La Corte di Cassazione sezione lavoro con la sentenza n. 23949 depositata il 22 ottobre 2013 intervenendo in materia di mobbing ha statuito che la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico per essere qualificata come mobbing deve essere sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con l’effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità ed inoltre che può procedersi alla risarcibilità degli ulteriori danni maturati nel corso del processo, ma deve trattarsi di conseguenze risarcitorie dipendenti dall’unico fatto dedotto con il ricorso introduttivo.
La vicenda ha riguardato un dipendente del Ministero che aveva proposto domanda, inanzi al Tribunale, diretta ad ottenere l’accertamento che gli atti e i comportamenti adottati nei suoi confronti dal Ministero per i beni culturali e ambientali – dopo che il Tar Lazio aveva annullato gli atti con i quali la ricorrente era stata trasferita – avevano avuto lo scopo di eludere gli effetti della sopra citata sentenza del giudice amministrativo e caratterizzandosi per un intento persecutorio e punitivo nei suoi confronti.
Il Tribunale adito aveva rigettato la domanda del dipendente che ricorreva alla Corte di Appello. I giudici della corte territoriale confermavano la sentenza del giudice di prime cure. In particolare i giudici di appello avevano ritenuto che le vicende intervenute nel corso del rapporto non evidenziavano l’esistenza di un intento persecutorio da parte dell’Amministrazione, ma piuttosto l’esistenza di una situazione di conflitto tra le parti, determinata anche da una diversa interpretazione dei diritti e degli obblighi derivanti dai provvedimenti del giudice amministrativo.
Avverso la decisione di secondo grado, il dipendente, propone ricorso per la assazione della sentenza inanzi alla Corte Suprema, affidandosi a due motivi di censura.
La Corte ha ritenuto essenziale provare la condotta persecutoria del datore di lavoro, e soprattutto, affinché venga risarcito il danno patito, i fatti successivi all’evento iniziale devono sempre essere ricondotti alla domanda principale del giudizio.
Gli Ermellini nel ritenere i motivi infondati e quindi rigettando il ricorso hanno affermato che “la domanda giudiziale di risarcimento del danno si fonda su di una causa petendi identificabile in uno specifico accadimento lesivo spazialmente e temporalmente determinato, sicché, una volta che essa sia stata proposta in relazione a determinati fatti, il riferimento all’eventualità che nelle more del giudizio abbiano a verificarsi nuovi accadimenti (siano pur essi omogenei rispetto ai precedenti), suscettibili di ledere ancora la situazione giuridica protetta e di cagionare cosi una ulteriore ragione di danni, non introduce alcuna valida domanda, né, una volta che tali fatti si siano verificati, può legittimare alla sua proposizione nel corso del giudizio.”
Per cui, per i giudici della Corte Suprema, non è possibile, come nel caso di specie, formulare in appello domande nuove per ottenere il risarcimento del danno per fatti diversi rispetto a quelli contestati in primo grado; occorre, al contrario, incardinare un nuovo giudizio. E’ quindi inammissibile la domanda, rispetto a quella originariamente proposta al primo giudice del merito, fondata su circostanze non comparse in primo grado e sulle quali non si è validamente costituito contraddittorio. Nè tali domande possono essere introdotte ex novo in corso di causa, posta l’operatività delle preclusioni di cui all’art. 167 codice di procedura civile.
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