CORTE di CASSAZIONE ordinanza n. 19655 depositata il 7 agosto 2017
RILEVATO
che con sentenza 22 aprile 2015, la Corte d’appello di Campobasso dichiarava, nel contraddittorio anche con l’Inps, l’illegittimità del licenziamento per riduzione di personale intimato a F. C. con lettera 24 febbraio 2009 da DR M. C. s.p.a., che condannava alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, delle retribuzioni maturate dal licenziamento in misura dell’ultima mensile globale di fatto, oltre accessori, nonché ai relativi oneri previdenziali: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato le domande del lavoratore;
che avverso tale sentenza la società datrice ha proposto ricorso con cinque motivi, cui il lavoratore ha resistito con controricorso, mentre l’Inps ha rilasciato una procura al difensore per la discussione;
CONSIDERATO
che la ricorrente deduce:
a) violazione o falsa applicazione degli artt. 3 I. 604/1966 e 2697 c.c. e insufficiente motivazione sull’omessa considerazione di incontestati elementi fattuali provati in giudizio, quali la soppressione del reparto (Ricerche e Sviluppo per il collaudo, la sperimentazione e l’analisi tecnica delle vetture Gonon Katay e Victory e DR 5 tutte in versione diesel) cui era addetto F. C., a seguito di interruzione dei rapporti commerciali con l’impresa cinese produttrice: sull’erroneo presupposto di non precisabilità in tale senso, in giudizio, della motivazione del licenziamento contestato (primo motivo);
b) violazione o falsa applicazione degli artt. 2 I. 604/1966 e 2697 c.c., per la negata possibilità di ulteriore specificazione in sede giudiziale delle più ampie ragioni esposte nella lettera di licenziamento, sull’erroneo assunto di limitazione della deduzione in merito a quanto ivi prospettato, per la ravvisata richiesta del lavoratore di spiegazioni sulle ragioni del recesso datoriale, in realtà assente nella lettera, inviata oltre il termine all’epoca prescritto, per giunta di impugnazione del licenziamento (secondo motivo);
c) violazione o falsa applicazione dell’art. 3 I. 604/1966, in riferimento all’onere di repechage (in sé assolto nell’effettiva soppressione del posto di lavoro), nonostante la dimostrazione dell’oggettiva impossibilità di utilizzazione del lavoratore in mansioni equivalenti o superiori e la sua indisponibilità a conservare il posto di lavoro con riduzione della retribuzione o a svolgere le funzioni di Direttore di Produzione a parità di retribuzione ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sulla negata soppressione del reparto del lavoratore per erroneo rilievo della considerazione di ogni forma di collaborazione e di consulenza adottata, senza indicazione degli elementi di fatto su cui sia stato basato un convincimento radicalmente diverso da quello, ben altrimenti giustificato, del Tribunale (terzo motivo);
d) violazione o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e omessa motivazione sulla produzione soltanto in appello di documenti di formazione anteriore di cui non sia giustificata l’impossibilità di tempestiva produzione, né dedotta l’indispensabilità ai fini della decisione omessa (quarto motivo);
e) insufficiente motivazione sulle risultanze della produzione documentale, comunque tardiva e sulla mera analisi del dato delle vendite e del numero assoluto degli occupati come dati sufficienti a dimostrare l’inesistenza di uno squilibrio finanziario tale da giustificare scelte strategiche sulle linee di sviluppo dell’impresa (quinto motivo);
che ritiene il collegio che il primo e il terzo motivo, congiuntamente esaminabili, siano inammissibili e che gli altri rimangano assorbiti;
che, infatti, indipendentemente da ogni altra questione marginalmente posta, la Corte territoriale, a fronte della deduzione della società datrice della determinazione del licenziamento del proprio dipendente “unicamente dalla soppressione del reparto a cui il predetto era assegnato” (così al penultimo capoverso di pg. 8 della sentenza), ha accertato che l’istruttoria esperita “neppure sia stata valevole alla dimostrazione della soppressione del settore per il quale il F. C. era stato assunto, a tal fine dovendo aversi riguardo a tutte le forme (e relativi contenuti) di utilizzazione di personale tecnico, anche in forma di collaborazione o consulenza o, a maggior ragione, con contratti a termine, a cui la società risulta aver fatto ricorso” (così al primo capoverso di pg. 9 della sentenza);
che essa ha pertanto correttamente applicato il consolidato indirizzo di questa Corte, secondo cui è ritenuto legittimo il licenziamento per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa, in esse comprese anche quelle attinenti ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero dirette ad un aumento della redditività di impresa, una volta che ne sia stata verificata l’effettività del ridimensionamento e del nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato: spettando un tale accertamento di ricorrenza (e non pretestuosità) delle ragioni stabilite dall’art. 3 I. 604/1966 al sindacato giudiziale, senza alcuna indebita interferenza sull’insindacabile autonomia imprenditoriale (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; Cass. 8 novembre 2013, n. 25197; Cass. 14 maggio 2012, n. 7474; Cass. 11 luglio 2011, n. 15157);
che un tale legittimo sindacato integra un accertamento in fatto insindacabile da questa Corte, in quanto assistito da congrua e logica motivazione (Cass. 3 luglio 2015, n. 13678): tanto meno alla luce del più circoscritto perimetro di denunciabilità secondo il novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis;
che pertanto i due motivi congiuntamente scrutinati si risolvono in una inammissibile censura nel merito della valutazione probatoria compiuta in fatto dalla Corte territoriale, in corretta applicazione dei principi regolanti la materia, neppure cogliendone specificamente l’esatta ratio decidendi;
che pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
che le spese vengono regolate secondo il regime di soccombenza come da dispositivo;
che sussistono la condizioni di cui all’art. 13 comma 1 quater dPR 115 del 2002
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre il rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma lquater del d.p.r. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma lbis, dello stesso articolo 13.
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