La Corte Costituzionale con la sentenza n. 22 depositata il 22 febbraio 2024, chiamata a verificare la costituzionalità, in base all’articolo 76 della costituzione della parola “espressamente”, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alla parola «espressamente». Si ricorda che tale norma introdotta dal c.d. Jobs Act che ha previsto per i contratti di lavoro dipendenti, stipulati dal 7 marzo 2015, la forma a tutele crescenti.

La Corte è giunta a tale decisione sulle seguenti considerazioni “… la questione oggetto di scrutinio investe l’avverbio «espressamente», contenuto nella disposizione censurata e non già nel criterio direttivo della legge di delega, e la sua funzione selettiva rispetto alle nullità cui troverebbe applicazione la disciplina della reintegrazione. La Corte rimettente parte dal presupposto interpretativo che tale inserimento escluda dall’ambito applicativo della norma censurata tutte le ipotesi in cui, pur ricorrendo la violazione di una norma imperativa, la nullità non sia testualmente prevista come conseguenza della stessa.

Tale interpretazione va condivisa: il carattere espresso della nullità non può significare altro che la disposizione che sancisce – o dalla quale può farsi derivare – un divieto di licenziamento deve anche prevedere, come conseguenza della sua violazione, la sanzione della nullità; ciò che avviene nelle ipotesi del licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti di licenziamento in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ma non in una serie di altre ipotesi in cui opera solo la violazione del divieto posto da una norma imperativa ex art. 1418, primo comma, cod. civ., in assenza dell’espressa previsione della nullità. Il licenziamento resta nullo, ma non è soggetto alla tutela reintegratoria dell’art. 2, comma 1, censurato dal giudice a quo. 

In giurisprudenza (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 marzo 2022, n. 8472) e in dottrina si distingue tra nullità testuali (quelle che prevedono espressamente la sanzione della nullità, quale conseguenza della violazione di una norma imperativa) e nullità virtuali (quelle che, pur in mancanza di tal espressa previsione, derivano comunque dalla contrarietà a norme imperative ai sensi del primo comma dell’art. 1418 cod. civ. «salvo che la legge disponga diversamente»). Queste ultime richiedono all’interprete di accertare se il legislatore, con la prescrizione di norme imperative, abbia anche inteso far discendere, dalla contrarietà dell’atto negoziale ad esse, la sua nullità.

In questo sistema di nullità, testuali e virtuali, si iscrive la disposizione censurata, nella quale quindi l’avverbio “espressamente” assume un peso particolare perché svolge una funzione selettiva di limitazione alle nullità testuali con esclusione di quelle virtuali.

Del resto, una diversa lettura della norma in senso inclusivo di tutte le nullità previste dalla legge, pur sostenuta da una parte della dottrina, renderebbe inutiliter datum l’avverbio “espressamente”; si tratterebbe di un’inammissibile interpretatio abrogans. …”

Per i giudici costituzionali “… Il criterio direttivo, nella parte che rileva ai fini della presente questione, segna i confini della tutela reintegratoria del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo delineando, in negativo, un ambito di esclusione, che vede la tutela solo indennitaria per i licenziamenti economici che risultino illegittimi, e, in positivo, uno di inclusione, riservato distintamente ai licenziamenti nulli e discriminatori e ad alcune specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.

[…]

i limiti della delegazione legislativa, la cui possibilità è sì prevista in Costituzione, ma come deroga del canone opposto secondo cui, in generale, «[l]’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo» (art. 76) e «[i]l Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria» (art. 77, primo comma); ciò in coerenza con il precetto costituzionale che assegna alle due Camere, collettivamente, l’esercizio della funzione legislativa (art. 70) e con il tradizionale principio della separazione dei poteri (principio “ordinamentale”: sentenza n. 98 del 2023).

Ma le Camere stesse, nel rispetto della procedura normale di esame e approvazione diretta (art. 72, quarto comma, Cost.), possono prevedere una delegazione legislativa entro limiti ben precisi: per un «tempo limitato» e sempre che ricorrano due condizioni: a) devono essere determinati i «princìpi e criteri direttivi»; b) devono essere definiti gli «oggetti» (art. 76 Cost.).

[…]

In questi casi i principi e criteri direttivi della legge di delega tracciano gli obiettivi ed esprimono le linee di fondo delle scelte del legislatore delegante. Ampi quindi sono il potere e l’«attività di “riempimento” normativo» conferiti al legislatore delegato (sentenza n. 166 del 2023). Ricorrente è l’affermazione, nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo» (sentenze n. 133 del 2021 e n. 212 del 2018).

Ampia è spesso anche la delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi al fine di adeguare il quadro normativo nazionale alle disposizioni europee (sentenza n. 260 del 2021).

Ma, all’opposto, la legge di delega può contenere principi e criteri direttivi molto puntuali e specifici, di tal che il potere di riempimento del legislatore delegato si riduce notevolmente fino talora a restringersi quasi ad un’opera di sostanziale trasposizione, in disposizioni di legge, di regole già contenute nella legge di delega (come nella fattispecie di cui alla sentenza n. 166 del 2023, che ha affermato che la legge di delega può anche contenere una «norma compiuta, integrativa non più, e non solo, di un principio o criterio direttivo, ma di una vera e propria regula iuris [che] nella sua portata vale a ridurre, in modo corrispondente, i margini di discrezionalità ed il cosiddetto potere di riempimento del legislatore delegato»).

Parimenti la verifica che la normativa delegata si sia contenuta nel limite degli «oggetti» fissati dalla legge di delega dipende dal grado, più o meno circoscritto, della loro definizione, che potrebbe anche essere assai puntuale.

In tali evenienze lo scrutinio di questa Corte, nel verificare la conformità ai «principi e criteri direttivi» e il rispetto dei limiti degli «oggetti» della delega, è molto stretto.

In definitiva, la delega legislativa «può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega» (sentenza n. 142 del 2020; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 170 del 2019; n. 198 e n. 182 del 2018).

[…]

Tenendo conto, quindi, del grado di specificità dei principi e criteri direttivi e della maggiore o minore ampiezza dell’oggetto della delega, la loro interpretazione deve muovere, innanzi tutto, dalla “lettera” del testo normativo, a cui si affianca l’interpretazione sistematica sulla base della ratio legis, che è quella che emerge dal contesto complessivo della legge di delega e dalle finalità che essa persegue (sentenza n. 7 del 2024).

Il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge di delega va, infatti, operato partendo dal dato letterale per poi procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se l’attività del legislatore delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge di delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016; n. 146 e n. 98 del 2015; n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016).

È infatti costante l’affermazione secondo cui «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i] margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente» (sentenza n. 153 del 2014 e, nello stesso senso, tra le altre, sentenze n. 175 del 2022; n. 231 e n. 174 del 2021; n. 184 del 2013; n. 272 del 2012 e n. 230 del 2010; inoltre, con riferimento alla materia penale, sentenza n. 105 del 2022).

Tra l’elemento letterale e quello funzionale-teleologico esiste un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco è il primo, più rilevante risulta il secondo.

La verifica di conformità della norma delegata a quella delegante richiede lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico che, condotto in parallelo, tocca, da una parte, la legge di delegazione e, dall’altra, le disposizioni emanate dal legislatore delegato, da interpretare nel significato compatibile con la delega stessa.

In sintesi, per definire il contenuto di questa, si deve tenere conto del complessivo contesto normativo in cui si inseriscono i principi e criteri direttivi della legge di delega e delle finalità che la ispirano; ciò che non solo rappresenta la base e il limite delle norme delegate, ma offre anche criteri di interpretazione della loro portata (ex plurimis, sentenze n. 166 del 2023; n. 133 del 2021; n. 84 del 2017; n. 250 del 2016; n. 194 del 2015 e n. 153 del 2014).

(…) Ed allora, muovendo innanzi tutto dall’interpretazione della legge di delega, rileva che nella “lettera” dell’indicato criterio direttivo manchi del tutto la distinzione tra nullità «espressamente» previste e nullità conseguenti sì alla violazione di norme imperative, ma senza l’espressa loro previsione come conseguenza di tale violazione. Il prescritto mantenimento del diritto alla reintegrazione è contemplato per i «licenziamenti nulli» tout court, laddove una eventuale distinzione, inedita – come si è visto sopra nel richiamare il quadro normativo di riferimento – rispetto alla disciplina previgente dei licenziamenti individuali, avrebbe richiesto una previsione (questa sì) espressa.

(…)

Al contrario, il legislatore delegato, con la limitazione dell’ambito applicativo dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ai licenziamenti per i quali la nullità è espressamente prevista, ha dettato una disciplina la cui incompletezza conferma la sua incoerenza rispetto al disegno del legislatore delegante.

Sono rimasti privi di regime sanzionatorio le fattispecie di licenziamenti nulli privi della espressa (e testuale) previsione della nullità, i quali per un verso, non avendo natura “economica”, non possono rientrare tra quelli per i quali la reintegra può essere esclusa, ma, per altro verso, in ragione della disposizione censurata, non appartengono a quelli per i quali questa tutela va mantenuta, senza che ad essi possa alternativamente applicarsi la tutela indennitaria, di cui al successivo art. 3, che riguarda le diverse fattispecie dei licenziamenti privi di giustificato motivo, soggettivo e oggettivo, o dell’art. 4, che opera in relazione ai soli vizi formali e procedurali riconducibili al requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma secondo, della legge n. 604 del 1966 o alla procedura di cui all’art. 7 statuto lavoratori.

Secondo il criterio direttivo, il legislatore delegato non poteva procedere ad alcuna “specificazione” nell’ambito della fattispecie del licenziamento nullo. …”

In definitiva per la Corte Costituzionale “… il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque «salvo che la legge disponga diversamente». Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

(…)  Va, infine, ribadito che «[s]petta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari» (sentenza n. 150 del 2020). …”