – detta clausola costituisce un elemento del contratto principale, ciò che porta ad escludere l’applicabilità dell’articolo 21 comma 1, il quale fa riferimento a disposizioni plurime intese come negozi; – diversamente opinando, si sarebbe in presenza di un’imposta non legata alla capacità contributiva espressa dal contenuto patrimoniale dell’atto, essendo esso improduttivo di effetti al momento della tassazione, in quanto atto condizionato” (CTR Emilia Romagna 716/2020).
La tesi di parte Ricorrente non è condivisibile.
Con l’apposizione della clausola penale le parti convengono che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento del contratto, il debitore sarà tenuto ad una determinata prestazione. Il Codice Civile, all’art. 1382, ne offre una definizione indiretta prevedendo che “la clausola, con cui si conviene che, in caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento, uno dei contraenti è tenuto a una determinata prestazione, ha l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore. La penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno”. Trattasi, evidentemente, di un patto accessorio del contratto, posto dalle parti per rafforzare il vincolo contrattuale, con la doppia funzione di coercizione all’adempimento e di predeterminazione della misura del risarcimento per l’inadempimento.
L’istituto configura un negozio autonomo, la cui causa concreta consiste nell’attuazione di uno scopo pratico separato ed ulteriore rispetto al negozio cui accede, consistente nel predeterminare una sanzione per l’inadempimento o per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione nascente dal contratto. In questi termini si è pronunciata la Corte di Cassazione in più occasioni e di recente ribadendo che “la clausola penale ha una causa distinta da quella del contratto cui afferisce, rispetto al quale assume una sua rilevanza contrattuale autonoma, anche se collegata e complementare, sicché, anche quando il contratto ha ad oggetto la costituzione di diritti reali, la sua efficacia si trasmette anche a vantaggio degli aventi causa della parte in favore della quale era stata originariamente approntata” (Cass. Sez. 2 Ordinanza n. 10046 del 24/04/2018, Rv. 648161-01).
Contrariamente a quanto sostenuto dal Ricorrente, dunque, si osserva che le clausole penali, se da un lato hanno natura accessoria in quanto non afferiscono le prestazioni tipiche di un contratto di compravendita (l’obbligo di trasferire la proprietà di un bene o di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo), dall’altro hanno evidentemente natura autonoma in quanto non correlate al contenuto e alla causa del contratto, ma al mancato o non corretto adempimento dello stesso: gli effetti della clausola penale, infatti, non discendono dal contratto, ma da un evento esterno allo stesso, ossia l’inadempimento o il tardivo adempimento di determinate prestazioni.
La penale apposta volontariamente dalle parti, essendo dotata di autonomia causale, rientra tra le disposizioni non derivanti “necessariamente, per sua intrinseca natura” dalle altre disposizioni presenti nell’atto; conseguentemente, essa sconta autonoma tassazione ex art. 21, co. 1, TUR: nella specie, dunque, trova applicazione l’imposta in misura fissa.
D’altronde la clausola penale è una pattuizione che diviene produttiva dell’obbligazione soltanto nel momento in cui si verifica l’evento in essa dedotto, vale a dire l’inadempimento o il ritardo. Da ciò, se ne deduce l’inquadramento tra gli atti sottoposti a condizione sospensiva, di cui all’art. 27 TUR. Come precedentemente rappresentato, infatti, con la clausola penale i contraenti convengono preventivamente che, in caso di ritardi od inadempimenti dell’obbligazione, sia dovuta una certa somma di denaro a titolo di ‘sanzione’. Ne consegue che l’obbligazione di cui è fonte la clausola penale produce i suoi effetti solo a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale (e, dunque, soltanto in caso di avveramento di tale evento che, al momento della stipulazione del contratto, appare futuro ed incerto). È unicamente in questa ipotesi che si rende dovuta la prestazione contemplata nella penale. Ricorrono perciò i tratti caratterizzanti il negozio condizionatamente sospeso, vale a dire quel negozio i cui effetti – così come emerge dall’art. 1353 c.c.- si producono soltanto in caso di verificazione di un avvenimento futuro ed incerto.
La penale, pertanto, al momento della registrazione dell’atto contenente tale disposizione si applica l’art. 27 TUR, il quale stabilisce che “gli atti sottoposti a condizione sospensiva sono registrati con il pagamento dell’imposta in misura fissa”; mentre solo in caso di avveramento dell’evento futuro e incerto (nella specie, il ritardo o l’inadempimento di una delle parti), alla clausola in parola si applicherà l’imposta proporzionale del 3% di cui all’art. 9, TP1 (altre prestazioni a contenuto patrimoniale).
In questi termini si è pronunciata anche altra parte della giurisprudenza di merito (cfr. CTR Lombardia, sent. n. 3237/15/2017) così come lo studio n. 13-2007/T del Consiglio Nazionale del Notariato, secondo il quale: “Agli effetti dell’imposta di registro la clausola penale è riconducibile, in assenza di una specifica previsione, agli atti portanti assunzione di una obbligazione che non costituisce corrispettivo di altra prestazione, di cui all’art. 43 lett. e) d.p.r. n. 131/1986, imponibili nella misura del 3% ai sensi dell’art. 9 della tariffa parte prima, cit. Tuttavia, l’obbligazione di cui è fonte la clausola penale sarebbe assoggettabile a questa tassazione non al momento della registrazione del contratto contenente la relativa stipulazione ma solo in caso di inadempimento dell’obbligazione principale poiché è in questo caso che essa prende esistenza. Pertanto si ritiene applicabile alla clausola penale la disciplina stabilita per le obbligazioni sottoposte a condizione sospensiva di cui all’art. 27 d.p.r. n. 131 cit.”.
Alla luce di quanto esposto, delle argomentazioni giuridiche, della giurisprudenza di legittimità e merito rinvenibile in materia si deve concludere nel senso che la clausola penale configura una disposizione autonoma rispetto a quella relativa all’obbligazione principale e, conseguentemente, la fattispecie rientra nella disciplina di cui all’art. 21, c. 1, TUR con l’applicazione di un’imposta in misura fissa al momento della registrazione del contratto (con l’eventuale successiva applicazione dell’imposta in misura proporzionale qualora dovesse verificarsi l’inadempimento).
Trattandosi di controversia che vede orientamenti giurisprudenziali di segno opposto, nonostante la soccombenza si ravvisano ragioni per la compensazione delle spese.
La Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Udine rigetta il ricorso e conferma gli avvisi di liquidazione impugnati;
compensa le spese di giudizio.
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