La Corte di Cassazione sez. penale con la sentenza n. 30519 del 15 luglio 2013 intervenendo in tema di indulto nell’ambito di procedure concorsuali ha affermato e statuito che la sentenza che dichiara il fallimento è elemento costitutivo dei reati di bancarotta. Ai fini dell’indulto bisogna fare riferimento alla data in cui essa è stata emessa.
Gli Ermellini alla luce del principio affermato hanno respinto il ricorso dell’imputato, condannato dalla Corte d’appello alla pena di due anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione per i reati fallimentari di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale e ricorso abusivo al credito.
La difesa dell’imputato ricorreva in cassazione avverso al sentenza dei giudici di appello poiché lamentava l’inosservanza e l’erronea applicazione di legge, per essere stata esclusa l’applicabilità dell’indulto. Sul punto il giudice del merito ha argomentato che la commissione del reato di bancarotta coincide con la dichiarazione di fallimento e nel caso specifico quest’ultima era intervenuta in epoca posteriore alla data del 2 maggio 2006, indicata dalla Legge n. 241 del 2006 come quella entro la quale occorreva che i fatti fossero stati commessi, perché il beneficio potesse trovare applicazione.
I giudici di legittimità hanno ritenuto corretto l’assunto della Corte territoriale secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento non è condizione oggettiva di punibilità, ma elemento costitutivo del reato di bancarotta. Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità – fatto proprio dalla Quinta Sezione Penale – “il momento consumativo dei reati di bancarotta si perfeziona all’atto della pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, ancorché la condotta, commissiva od omissiva, si sia esaurita anteriormente, in quanto la sentenza di fallimento rappresenta elemento costitutivo del reato di bancarotta, e non condizione oggettiva di punibilità. Ne consegue che, in materia di applicazione o di revoca dell’indulto, è alla data della sentenza dichiarativa di fallimento che occorre far riferimento, essendo del tutto ininfluente che la condotta sia cessata in epoca anteriore” (Cfr. tra le altre, Cass. Sez. I pen. sentenza n. 2392 del 1996).
La Corte Suprema ha anche chiarito che per l’inosservanza delle disposizioni concernenti la pubblicazione della sentenza la legge non commina alcuna sanzione. Ne deriva che la mancata lettura del dispositivo e della motivazione della sentenza comporta unicamente l’effetto di rendere inapplicabile la disposizione dell’articolo 545, comma 3, del codice di procedura penale (ossia la sentenza non può dirsi notificata alla parti presenti in udienza) e di impedire la decorrenza dei termini per l’impugnazione. Erroneamente quindi il ricorrente ha eccepito l’abnormità del provvedimento impugnato, in quanto emesso a seguito di riserva di decisione e non con deliberazione in udienza.
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