Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado dell’Abruzzo, sezione n. 7, sentenza n. 421 depositata il 1° giugno 2023

Applicazione dell’art. 10 Convenzione contro le doppie imposizioni Italia Francia (Legge 07/01/1992 n. 20): necessaria dimostrazione dell’effettiva realizzazione della doppia imposizione, della partecipazione azionaria nell’ambito della normale attività, dell’identità tra effettiva beneficiaria e percettore del credito di imposta – Sussiste

Massima:

Ai fini dell’applicazione dell’art. 10 Convenzione contro le doppie imposizioni Italia Francia, ratificata con Legge 07/01/1992 n. 20, per ottenere il riconoscimento del diritto al rimborso, nei casi in cui si realizzi della doppia imposizione, è necessario che si verifichi, in concreto, una effettiva incisione sul medesimo patrimonio, in Italia e nello Stato estero, che va provato dal ricorrente, non potendo assumere rilievo un assoggettamento meramente astratto o potenziale, ma non effettivo.

In applicazione del principio di diritto indicato dalla Cassazione di rinvio con sentenza n. 11647/2019, occorre la dimostrazione:

– della partecipazione azionaria nell’ambito della normale attività bancaria, diversa dalla metodica operativa che ha quale specifica finalità il conseguimento del credito di imposta;

– che la società che riceve i dividendi ne sia la effettiva beneficiaria e che la società che riceve i dividendi ed il credito di imposta sia a tale titolo soggetta all’imposta, dovendo trovare applicazione il diritto al credito di imposta sancito dall’art. 10, paragrafi 2 e 4, della Convenzione.

Testo:

La società C. presentava nn. 115 istanze all’Amministrazione finanziaria italiana, relativamente agli anni fiscali che vanno dal 1996 al 2002, chiedeva il rimborso dei crediti d’imposta per un importo complessivo pari ad ? 31.456.130,57 (di cui già rimborsati ? 550.559,35) in relazione ai dividendi pagati da società residenti in Italia ai sensi dell’art. 10, par. 4, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra il Governo della Repubblica Italiana e il Governo della Repubblica Francese firmata il 05/10/1989 e ratificata in Italia con Legge 07/01/1992 n. 20. In virtù di quanto previsto dall’art. 10, par. 4, della Convenzione contro le doppie imposizioni, sottoscritta tra l’Italia e la Francia in data 5 ottobre 1989 e ratificata con L. 7 gennaio 1992, n. 20 (in seguito “Convenzione Italia Francia”) – ai sensi del quale “Un residente della Francia che riceve dividendi distribuiti da una società residente dell’Italia, i quali darebbero diritto ad un credito d’imposta se fossero ricevuti da un residente dell’Italia, ha diritto ad un pagamento da parte del Tesoro italiano pari a detto credito d’imposta…” -la Società, negli anni dal 2001 al 2005, ha presentato al Centro Operativo di Pescara (in seguito anche “l’Ufficio” o il “COP”) n. 115 istanze di rimborso delle somme corrispondenti al credito d’imposta sui dividendi che sarebbe spettato ad un azionista residente in Italia, per un importo complessivo di ? 31.456.130,57. In data 21 settembre 2006 il COP ha notificato alla Società un questionario con cui ha richiesto numerose informazioni relative alla Società stessa nonché alle operazioni sottostanti alle istanze di rimborso. La Società, con comunicazione del 29 novembre 2006 (cfr. all. 15 alla nota deposito documenti presentata in primo grado), ha puntualmente riscontrato le richieste contenute nel menzionato questionario. In data 15 ottobre 2007 il COP ha inviato alla Società un ulteriore questionario riguardante alcune delle istanze di rimborso e, più precisamente, le istanze (pari a n. 17) a cui il predetto Ufficio aveva già dato seguito provvedendo al rimborso delle somme richieste. La Società ha analiticamente risposto anche a tale secondo questionario con comunicazione del 26 febbraio 2008.

L’Ufficio ritenendo che la società destinataria non aveva prodotto idonea documentazione probatoria atta a contrastare le contestazioni, notificava un provvedimento di diniego parziale con cui veniva accertata la non spettanza di ? 28.153.109,68 e la spettanza di crediti d’imposta pari ad ? 3.303.020,89 (relativi ai dividendi conseguiti con effettivi investimenti e rimborsati). La Società ha impugnato il menzionato provvedimento di diniego parziale di rimborso dinanzi la competente Commissione Tributaria Provinciale eccependone l’illegittimità e chiedendo, in via principale, l’annullamento con conseguente condanna dell’Ufficio a rimborsare l’ammontare dei crediti d’imposta ritenuti non spettanti (pari ad Euro 1.729.858,37) oltre i relativi interessi e, in subordine, la rimessione delle questioni pregiudiziali alla CGUE in relazione alle prospettate violazione delle rilevanti disposizioni comunitarie. L’Ufficio si è costituito in giudizio chiedendo il rigetto dell’impugnativa e ribadendo la fondatezza del diniego opposto alle istanze di rimborso. La Società, al fine di ulteriormente corroborare la spettanza del diritto al rimborso oggetto di diniego, con nota del 26 aprile 2011 ha depositato la seguente documentazione: i rapporti annuali relativi agli anni 1996-2003 da cui emerge, tra l’altro, che la maggioranza del capitale sociale della Società è posseduto da soggetti residenti in Francia; i verbali di assemblea da cui risultano le operazioni straordinarie e i cambi di denominazione sociale che hanno interessato la Società nelle more del procedimento amministrativo ; le visure camerali di ciascuna delle controparti inglesi o francesi che risultavano comunque legittimate al rimborso del credito d’imposta; un dettaglio delle singole transazioni che hanno dato origine alle istanze di rimborso con specifica indicazione delle controparti delle transazioni; (E) copia della risposta al questionario sopra menzionato. La Commissione Tributaria Provinciale, con sentenza n. 148/4/2011, ha rigettato il ricorso della Società in base alla mera considerazione che “dalla media ponderata elaborata mercé dette analitiche attività di accertamento il Centro Operativo ha legittimamente escluso i “picchi” ascrivibili agli acquisti di azioni attraverso il meccanismo del prestito titoli, immediatamente restituiti al vero proprietario; in guisa che non può non ravvisarsi, quantomeno ai fini fiscali, la nullità dei contratti per difetto di causa dell’attività di treaty shopping finalizzata al prestito titoli”.

La Commissione Tributaria Regionale, con sentenza n. 757/6/2014, ha accolto il gravame proposto dalla Società riconoscendole, per l’effetto, il diritto al rimborso delle somme richieste L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione avverso la decisione rassegnata dai giudici di appello ha denunciato la illegittimità della sentenza impugnata per non aver compiutamente considerato che la Società, attraverso l’attività di arbitraggio fiscale estero su estero secondo schemi di dividend washing prevalentemente a mezzo di operazioni di stock loan o securities lending aveva posto in essere una condotta abusiva. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11647/19, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha cassato la decisione impugnata, rinviando alla Commissione Tributaria Regionale, in diversa composizione, la decisione nel merito della controversia. La Suprema Corte, richiamando un precedente orientamento giurisprudenziale, ha in primo luogo statuito che “… in tema d’imposte sui dividendi azionari, ai sensi dell’art. 10, par. 5, della Convenzione tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, … una società inglese che intende beneficiare del credito di imposta sulle cedole riscosse da una società residente in Italia ha l’onere di provare su richiesta dell’autorità competente, di 14 avere acquistato la partecipazione azionaria nell’ambito della sua normale attività e, pertanto, che l’operazione non aveva quale specifica finalità il conseguimento del detto credito di imposta”. La Corte di Cassazione, con specifico riferimento alla Convenzione Italia Francia, ha poi statuito che “…il diritto al credito di imposta sancito dall’art. 10, paragrafi 2 e 4, della Convenzione … presuppone la duplice dimostrazione che la società … che riceve i dividendi ne sia “la effettiva beneficiaria” e che la società che “riceve i dividendi ed il credito di imposta sia a tale titolo soggetta all’imposta …”, gravandone il corrispondente onere probatorio – che investe gli elementi costitutivi del diritto del contribuente beneficiario dei dividendi a non subire una seconda tassazione della stessa ricchezza già tassata in capo alla società, e di conseguire il rimborso di quanto indebitamente pagato – sulla società che abbia percepito i predetti dividendi…”. I giudici di legittimità, con specifico riguardo alle questioni oggetto di giudizio, hanno peraltro precisato che “… in ipotesi di contenzioso sorto a seguito di diniego di rimborso, è il soggetto che chiede il rimborso a dovere dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti del diritto fatto valere e, dall’altra parte, l’Amministrazione finanziaria può difendersi “a tutto campo”.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha affermato che “… il giudice di appello, nel ritenere che “gli elementi offerti dall’Amministrazione andavano provati non in generale ma in relazione a ciascuna delle operazioni contestate” ha erroneamente trasferito in capo all’Erario un onere probatorio che, invece, ai sensi della stessa Convenzione invocata grava sulla società estera che intenda avvalersi del credito di imposta …” precisando, quanto all’onere probatorio incombente sulla Società, che “… al fine di ottenere il chiesto credito di imposta, costituisce requisito imprescindibile la dimostrazione di essere “l’effettivo beneficiario” dei dividendi …”.

Nel concludere detti giudici hanno poi affermato che “… Applicando tali principi alla fattispecie, emerge … evidente, l’errore in diritto del Giudice di appello nel negare, a fronte dell’onere probatorio gravante sul richiedente il rimborso, ogni valenza probatoria agli elementi presuntivi forniti dall’Ufficio. Altrettanto evidente è poi l’omesso esame, da parte della C.T.R., dei fatti decisivi portati al suo esame da parte dell’Agenzia delle entrate … tutti decisivi al fine dell’accertamento dell’effettività della qualità di beneficiario del richiedente il rimborso”.

La Suprema Corte, sulla base di quanto poc’anzi richiamato, ha cassato la sentenza impugnata disponendo “… il rinvio al giudice di merito affinché proceda al riesame adeguandosi ai superiori principi e fornendo congrua motivazione…”. La società ha riassunto il giudizio richiamando i principi di diritto dettati dal Supremo Collegio che non contrasterebbero le censure alla sentenza di primo grado reiterando le argomentazioni a sostegno della legittimità e della fondatezza della istanza di rimborso. Deduceva di avere assolto ampiamente all’onere della prova, come indicato dalla Suprema Corte, di aver dimostrato la qualifica di beneficiario effettivo e che nel caso non era ravvisabile un abuso del diritto. L’Ufficio ha contrastato tale ricostruzione ritenendo che la sentenza della CTP doveva essere confermata perché in linea con i principi di diritto indicati dalla Corte di Cassazione ed in assenza di assolvimento dell’onere probatorio da parte del contribuente.

Questo Collegio ritiene di dover respingere l’appello della società facendo corretta applicazione dei principi di diritto indicati nella sentenza della Cassazione resa inter-partes e riscontrarne la verifica fattuale. La Suprema Corte ha indicato al giudicante: – la verifica della prova per ciascuna operazione e la legittimità della prova basata sul metodo statistico matematico per stabilire il rapporto percentuale dei titoli posseduti; – la prova dell’acquisto di partecipazione azionare nell’ambito della normale attività; -l’accertamento del beneficiario effettivo e della corretta applicazione dell’art. 10 della Convenzione Italia/Francia contro le doppie imposizioni. L’appellante assume che la documentazione versata in atti costituisca una prova sufficiente per dimostrare che l’acquisto delle partecipazioni azionarie si era concretizzata nella normale attività della società e non era stata finalizzata al conseguimento del credito di imposta. Tale prospettazione risulta contrastata dalla chiara affermazione giurisprudenziale della Corte di legittimità secondo cui l’onere della prova grava sul richiedente il rimborso e deve riguardare “tutti” i presupposti previsti dalla normativa e trova applicazione anche nelle presunzioni fiscali a cui l’Ufficio può far riferimento.

In particolare, la Corte ha affermato chiaramente che nel caso in esame l’Ufficio ha legittimamente utilizzato il metodo statistico matematico per stabilire il rapporto percentuale dei titoli posseduti e ricostruire la tempistica per accertare l’esistenza dell’abuso del diritto. Quindi, l’Ufficio ha provveduto correttamente a verificare la giacenza media mensile delle azioni presenti sui conti titoli che rappresenta l’effettivo investimento eseguito nel mercato italiano e, di conseguenza, ha ritenuto spettante il credito d’imposta solo sui relativi dividendi distribuiti. L’Ufficio ha esplicitato le modalità operative di trading che hanno supportato le presunzioni con l’applicazione del calcolo con metodo statico matematico e che la ricostruzione delle operazioni sotto il profilo temporale (date di negoziazione, date di regolamento, picchi, stacco dividendi e giacenze) non è stato confutato dal contribuente, che ne ha fornito solo una differente interpretazione con giustificazioni riferibili ad esigenze commerciali. Inoltre, l’onere della prova spettante al contribuente doveva essere rispettato non in generale, ma in relazione a ciascuna delle operazioni contestate e ai sensi della stessa Convenzione invocata grava sulla società estera che intenda avvalersi del credito di imposta (cfr. Cass. n. 18397/2018 cit.).

D’altra parte, questo Collegio non ravvisa elementi sufficienti per discostarsi dall’orientamento espresso in materia con la sentenza CTR Abruzzo n. 668/06/2019, depositata in data 11/07/2019. Invero, la Convenzione esclude il diritto al rimborso non solo quando esso costituisca il solo fine dell’operazione, ma anche quando costituisca uno soltanto di tali fini. Infatti, nel caso, deve ritenersi che la società non abbia fornito la prova della motivazione economica sottesa a ciascuna delle operazioni di acquisto e di rivendita delle azioni in relazione alle quali ha chiesto il rimborso dell’imposta, essendo a tale fine inconcludente il generico richiamo alla propria normale attività economica istituzionale non ravvisabile nel caso esaminato. Su tale punto, non basta descrivere, sotto il profilo formale, le operazioni e dedurre che erano corroborate da idonea documentazione e che erano state negoziate da un soggetto terzo, perché si trattava di operazioni per le quali era stato pagato il prezzo di vendita e di riacquisto e che erano ripassate con società non appartenenti al medesimo gruppo. Si può riconoscere che non si tratta di vendite simulate, odi meri prestiti. ma ciò non è sufficiente a dimostrare, in positivo, quali fossero le ragioni economiche sottese alle singole operazioni, diverse dal mero conseguimento del credito d’imposta. In proposito, proprio per il principio presuntivo utilizzato dall’Ufficio, come legittimato dalla Suprema Corte in sede di rinvio, da applicare al caso in esame, va evidenziato che i picchi di azioni possedute, a cavallo del pagamento del dividendo, non si possono spiegare con la normale attività svolta da una banca d’affari, anche perché è rimasta allo stato di mera allegazione difensiva l’affermazione secondo la quale l’acquisto di azioni, e la loro rivendita dopo il conseguimento del dividendo, è operazione sempre positiva per chi la esegue, posto che l’ammontare del dividendo è superiore al fisiologico ridimensionamento del valore dell’azione dopo che il dividendo è stato pagato. Per cui, i picchi di acquisti, avvenuti in concomitanza col pagamento del dividendi, possono essere spiegati solo col fatto che da quelle operazioni il contribuente sperava di trarre l’ulteriore beneficio del rimborso dell’imposta, che è negato agli investitori esteri che hanno sede in Paesi diversi dal Regno Unito (e dalla Francia, con la quale l’Italia ha concluso una Convenzione piuttosto simile), e che perciò rendeva l’investimento vantaggioso solo per i soggetti che si trovavano in quella particolare posizione.

Dalla documentazione prodotta dalla Società è emerso che “sui conti di C. … è “entrato” con l’approssimarsi della data di stacco del dividendo, un ingente quantitativo di azioni, poi “uscito” nel periodo immediatamente successivo allo stacco del dividendo con le medesime modalità”. Queste operazioni possono ritenersi riconducibili ad “acquisizioni e dismissioni di titoli ove l’effetto traslativo della proprietà non si realizza, quali quelli di stock loan o analoghe fattispecie” e, come tali, non possono attribuire il diritto al rimborso del credito d’imposta in quanto “da assimilare ad operazioni eseguite con mere finalità fiscali”. In sostanza, deve ritenersi che quelle operazioni avevano il precipuo fine di lucrare il credito d’imposta previsto dalla convenzione e giustamente l’Ufficio ha negato il rimborso sulle istanze Dunque, la documentazione versata in atti costituisce certamente una dimostrazione solo formale, come di regola accade in materia di abuso del diritto, circa l’attività svolta, ma non contrasta le argomentazioni di carattere sostanziale e probatorio prospettate dall’Ufficio, secondo cui le modalità di svolgimento delle operazioni non rientravano nella normale attività bancaria in quanto si evidenziavano elementi sufficienti a contrastare le istanze di rimborso perché riferibili ad attività finalizzata ad ottenere il risparmio di imposta.

Deve ribadirsi la necessità di far riferimento, come affermato dalla Cassazione (sent.. n. 10792/2016) ad una nozione sostanzialistica e non meramente formalistica, anche per individuare” il beneficiario effettivo”, che non può coincidere con quello più ampio di soggetto che, residente all’estero e ivi soggetto a imposizione, riceve i dividendi, ma richiede un quid pluris, rappresentato dall’essere tale soggetto anche colui che ha la effettiva disponibilità giuridica ed economica”.

La prova di tale quid pluris non è stata fornita da controparte. In sostanza, il diritto al rimborso è subordinato alla circostanza della individuazione del beneficiario effettivo al fine di evitare gli abusi dei trattati (Convenzioni) fiscali internazionale attraverso pratiche di treaty shopping (e Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, del 26/02/2019, cause riunite C-116/16 e C-117/16). Per ottenere il riconoscimento del diritto al rimborso, nei casi in cui si realizzi della doppia imposizione, pertanto, è necessario che si verifichi, in concreto, una effettiva incisione sul medesimo patrimonio, in Italia e nello Stato estero, che va provato dal ricorrente, non potendo assumere rilievo un assoggettamento meramente astratto o potenziale, ma non effettivo.

Tale prova non è stata fornita, ragion per cui è evidente che non vi è stata doppia imposizione. Di conseguenza in questo giudizio, in applicazione del principio di diritto indicato dalla Cassazione di rinvio, non hanno trovato riscontro nessuno dei comportamenti tenuti dal contribuente:

– non si ravvisa la partecipazione azionaria nell’ambito della normale attività bancaria e mentre risulta utilizzata una metodica operativa che aveva quale specifica finalità il conseguimento del credito di imposta”;

– non si ravvisano neppure gli altri presupposti della duplice dimostrazione che la società … che riceve i dividendi ne sia “la effettiva beneficiaria” e che la società che “riceve i dividendi ed il credito di imposta sia a tale titolo soggetta all’imposta …”, dovendo trovare applicazione “…il diritto al credito di imposta sancito dall’art. 10, paragrafi 2 e 4, della Convenzione … con la espressa specificazione che il corrispondente onere probatorio è posto a carico del contribuente che chiede il rimborso di quanto indebitamente pagato.

D’altra parte, l’Agenzia delle entrate ha evidenziato specificamente, l’irrilevanza delle autocertificazioni tendenti a dimostrare la residenza in Francia o nel Regno Unito di alcune società e di istituti di credito che avrebbero ordinato le transazioni oggetto di rilievo a fronte del fatto, contestato, che le principali transazioni erano avvenute con uffici londinesi di soggetti che in origine non avrebbero avuto diritto al credito di imposta. Quindi, i soggetti residenti nel Regno Unito, in Francia o in Italia che hanno negoziato lo scambio dei titoli erano dei semplici intermediari ovvero dei brokers, agenti per conto di altre Banche di affari residenti in Paesi extra Europei. In conclusione, a seguito della applicazione dei principi di diritto stabiliti inter-partes dalla Corte di Cassazione nel caso in discussione:

– risulta corretta l’utilizzazione del metodo statistico matematico; – – devono ritenersi non sufficienti le autocertificazioni in fotocopia;

– il riferimento agli intermediari cioè a soggetti che in origine non avrebbero avuto diritto al credito di imposta, comporta la mancanza di prova e di riscontro della corretta individuazione dell’effettivo beneficiario, non ravvisandosi una condizione di doppia imposizione.

Da tali emergenze processuali può affermarsi che le operazioni realizzate sono riconducibili ad uno scopo di abuso della Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni posto che l’Ufficio ha fornito elementi presuntivi attendibili e dotati di piena valenza probatoria. Pertanto, questo Collegio respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata. Le spese vanno compensate per i gradi di merito, in relazione alla controvertibilità della materia ed ai contrasti interpretativi in materia di presunzioni, anche alla luce della novellata normativa in materia di onere della prova. Invece, la vittoria intermedia dell’Ufficio avanti la corte di legittimità, contrastata dalla controparte, su principi fondati con richiami alla giurisprudenza costante, impone di liquidare le relative spese sostenute e che vengono quantificate come in dispositivo a favore dell’Ufficio medesimo.

PQM

respinge l’appello, compensa le spese dei gradi di merito; Condanna la società contribuente a rifondere le spese per la fase di legittimità che si liquidano in ? 10.000,00.