La Suprema Corte ed i giudici di merito sono intervenuti con varie sentenze sulla determinazione delle spese processuali a carico della parte soccombente qualora l’Amministrazione finanziaria si è difesa con propri funzionari.
Occorre evidenziare che l’orientamento che esclude la condanna alla refusione degli onorari e diritti se l’Agenzia delle Entrate o altre amministrazioni finanziare risulta essere minoritaria.
Incostituzionalità del comma 2-sexies dell’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992
La norma di cui al comma 2-sexies risulta chiaramente incostituzionale nella parte in cui dispone che «nella liquidazione delle spese a favore dell’ente impositore, dell’agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.»
In particolare l’incostituzionalità riguarda il periodo che stabilisce “… se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell’importo complessivo ivi previsto. …”
In ordine alla irripetibilità delle spese per diritti ed onorario a favore della pubblica amministrazione numerose pronunce univoche della Cassazione hanno confermato che quando la stessa sta in giudizio a mezzo di proprio funzionario, spetta unicamente il rimborso delle spese vive, con esclusione delle competenze e degli onorari di procuratore di avvocato (vedi, Cassazione n. 1445/1994, n. 6454/1988, n. 4610/1987).
Ciò in quanto difettano le relative qualità nel funzionario amministrativo che sta in giudizio (vedi Cassazione, 2ª Sezione civile, n. 11389 del 24 maggio 2011, Pres. Settimy, Rel. Petitti; Cassazione, Sez. 2, n. 30597 del 20 dicembre 2017).
Questo, poiché l’articolo 33 della Carta Costituzionale prevede che l’esercizio della professione di avvocato, libera o dipendente che sia, come qualsiasi altra legalizzata, ed il diritto ai compensi tariffari relativi non possono prescindere dal possesso del titolo accademico specifico e dell’abilitazione professionale corrispondente, conseguita all’esito di un esame di Stato.
Pertanto se non può pretendere, colui che non è avvocato abilitato né il compenso né tantomeno un surrogato non si vede come possa farlo altri per lui.
La circostanza che una delle parte stia in giudizio personalmente, rinunciano per scelta all’assistenza di un legale o altro soggetto abilitato, significa che non sostiene alcun costo per il compenso all’avvocato per cui risulta anomalo ed una contraddizione in termini la richiesta del compenso di avvocato.
Alla Corte costituzionale è già stata sottoposta due volte la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992, ma in entrambi i casi non ha potuto esaminarla e risolverla nel merito, per riconosciuti rilievi di inammissibilità. (n. 292 dell’8 ottobre 2010 ed ordinanza n. 170 del 15 luglio 2022). In particolare, l’ordinanza n. 170/2022 è stata ritenuta inammissibile per l’ipoteticità della rilevanza in quanto il tenore testuale dell’ordinanza di rimessione lascia presumere che la parte ricorrente sia destinata a risultare vittoriosa nel processo a quo, con la conseguente inapplicabilità della norma censurata. Pertanto, la rilevanza delle questioni sottoposte all’esame della Corte risultano solo ipotetiche e virtuali, ciò che ne ha determinato la manifesta inammissibilità (ex plurimis, ordinanze n. 46 e n. 34 del 2016);
Nel mentre si è andato formandosi un orientamento della Corte di Cassazione, rompendo il precedente, che ha affermato la linea della inammissibilità, anche nel processo tributario, delle spese processuali, per diritti di procuratore ed onorario di avvocato, in favore degli enti impositori o agenti della riscossione costituiti in giudizio a mezzo di propri funzionari, in virtù della solita, inossidabile argomentazione: difettando nei funzionari le relative qualità di procuratore e di avvocato. (n. 27444/2020 e n. 9900/2021)
L’altro orientamento, che ammette la ripetibilità delle spese processuali relativi ai compensi e diritti a favore della pubblica amministrazione se sta in giudizio con propri funzionari, della Cassazione trova il suo corollario nell’ordinanza n. 20590 del 19 luglio 2021. Gli Ermellini in tale ordinanza per giustificare la ripetibilità delle spese processuali si affidano alle seguenti argomentazioni:
1) l’art. 15 del decreto legislativo n. 546/1992 avrebbe previsto da sempre la ripetibilità delle spese;
2) il processo tributario avrebbe propria autonomia;
3) la gestione del processo tributario richiederebbe una particolare competenza;
4) la Corte costituzionale, con ordinanza n. 117 del 1999, avrebbe ritenuto la questione di incostituzionalità non fondata.
In ordine al punto n. 1, preme evidenziare la non esattezza dell’affermazione che l’art. 15 avrebbe da sempre previsto la condanna del ricorrente soccombente alla refusione delle spese processuali, in quanto tale possibilità é stata introdotta espressamente soltanto a partire dal decreto-legge n. 437 del 1996. In oltre la vetustà operativa di una norma non é di per sé garanzia di legittimità.
In merito al punto n. 2, é vero che il processo tributario ha una propria autonomia, ma é altrettanto vero che anch’esso, per quanto autonomo, deve avere una logica e francamente non si comprende in nome di quale logica, a parità di situazioni processuali altrove riscontrabili, debba valere un regime diverso.
Sul punto n. 3 é altrettanto corretto che la materia tributaria richiede una specifica competenza. La suddetta competenza, però, è la stessa competenza richiesta ai funzionari quando questi si trovano a svolgere attività interna di accertamento o di riscossione. Per cui non si comprende perché i funzionari dovrebbero ritenersi meno competenti quando accertano ed impongono il tributo e più competenti quando sono semplicemente chiamati a rendere conto del loro operato in giudizio;
Tale attività viene svolta all’interno di un processo semplificato, come quello tributario, meramente documentale.
Alcuna ragione sembra giustificare la causa di questi diritti ed onorari di avvocato a favore di chi avvocato non é e che svolge funzioni non professionali in senso tecnico, ma inerenti al rapporto interno di lavoro subordinato e nell’adempimento di un dovere d’ufficio e/contrattuale.
Inoltre la norma prevede che il compenso sia totalmente incamerato dalla pubblica amministrazione di appartenenza, in virtù di un meccanismo che mal si concilia con il principio generale dell’ordinamento giuridico, che vieta di arricchirsi sine causa, consentendo di «incassare» compensi commisurati a tariffe forensi per il servizio d’istituto svolto da chi abilitato non é, senza che nemmeno sia richiesto che lo sia, e tutto ciò senza reale aggravio di spesa né per l’ente né per il funzionario.
Il principio generale è quello di ristorare la parte vittorioso delle spese di lite, quindi delle spese effettivamente sostenute. Per spese di lite è da intendersi le spese effettivamente sostenute. Cosi per la parte privata costretta all’assistenza tecnica va rimborsato, quando è vittoriosa, la parcella dell’avvocato o altro professionista, redatta in conformità alle rispettive tariffe professionali (si badi non a quelle previste degli avvocati proprio per il principio delle spese effettivamente sostenute) poiché tale è il costo effettivamente sostenuto dal contribuente. Diversamente, per la pubblica amministrazione, che sia rappresentata da propri dipendenti, non sostiene alcun costo, come per il contribuente quando può difendersi personalmente. Per cui non è dato sapere quali sono le spese di lite sostenute dalla pubblica amministrazione rispetto al contribuente che si difenda da solo.
A tal proposito si evidenzia che il comma 2-ter precisa che le spese di giudizio comprendono, se dovuti, a titolo di:
- contributo unificato tributario;
- onorari e diritti del difensore;
- spese generali;
- esborsi sostenuti;
- contributo previdenziale;
- imposta sul valore aggiunto.
In ultimo pur volendo ritenere, per assurdo, che all’amministrazione finanziaria vadano riconosciute le spese dei propri dipendenti, di certo non può essere utilizzato come parametro di riferimento quello degli onorari degli avvocati. Infatti il costo di detto personale è notevolmente inferiore agli onorari degli avvocati verificandosi in tal modo quell’ingiusto arricchimento vietato dal principio generale dell’ordinamento giuridico. Inoltre una tale considerazione violerebbe l’art. 3 della Costituzione a causa della disparità di trattamento tra contribuente e Pubblica amministrazione.
Inoltre, qualora il contribuente sia assistito da uno dei soggetti di cui al comma 4 dell’art. 12 le spese di lite vengono determinate non sulla base dei compensi e dei diritti degli avvocati ma dei commercialisti. Tale circostanza è giustificata proprio dal principio della ripetibilità delle spese effettivamente sostenute escludendo qualsiasi circostanza che possa generare un ingiusto arricchimento.
Infine per il punto n. 4 ha errato la Cassazione con l’ordinanza n. 20590/2021 nel ritenere che la Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 1999 abbia legittimato una diversità di regime a «sfavore» del ricorrente. Infatti la suddetta ordinanza confermava la non ripetibilità delle spese per diritti ed onorario, proprio quando la pubblica amministrazione sia rappresentata in giudizio da propri funzionari. Per il semplice motivo che non ci sarebbero diritti ed onorari da «rifondere».
Infatti si legge nell’ordinanza della Corte Costituzionale che “… d’altra parte, il richiamo all’altrettanto univoca giurisprudenza di questa Corte […] rende palesemente inidoneo il particolare meccanismo di liquidazione di diritti ed onorari, introdotto nel nuovo processo tributario (art. 15 del decreto legislativo n. 546 del 1992), a fungere da tertium comparationis onde verificare il denunciato vulnus al principio di uguaglianza; …”
Ebbene la Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 117 del 1999 aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 13 l.n.689/81 e 91 cpc, nella parte in cui non consentiva la liquidazione delle spese di lite in favore dell’amministrazione vittoriosa difesa da propri funzionari.
Pertanto si ritiene che il contenuto del comma 2-sexies dell’art. 15 del decreto legislativo n. 546/1992 sia contraria alla Costituzione in riferimento agli articoli 3, 24 e 33, inscindibilmente collegati tra di loro.
Il contrasto con l’art. 3 della Carta Costituzionale riguarda la violazione del principio di ragionevolezza, quale sinonimo di uguaglianza sostanziale, come codificato dalla giurisprudenza del giudice delle leggi.
Tale principio esige che le disposizioni normative siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore, per cui si ha violazione di esso, quando si riscontri una contraddizione interna alla norma oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito.
Nel sistema del processo tributario è previsto che, ai sensi dell’art. 11, commi 2 e 3 del D. Lgs. n. 546/1992, gli enti impositori ed agenti della riscossione possano stare in giudizio direttamente o rappresentati dall’Avvocatura dello Stato. Essi non possono rilasciare procura generale o speciale ad altri, a differenza del contribuente (anche se la Cassazione a SS.UU., sentenza n. 30008/2019 e sezione tributaria n. 31917/2022 n. 24245/2021, a stabilito la facoltà per l’AdR di poter conferire la procura all’Avvocatura o avvocato del libero foro). La Pubblica Amministrazione, diversamente dal contribuente, non é obbligata ad avvalersi di assistenza tecnica (art. 12, comma 1, del contenzioso), prescindendo dal valore della causa.
Per cui gli enti impositori e concessionari della riscossione possono e devono assumersi sino in fondo e direttamente la responsabilità del proprio operato, trattandosi di funzione pubblica non delegabile, senza obbligo di un difensore «esterno» abilitato, cioè di un libero professionista iscritto in apposito albo o dell’avvocatura pubblica, quando prevista.
Questo per evidenti ragioni di speditezza e di economia di spesa, non solo per la pubblica amministrazione, ma anche per lo stesso contribuente; inoltre, perché i funzionari interni delegati si presumono essere sufficientemente in possesso delle competenze tecniche del caso, essendo queste le medesime per le quali essi possono, in un primo tempo e con maggiore studio, accertare, imporre, riscuotere.
In sostanza il funzionario, nel momento in cui va a rappresentare l’ente di appartenenza dinanzi al giudice tributario, non fa altro che svolgere una attività rientrante nel proprio mansionario e nell’adempimento dei propri doveri d’ufficio o contrattuali, volta a dare conto dell’operato svolto.
Per cui non si comprende a quale titolo agli enti di appartenenza debbano essere riconosciuti, in caso di vittoria, diritti ed onorari di avvocato, semplicemente per l’attività di mansionario svolta da propri dipendenti; mentre quando il contribuente si difenda da sé, nei casi in cui non vi è obbligo di assistenza tecnica (art. 12, comma 2), non é previsto analogo trattamento a suo favore. Il che dà la cifra definitiva della irragionevolezza e disparità del sistema, a parità di situazioni.
Altro elemento di incostituzionalità, in relazione all’art. 3 della Costituzione, è la circostanza che imponendo per la liquidazione delle spese di lite l’applicazione “diretta” delle tariffe forensi, ingiustificatamente assimila situazioni obiettivamente disomogenee (cioè l’esercizio della professione di avvocato, da un lato, e l’attività defensionale svolta da un funzionario di una pubblica amministrazione, per il quale non è richiesto neppure uno specifico titolo di studio o abilitativo all’esercizio di una professione, dall’altro);
Infine, come precedentemente evidenziato, la norma in commento violerebbe l’art. 3 della Costituzione perché riserverebbe al processo tributario un trattamento ingiustificatamente diverso da quello stabilito, per il giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione, dall’art. 23, quarto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), il quale prevedrebbe che l’autorità che ha emesso l’ordinanza possa stare in giudizio personalmente, ma non anche la liquidazione in suo favore delle spese di lite (eccetto la rifusione delle «spese vive»);
Il diritto alla difesa, di cui all’art. 24 della Costituzione, del contribuente, con l’attuale regime, viene menomato qualora intenda difendersi da sé – di qui la violazione dell’art. 24 -, perché compromesso, compresso o condizionato dalla inevitabile messa in preventivo del rischio di dover sopportare spese processuali che, invece, controparte non corre, per lo meno nelle cause di valore più contenuto.
Per cui nei casi in cui si difendono da sé, ricorrente ed ente impositore non contendono ad armi pari: infatti, in caso di vittoria, al ricorrente, senza avvocato, non spetta nulla, mentre all’ente, senza avvocato, spettano diritti ed onorario di avvocato. Senza un avvocato!
Pertanto per il contribuente il meccanismo vigente, finisce per diventare, l’equivalente di una sanzione punitiva mascherata e, quindi, un deterrente idoneo a condizionare il libero e pieno esercizio del diritto di difesa.
In particolare la disposizione censurata – nel precedere la liquidazione delle spese di lite in favore della pubblica amministrazione in base alla tariffa forense e senza un puntuale rapporto con costi effettivi sostenuti nel singolo processo – «finisce per rappresentare o un contributo parafiscale al funzionamento dell’Amministrazione a favore della quale sia disposta o un ingiustificato prelievo sanzionatorio a carico del soccombente o, comunque, una condanna patrimoniale ad effetto dissuasivo dal ricorrere al Giudice», con l’effetto di costituire un «fattore di remora, per la parte privata», e, pertanto, una limitazione del suo diritto di difesa, non giustificato da alcun preminente interesse pubblico;
La disposizione viola l’art. 33 della Costituzione, secondo cui nessuna professione può essere esercitata senza abilitazione, quando prescritta.
Pertanto nel processo tributario poiché il funzionario delegato rappresenta l’ente in quanto dipendente, a prescindere dal possesso di un titolo accademico e di una abilitazione professionale, ma, semplicemente, per dovere d’ufficio o contrattuale, riconoscere a favore dell’ente stesso, in caso di vittoria, diritti ed onorario di avvocato, significherebbe equiparare un’attività rientrante nei doveri del lavoratore alla libera professione forense, legalizzandola di fatto, in violazione del dettato costituzionale.
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