CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 1951 del 4 febbraio 2015
TRIBUTI ERARIALI DIRETTI – ACCERTAMENTO DELLE IMPOSTE SUI REDDITI (TRIBUTI POSTERIORI ALLA RIFORMA DEL 1972) – ACCERTAMENTI E CONTROLLI – RETTIFICA DELLE DICHIARAZIONI – REDDITO D’IMPRESA – ACCERTAMENTO INDUTTIVO EX ART. 39, SECONDO COMMA, DEL D.P.R. N. 600 DEL 1973 – NOTIZIE UTILIZZABILI DALL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA – FATTISPECIE
RITENUTO IN FATTO
A seguito di p.v.c. del 24.5.2004 e di successive indagini di polizia giudiziaria a carico di G. Giovanni Battista, titolare della ditta “Edil Faga Intonaci” – dalle quali emergeva che questi, pur avendo richiesto negli anni dal 1997 al 2001 consistenti rimborsi Iva, aveva presentato i modelli unici per le dichiarazioni annuali IVA e II.DD. compilati nel solo frontespizio e non aveva tenuto le scritture contabili – l’Ufficio delle entrate di Bari emetteva tre distinti avvisi di accertamento per gli anni 1999, 2000 e 2001, con i quali contestava al contribuente la violazione degli obblighi di tenuta delle scritture contabili obbligatorie e di presentazione delle dichiarazioni dei redditi, disconosceva il credito Iva chiesto a rimborso e, tenendo conto della documentazione sequestrata in sede penale (tra cui le fatture emesse negli anni in contestazione), accertava induttivamente il reddito di impresa (con applicazione di diverse percentuali di redditività media del settore) ed un maggior valore di produzione a fini Irap, in misura pari ai corrispettivi fatturati.
Il contribuente, eccependo la carenza dei presupposti per l’accertamento induttivo, l’inaffidabilità dei dati desunti, la mancanza di prove “certe e dirette”, la contraddittorietà tra l’accertamento del reddito a fini Irpef e l’imponibile Irap e la mancata deduzione (anche forfetaria) dei costi, come componenti negative del reddito, impugnava tutti gli avvisi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bari, che con sentenza n. 294/20/07, previa riunione dei ricorsi, li respingeva integralmente. La sentenza veniva riformata dalla Commissione tributaria regionale della Puglia, la quale accoglieva l’appello proposto dal contribuente, ritenendo: che il riferimento puro e semplice al p.v.c. non fosse sufficiente all’assolvimento dell’onere di motivazione dell’avviso di accertamento; che difettavano le condizioni legittimanti l’accertamento induttivo; che i verificatori avevano accertato i redditi senza tener conto delle voci di costo evidenziate dalla parte; che pertanto l’accertamento era viziato per violazione e falsa applicazione di legge, in quanto fondato su una “catena di presunzioni” dalle quali si era fatta scaturire la prova della infedele dichiarazione dei redditi dell’impresa.
Per la cassazione della sentenza d’appello n. 13/7/08, depositata il 7.5.2008 e non notificata, l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso in data 12-18.6.2009, affidato a sei motivi. L’intimato non ha svolto difese.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, formulato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), “ed al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 1”, l’Agenzia delle entrate deduce la violazione e falsa applicazione dei seguenti articoli: D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, art. 39, comma 2, e art. 41; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 1, formulando il seguente quesito di diritto: “Con riferimento al caso in cui il contribuente non abbia dimostrato di aver tenuto le scritture contabili obbligatorie ed abbia presentato le dichiarazioni annuali delle imposte compilate nel solo frontespizio ed interamente in bianco nelle residue parti, dica la S. Corte se, contrariamene a quanto ritenuto dalla C.T.R. di Bari nella sentenza impugnata, l’Ufficio sia legittimato a procedere ad accertamento con metodo induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e D.P.R. n. 633 del 1973, art. 55”.
2. Con il secondo mezzo, la ricorrente deduce analogo vizio di violazione e falsa applicazione degli stessi articoli, nonché dell’art. 2697 c.c., sulla scorta del seguente quesito di diritto: “Dica la S. Corte se, contrariamene a quanto ritenuto dalla S. Corte con l’impugnata sentenza, gravi sul contribuente l’onere di dimostrare di aver tenuto regolarmente le scritture contabili obbligatorie e di aver regolarmente presentato le annuali dichiarazioni dei redditi, in guisa da dimostrare l’illegittimità del ricorso al metodo induttivo adottato dall’Ufficio, dovendosi viceversa escludere che gravi sull’Ufficio impositore l’onere di fornire la prova negativa della mancanza delle predette scritture e della omessa presentazione delle dichiarazioni annuali dei redditi”.
3. Con il terzo motivo la sentenza d’appello viene censurata per “insufficiente ed illogica motivazione su fatti controversi e decisivi della causa, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, ed al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 1”, senza formulazione di alcun “momento di sintesi”.
4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), “ed al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 1”, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e art. 41, comma 2, nonché D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 1, sulla base del seguente quesito di diritto: “Dica la S. Corte se, contrariamene a quanto ritenuto dalla C.T.R. con l’impugnata sentenza, l’accertamento induttivo possa essere basato anche sull’applicazione di percentuali di ricarico comunemente applicate nel settore e se tali percentuali tengano conto, per propria natura, dell’incidenza dei costi sui ricavi, in guisa che l’Ufficio impositore possa limitarsi a procedere alla loro applicazione, senza esigenza di procedere ad una ulteriore operazione di deduzione dei costi presumibilmente imputabili al maggior reddito accertato”.
5. Il quinto mezzo contiene la duplice censura di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 42, comma 1, – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), “ed al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 1” – nonché di motivazione insufficiente e contraddittoria su punti decisivi della controversia – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ed al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, – accompagnate dal solo quesito di diritto “se – contrariamene a quanto affermato in diritto dalla C.T.R. nell’impugnata sentenza – sia legittimo l’avviso di accertamento che faccia riferimento ad un precedente p.v. di constatazione conosciuto dal contribuente”.
6. Il sesto mezzo attiene alla violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 3, e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), “ed al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 1”, ed è corredato dal quesito di diritto “se – contrariamente a quanto ritenuto dalla C.T.R. con l’impugnata sentenza – sia legittimo l’accertamento dell’Ufficio che determini in misura diversa l’imponibile dell’I.R.P.E.F. e dell’I.R.A.P., in applicazione della specifica normativa che disciplina le due diverse imposte”.
7. Con il settimo ed ultimo motivo di ricorso si lamenta, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, nonché dei principi generali in tema di contenzioso tributario, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), “ed al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, comma 1”, sulla base del quesito di diritto “se il giudizio tributario non sia limitato ai profili di mera legittimità dell’atto impugnato, ma si estende al merito del rapporto, e se pertanto sia viziata la sentenza della C.T.R. che nel caso di specie si è limitata a rilevare presunti vizi di illegittimità nella determinazione delle percentuali di redditività applicabili e nella determinazione della base imponibile dell’I.R.P.E.F. e dell’I.L.O.R. senza rideterminare, sulla base degli elementi di prova in atti, gli imponibili effettivi e le imposte effettivamente dovute”.
8. Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del terzo e del quinto motivo di ricorso – limitatamente alla parte in cui si censura un vizio motivazionale – per mancanza del c.d. momento di sintesi (o quesito “di fatto”).
8.1. Invero, alla sentenza impugnata – in quanto pubblicata nel periodo previsto dalla disciplina transitoria di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 5, (tra il 2 marzo 2006 e il 4 luglio 2009) – si applica l’abrogato art. 366 bis c.p.c., il quale, nella ormai consolidata lettura di questa Corte, richiede che i motivi riconducibili all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), siano corredati – a pena di inammissibilità – da un apposito passaggio espositivo, distinto ed autonomo rispetto allo svolgimento del motivo, che individui chiaramente e sinteticamente il fatto controverso e decisivo per il giudizio in riferimento al quale la motivazione si assume omessa, insufficiente o contraddittoria, con specifica segnalazione delle ragioni per le quali la motivazione risulta inidonea a giustificare la decisione (Cass. s.u., n. /07, n. /08 e n. /10; Cass. n. 24313/14; conf. Cass. n. 22404/, n. /09, n. /08).
9. Anche il sesto motivo è affetto da inammissibilità, per inconferenza rispetto al contenuto della sentenza impugnata, che nella parte censurata non assume, contrariamente a quanto supposto dal ricorrente, la necessaria identità della base imponibile ai fini Irpef ed Irap, bensì esattamente il contrario.
10. Nel merito, i restanti motivi di ricorso sono tutti fondati.
11. Quanto al primo, l’acquisizione delle fatture emesse negli anni in contestazione – già oggetto di sequestro penale – non “smentisce” (come assume il giudice d’appello) l’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, i cui presupposti sono pienamente integrati dalle circostanze di fatto emergenti dagli avvisi di accertamento per gli anni 1999, 2000 e 2001 (integralmente trascritti in ricorso), dai quali risulta la mancata presentazione delle dichiarazioni dei redditi ai fini II.DD., IVA ed IRAP e la mancata tenuta delle scritture contabili, con conseguente “impossibilità di acquisire qualsiasi tipo di documentazione di natura contabile/amministrativa utile a chiarire l’effettiva posizione fiscale” del contribuente.
11.1. Questa Corte ha invero chiarito che il discrimine tra l’accertamento condotto con metodo c.d. analitico-induttivo o misto (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e quello condotto con metodo c.d. induttivo puro o extracontabile (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d) in materia di imposte dirette; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 2, n. 3), in materia di imposte indirette) va ricercato, rispettivamente, nella “parziale” o “assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non è tale da non consentire di prescindere dalle scritture contabili, le cui lacune possono essere colmate dall’Ufficio accertatore utilizzando anche presunzioni semplici (praesumptio hominis) rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c., per dimostrare l’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, ovvero l’inesistenza di componenti negativi dichiarati; nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” inficiano più radicalmente l’attendibilità – e dunque l’utilizzabilita, ai fini dell’accertamento – degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che in questo caso l’Amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c.” (Cass. n. /13).
11.2. Va dunque data continuità al principio per cui, in caso di irregolarità formali delle scritture contabili così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili i dati in esse esposti (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2, lett. d); D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 55, comma 2, n. 3), è legittimo il ricorso al metodo induttivo di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, nonché l’impiego, ai fini della determinazione dei maggiori ricavi, “dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento” (Cass. n. /02, n. /07, n. /13, n. /14, n. 25102/14).
12. Anche la seconda censura di error in iudicando – ascritto alla sentenza impugnata nella parte in cui si sostiene che, in ordine alle “contestate omissioni… l’Ufficio avrebbe dovuto effettuare più accurate indagini” – è fondata.
12.1. Invero, a fronte delle contestate omissioni nella presentazione delle dichiarazioni dei redditi e nella tenuta della contabilità, sarebbe stato onere del contribuente fornire – diligentemente – la prova contraria, anche in base al principio generale di c.d. vicinanza della prova.
12.2. Quanto poi al contenuto delle scritture e delle registrazioni contabili, costituisce ius receptum che persino nell’accertamento analitico-induttivo dei redditi d’impresa, consentito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), “l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, e assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse” (Cass. n. /07, n. /09, n. /10; da ultimo, Cass. n. 24313/14, n. 4629/14, n. 3950/14).
13. Il quarto mezzo è parimenti meritevole di accoglimento.
13.1. Erra infatti il giudice d’appello quando afferma, del tutto genericamente, che “allorché l’Ufficio sceglie di adottare il parametro della redditività, comunque deve tener conto, anche se a titolo indicativo, dei ricavi e dei costi documentati specie quando ha concreta possibilità di verificare forniture ed acquisti attraverso le fatture acquisite in fase di verifica”, ovvero laddove altrettanto genericamente lamenta che l’Ufficio “non ha considerato detraibili ai fini della determinazione dell’imponibile IRAP ne’ i costi determinati forfetariamente, calcolati per la determinazione del reddito ai fini IRPEF, ne’ quelli effettivamente sostenuti”.
13.2. Al riguardo è sufficiente osservare come sia onere del contribuente provare non solo l’indefettibile requisito dell’inerenza dei costi, ma anche la loro effettiva sussistenza ed il loro preciso ammontare (Cass. n. 23550/; n. /11); prova che però, a quanto emerge dagli atti di causa, non risulta fornita. D’altro canto, a fronte di una precisa prova di siffatti costi, ben avrebbe potuto e dovuto la stessa corte territoriale tenerne conto, in quanto il giudice tributario di merito “non incontra alcun limite, ex art. 112 c.p.c., nel caso in cui le parti controvertano sulla legittimità/annullamento del provvedimento impositivo, atteso che nella richiesta di esame della legittimità del provvedimento impugnato, ove le questioni sottoposte all’esame del giudice vertano sulla fondatezza della pretesa fiscale in relazione al corretto criterio di calcolo da adottare per la determinazione della percentuale di ricarico sulla merce venduta, è implicita anche quella di esatta commisurazione dell’importo dovuto dal contribuente nell’ipotesi in cui la pretesa dovesse risultare solo parzialmente fondata” (Cass. /13).
14. Va infine accolto il quinto motivo, nella parte relativa alla censura per violazione di legge, con riguardo all’affermazione del giudice d’appello per cui “il riferimento puro e semplice al p.v.c. non è di per sè sufficiente ad assolvere l’obbligo della motivazione dell’avviso di accertamento”.
14.1. Invero, ai fini della motivazione dell’accertamento, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, l’indicazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, unitamente ai relativi fatti giustificativi, al fine di delineare chiaramente il perimetro della successiva ed eventuale fase contenziosa, al cui interno restano relegate le contestazioni sull’effettivo verificarsi dei fatti e sulla loro idoneità a fondare la pretesa impositiva (Cass. n. /11 e n. /08).
14.2. Il regime introdotto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, conferma poi che l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ossia con riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, purché questi siano allegati o riprodotti nel loro contenuto essenziale (Cass., sent. n. /08, n. /09, n. /11, n. /12, n. /13, n. /14; ord. n. 25296/14).
14.3. Ne consegue che la motivazione dell’atto impositivo può anche integrarsi – come nel caso di specie – con il rinvio ai contenuti di un precedente p.v.c. che sia stato notificato al contribuente, senza che sia perciò arrecato alcun vulnus al corretto dispiegamento del contraddittorio, trattandosi di elementi già noti alla parte (cfr., da ultimo, Cass. n. 25318/14 e n. 10767/14).
15. Resta assorbito il settimo motivo di ricorso, formulato in via subordinata.
16. In conclusione, l’accoglimento dei motivi di ricorso sopra indicati comporta la cassazione della sentenza impugnata.
17. Non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, il giudizio può essere deciso nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, con il rigetto dell’originaria impugnazione del contribuente.
18. Le peculiarità della vicenda processuale giustificano la compensazione delle spese processuali inerenti alle fasi di merito, mentre quelle afferenti il presente giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, nei termini indicati in motivazione, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario del contribuente.
Condanna l’intimato alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 oltre spese prenotate a debito.
Dichiara compensate tra le parti le spese dei gradi di merito.
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