TRIBUNALE DI VICENZA – Ordinanza 16 giugno 2022
Reati in materia di immigrazione – Reati di cui all’art. 5, comma 8-bis, del decreto legislativo n. 286 del 1998 – Contraffazione o alterazione dei documenti previsti (visto di ingresso o reingresso, proroga del visto, permesso di soggiorno, contratto di soggiorno, carta di soggiorno) – Utilizzo dei suddetti documenti contraffatti o alterati – Trattamento sanzionatorio – Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), art. 5, comma 8-bis
Ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale (art. 23, legge 11 marzo 1987, n. 53) – E.O. è stato tratto a giudizio per rispondere del delitto di cui all’art. 5, comma 8-bis, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 perché «al fine di determinare il rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo per lavoro subordinato, utilizzava, inviandolo all’ufficio immigrazione della Questura di Vicenza, il certificato di conoscenza della lingua italiana “livello A2 CELI li” apparentemente a lui rilasciato dall’Università di Perugia nella sessione del … con numero di matricola … che, all’esito delle verifiche, risultava contraffatto in quanto rilasciato con quel numero di matricola a … In …».
All’udienza preliminare del 24 febbraio 2022 l’imputato ha formulato richiesta di messa alla prova ai sensi degli articoli 168-bis codice penale e 464-bis codice penale, e il difensore ha sollevato le seguenti questioni di legittimità costituzionale:
1) illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8-bis, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, per contrasto con gli articoli 3 e 27 Cost. nella parte in cui, prevedendo una pena edittale da uno a sei anni di reclusione sia per colui che sia accusato della contraffazione o alterazione di un visto di ingresso o reingresso, o della sua proroga, di un permesso di soggiorno, di un contratto di soggiorno o di una carta di soggiorno, sia per colui che sia accusato della contraffazione o alterazione di documenti al fine di determinare il rilascio di un visto di ingresso o di reingresso, o della sua proroga, di un permesso di soggiorno, di un contratto di soggiorno o di una carta di soggiorno, sia infine per colui che sia imputato del mero utilizzo di documenti contraffatti o alterati, sanziona con la medesima pena fattispecie eterogenee tra loro, tutte contemplate all’interno del medesimo comma 8-bis, risultando in tal modo intrinsecamente irragionevole;
2) illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8-bis, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, per contrasto con gli articoli 3 e 27 Cost. nella parte in cui, prevedendo una pena edittale da uno a sei anni di reclusione per l’imputato che sia accusato della contraffazione o alterazione di un visto di ingresso o reingresso, o della sua proroga, di un permesso di soggiorno, di un contratto di soggiorno o di una carta di soggiorno, sia per colui che sia accusato della contraffazione o alterazione di documenti al fine di determinare il rilascio di un visto di ingresso o di reingresso, o della sua proroga, di un permesso di soggiorno, di un contratto di soggiorno o di una carta di soggiorno, sia infine per colui che sia imputato del mero utilizzo di documenti contraffatti o alterati, sanziona in modo differenziato l’autore del delitto in parola rispetto al cittadino comune accusato dei delitti di cui agli articoli 482 codice penale, in relazione agli articoli 476 o 477 codice penale, o 489 codice penale, in violazione del principio di uguaglianza.
Entrambe le doglianze sollevate dalla difesa appaiono, secondo questo Giudice, non manifestamente infondate.
Esse poggiano, infatti, su dati obiettivi che pare utile riassumere.
Sotto il primo profilo evidenziato dalla difesa non è contestabile che la norma, che si sospetta in contrasto con la Carta fondamentale, contenga al suo interno più fattispecie che puniscono condotte tra loro sensibilmente differenti sia in punto di elemento materiale che di coefficiente psicologico. Altro infatti, sotto il profilo dell’approccio del soggetto attivo alla lesione del bene giuridico tutelato, è realizzare una falsificazione materiale di un titolo abilitativo al soggiorno nel territorio dello Stato, condotta che può a sua volta declinarsi nell’alterazione di un documento originale preesistente, ma anche nel materiale confezionamento ex novo di un documento avente l’apparenza di un titolo di soggiorno rilasciato dall’Autorità pubblica, altro è avvalersi di un documento alterato o confezionato da terzi, facendone meramente uso.
Non può sottacersi, infatti, che l’integrazione dell’una o dell’altra fattispecie presuppone modalità esecutive e coefficiente psicologico affatto diversi, a loro volta indicativi di una diversa attitudine del soggetto attivo di porsi in contrasto con l’ordinamento: capacità tecnica, abilità manuale, destinazione di risorse materiali e di tempo alla realizzazione dell’illecito da una parte, mera ricezione ed utilizzo dell’atto contraffatto dall’altra.
Non solo. Mentre le condotte di confezionamento dell’atto contraffatto o alterato non di rado poggiano sull’inserimento del soggetto attivo in un circuito dal quale provengono i supporti documentali e gli strumenti necessari alla realizzazione del falso, la condotta di uso dell’atto falso è per sua stessa natura l’azione unisussistente del soggetto beneficiato dalla contraffazione, il quale esibisce o si avvale del documento materialmente falso per avvalersi delle prerogative ad esso collegate.
Se così è, il possibile contrasto della fattispecie con l’art. 27 della Carta fondamentale potrebbe trovare appiglio nel principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, già affermato dalla Corte costituzionale nel senso che esso «esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018). E il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproveratile» (sent. n. 55 del 2021 e, in precedenza, n. 73 del 2020).
Sotto il secondo profilo la difesa ha posto in opportuno rilievo la differenza di trattamento sanzionatorio riservato dal legislatore alle condotte di falsificazione materiale e di uso di atto falso descritte nell’art. 5, comma 8-bis, decreto legislativo n. 286/1998, rispetto a quelle previste dagli articoli 482, in riferimento agli articoli 476 e 477 codice penale, e 489 codice penale.
La differenza è nota e non richiede quindi più di un semplice richiamo alla pena unitaria da uno a sei anni di reclusione prevista per tutte le fattispecie contemplate dall’art. 5, comma 8-bis, decreto legislativo n. 286/1998, e alla distinzione operata invece dal codice penale tra la condotta dì falsità materiale commessa dal privato su atto pubblico (art. 476 codice penale) o certificato o autorizzazione amministrativa (art. 477 codice penale), sanzionata dall’art. 482 codice penale con le pene contemplate dalle norme previste per le condotte dei pubblici ufficiali, ridotte di un terzo, e la condotta di uso di atto falso, che l’art. 489 codice penale sanziona – nel caso che qui interessa quale tertium comparationis della condotta del privato cittadino – con la pena dell’art. 482 codice penale, ulteriormente ridotta di un terzo.
A fronte della scelta legislativa di differenziare il trattamento punitivo nei reati comuni descritti agli articoli 482 e 489 codice penale, l’opzione adottata dal legislatore del 1998 è stata quella di sanzionare condotte in tutto riconducibili alle prime nella loro materialità – con i soli elementi specializzanti rappresentati dalla tipicità degli atti sui quali deve realizzarsi la contraffazione o estrinsecarsi l’uso, e del dolo specifico – ma con pena indifferenziata. Pena che, oltre a essere sensibilmente più grave di quella prevista dal codice penale, non valorizza la differenza tra le due tipologie di aggressione al bene giuridico tutelato.
La Corte costituzionale ha più volte ricordato che «le valutazioni discrezionali di dosimetria penale competono in esclusiva al legislatore, chiamato dalla riserva di legge ex art. 25 Cost. a stabilire il grado di reazione dell’ordinamento al cospetto della lesione di un determinato bene giuridico», e non è quindi sull’entità della pena prevista per le fattispecie di parte speciale che il sospetto di illegittimità costituzionale viene formulato, ma ricordando che la stessa Corte ammette il sindacato di legittimità costituzionale al metro degli articoli 3 e 27 Cost. «su scelte sanzionatorie arbitrarie o manifestamente sproporzionate, tali da evidenziare un uso distorto della discrezionalità legislativa» (così Corte costituzionale, sentenza n. 62 del 2021 e, in precedenza, sentenza numeri 88 e 40 del 2019, 233 e 222 del 2018, 179 del 2017 e 236 del 2016), questo Giudice dubita della coerenza intrinseca della scelta operata dal legislatore laddove ha ritenuto di orientare la propria discrezionalità prevedendo: 1) un trattamento sanzionatorio unitario per reprimere condotte tra loro profondamente diverse, rappresentative di attività materiali e coefficienti psicologici affatto assimilabili e, in ultima analisi, di modalità di aggressione del bene giuridico di diverso grado e qualità; 2) una evidente differenziazione di trattamento del soggetto attivo che commette le condotte di falsità materiale o di uso dell’atto falso su atti pubblici genericamente considerati, punito con sanzioni che tengono conto della differenza sostanziale tra le due diverse tipologie di aggressione al bene giuridico tutelato, rispetto al soggetto attivo che le medesime condotte – al netto del dolo specifico richiesto dalla norma speciale – compie sugli atti tipici elencati nell’art. 5, comma 8-bis, decreto legislativo n. 286/1998, per il quale il trattamento sanzionatorio è unitario e indifferenziato.
Con tali brevi richiami questo Giudice ritiene di avere assolto all’onere di motivazione sulla ritenuta non manifesta infondatezza della questione, a mente dell’indicazione rinvenibile nella giurisprudenza della Corte secondo la quale «l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’entità della pena edittale è subordinata all’indicazione da parte del giudice a quo di previsioni sanzionatorie già rinvenibili nell’ordinamento, le quali, trasposte all’interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore, una volta emendata dai vizi di illegittimità costituzionale addotti e riscontrati» (sent. n. 117 del 2021, n. 40 del 2019 e n. 233 del 2018).
La rilevanza della questione sollevata nel giudizio a quo discende dalla richiesta formulata dall’imputato di ammissione all’istituto della messa alla prova, depositata tempestivamente in apertura di udienza preliminare.
La cornice edittale prevista per il delitto contestato all’imputato, avere fatto uso di un certificato di conoscenza della lingua italiana materialmente falso in quanto rilasciato a soggetto diverso da quello apparente, al fine di determinare il rilascio del permesso di soggiorno, non consente l’accesso all’istituto invocato dall’imputato per superamento dei limiti previsti dall’art. 168-bis codice penale.
Prima di deliberare in ordine a tale richiesta, quindi, viene in rilievo il dubbio di costituzionalità che si è sin qui riassunto, posto che se la fattispecie contestata all’imputato non presentasse la ritenuta, irragionevole, uniformità sanzionatoria di condotte tra loro diverse, anche valutata alla luce delle previsioni contenute nel codice penale, e fosse invece coerente con la scelta codicistica di differenziare il trattamento punitivo per il semplice uso di atto falso prevedendo, mediante il ricorso al medesimo meccanismo di determinazione della sanzione, la riduzione di un terzo della pena edittale, l’imputato potrebbe accedere al rito alternativo.
Richiamato, conclusivamente, il principio di proporzione della pena, «idonea a tendere alla rieducazione del condannato ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.», che secondo quanto affermato recentemente dalla Corte «implica un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sent. n. 143 del 2021), si ritiene la questione sollevata rilevante e non manifestamente infondata.
P.Q.M.
letto l’art. 23, legge n. 53/1987,
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 5, comma 8-bis, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio sia per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati, sia per quelli di contraffazione o alterazione di documenti descritti nella stessa norma, e non invece trattamenti sanzionatori differenziati, non prevedendo in particolare che la pena edittale per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati sia determinata riducendo di un terzo la pena prevista per le condotte di contraffazione o alterazione dei documenti medesimi, analogamente a quanto disposto dall’art. 489 codice penale. Ciò in contrasto con il principio di uguaglianza-ragionevolezza (art. 3 Cost.) e con il principio di proporionalità della sanzione penale (art. 27 Cost.).
Sospende il giudizio in corso e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Dichiara sospeso il decorso della prescrizione ai sensi dell’art. 159, comma 1, n. 2, codice penale.
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