La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 1476 depositata il 15 gennaio 2024, intervenendo in tema di licenziamento individuale per giusta causa ha ribadito il principio di diritto secondo cui “… in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi appunto valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (Cass. 11806/1997; Cass. n. 19684/2014) …”

La vicenda ha riguardato un lavoratore, con mansioni di cuoco, di una casa di cura a cui era stato comunicato il licenziamento per avere portato via, in una borsa di plastica e senza alcuna autorizzazione, all’esterno del locale dove svolgeva il proprio turno di lavoro, generi alimentari di proprietà della datrice di lavoro, di cui si era appropriato illegittimamente e in modo reiterato. Il provvedimento di recesso era stato preceduto da altro similare, poi revocato dalla stessa Casa di Cura, per vizi procedurali. Avverso tale provvedimento di espulsione il lavoratore adiva al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro. I giudici di prime cure respinsero l’impugnativa del licenziamento. Il lavoratore propose appello avverso la decisione del Tribunale. I giudici di appello confermarono la pronuncia impugnata. Il dipendente avverso la sentenza di appello propose ricorso in cassazione fondato su due motivi.

Gli Ermellini rigettano il ricorso. 

I giudici di piazza Cavour hanno ribadito il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012)  secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

(…)

In tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità – Cass. n. 26010/2018 “

Inoltre il Supremo consesso, in ordine alla doglianza della violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970, ha ribadito l’orientamento “…  (per tutte, Cass. n. 7493/2011, già richiamato dalla Corte territoriale, e Cass. n. 23510/2017) secondo cui, ai sensi dell’art. 7, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, 3 n. 300, in caso di irrogazione di licenziamento disciplinare, il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore, a seguito di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell’incontro limitandosi ad addurre una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare, poiché l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. …”