CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 17546 depositata il 24 aprile 2019

Tributi – Reati fiscali – Frode fiscale, dichiarazione infedele, emissione di fatture per operazioni inesistenti, omesso versamento IVA e bancarotta fraudolenta – Provvedimento di sequestro preventivo per equivalente

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza 16.10.2018, il Tribunale del riesame di Varese confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP/tribunale di Busto Arsizio 18.06.2018, successivamente integrato in data 25.06.2018, emesso nei confronti del C., aventi ad oggetto il sequestro preventivo per equivalente sino al limite massimo di € 3.795.643,40, in relazione ai reati di frode fiscale, dichiarazione infedele, emissione di fatture per operazioni inesistenti, omesso versamento IVA e bancarotta fraudolenta.

2. Contro la ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione al combinato disposto di cui agli artt. 125, 321, 324 c.7 e 309 c.9 c.p.p. e correlato vizio di assenza di motivazione a sostegno dei decreti di sequestro preventivo.

Si contesta l’ordinanza impugnata, sostenendo che il tribunale di Varese non avrebbe colto la censura sollevata con i motivi di riesame circa l’assenza di una autonoma valutazione da parte del GIP degli elementi a sostegno della misura cautelare adottata; la difesa aveva lamentato che nel primo decreto, emesso il 13.6.2018, nonostante quei beni fossero stati individuati e indicati dal giudice tra quelli nella disponibilità del ricorrente non erano stati colpiti da alcun provvedimento di natura ablatoria; tuttavia, successivamente, venivano inclusi dal GIP in un secondo decreto, in data 25.6.2018, ad integrazione del primo ed in seguito ad una richiesta del P.M. per il valore irrisorio dei beni precedentemente interessati dalla misura cautelare; nessuna motivazione in merito era stata fornita né dal GIP né dal giudice del riesame il quale, tautologicamente, si sarebbe limitato ad affermare che i decreti risultassero essere motivati; in applicazione dell’art. 309, comma 9, c.p.p. dovrebbe essere dichiarata la nullità del secondo decreto, in quanto emergerebbe ictu oculi la violazione del dovere di autonoma motivazione in sede di applicazione della misura cautelare dal confronto della richiesta della pubblica accusa e dei decreti impugnati; nello specifico, il provvedimento del 13.6.2018 riporterebbe integralmente le affermazioni del P.M., a sua volta facenti riferimento alle indagini operate dalla Guardia di Finanza di Gallarate, anche il decreto successivo, così come quello del P.M. nella richiesta di integrazione, difetterebbe di motivazione, limitandosi a richiamare quella adottata con il provvedimento precedentemente emesso, senza fornire una autonoma valutazione.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge in relazione all’art. 125 c.p.p. ed al combinato disposto di cui agli artt. 321 c.p.p., 322-ter c.p., art. 1, c. 243, L. n. 244/2007 e art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 e correlato vizio di assenza di motivazione in punto di applicazione del sequestro finalizzato alla confisca per  equivalente anziché del sequestro preventivo del profitto del reato.

In sintesi, si sostiene che il tribunale del riesame avrebbe errato nel ritenere i decreti di sequestro preventivo non viziati per difetto di motivazione con riferimento al mancato esperimento di un tentativo di sequestro del profitto diretto dei reati contestati, prima di procedere all’ablazione per equivalente di beni nella disponibilità del ricorrente, privi di alcun vincolo di pertinenzialità rispetto agli illeciti addebitati; l’organo giudicante non avrebbe correttamente applicato i principi espressi nella sentenza Gubert dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: non risulterebbe che il GIP abbia diffusamente argomentato circa l’impossibilità di procedere al sequestro diretto del profitto del reato in seno alle società interessate le quali avevano tratto vantaggio dai reati; il sequestro preventivo per equivalente sarebbe infatti legittimo solo allorquando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, seppure transitoriamente, ovvero qualora tali beni non siano aggredibili per qualsivoglia ragione; nel caso di specie, ad avviso del ricorrente, il P.M. non avrebbe neppure tentato di esperire un tentativo di verifica, anche sommaria, in merito a tale impossibilità, in quanto gli enti risultavano proprietari di beni immobili di elevato valore commerciale; sebbene non possa pretendersi la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti profitto del reato, la previa verifica dell’impossibilità suddetta risulterebbe mancante nel caso di specie contrariamente a quanto sostenuto dal giudice del riesame; le società risultavano proprietarie di beni immobili, mobili e somme di denaro su alcuni conti correnti come risulterebbe dalle relazioni ex art. 33 R.D. n. 267/1942; il ricorrente sostiene inoltre la confiscabilità del profitto di reato nei confronti della persona giuridica nel caso in cui essa sia mero schermo dell’agente, come verificatosi nella fattispecie sub iudice).

Considerato in diritto

3. Il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.

4. Entrambi i motivi – che stante l’intima connessione dei profili di doglianza tra essi esistente, possono essere congiuntamente esaminati – si presentano sia generici per aspecificità che manifestamente infondati.

Ed invero, il ricorso è anzitutto generico per aspecificità in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella ordinanza impugnata che confuta le identiche doglianze difensive svolte nei motivi di riesame (doglianze che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elemento di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).

5. Le stesse doglianze inoltre sono da ritenersi manifestamente infondate, avendo il tribunale del riesame risolto le argomentazioni difensive tendenti ad ottenere una declaratoria di nullità del decreto di sequestro preventivo per l’asserita illegittimità dell’apprensione per equivalente dei beni e denaro di pertinenza dell’indagato.

6. Al fine di meglio chiarire le ragioni che inducono questa Corte a qualificare come inammissibile il ricorso, è necessario muovere dalla lettura dell’impugnata ordinanza. In particolare, risulta che il Tribunale di Varese confermava il sequestro preventivo disposto dal GIP a carico di C. A. in qualità di amministratore di fatto della P. s.r.I., società facente capo ad un gruppo societario costituito da 4 imprese solo formalmente distinte; il giudice del riesame evidenziava, ai fini della sussistenza del fumus commissi delicti, che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la motivazione per relationem è legittima quando l’atto di riferimento sia conosciuto o agevolmente conoscibile dall’interessato; nel caso di specie. il GIP aveva richiamato un provvedimento emesso dallo stesso, applicativo di una misura cautelare coercitiva a carico del ricorrente, nella quale venivano riassunti compiutamente i fatti risultanti dagli atti trasmessi dal P.M. e richiamanti le indagini compiute dalla Guardia di Finanza di Gallarate, nonché le sommarie informazioni rese da persone informate sui fatti in fase di indagine, consentendo di riscontrare i gravi indizi di colpevolezza costituenti presupposto indefettibile per l’applicazione di una misura cautelare personale; il GIP, inoltre, non avrebbe meramente riprodotto la motivazione contenuta nella richiesta avanzata dalla pubblica accusa, contenendo il provvedimento un’autonoma valutazione degli elementi a sostegno della misura adottata; relativamente al periculum in mora il Tribunale di Varese, rammentando che il sequestro preventivo può interessare beni confiscabili ex art. 321 c.2. c.p.p., evidenzia gli elementi caratterizzanti la confisca in materia tributaria, richiamando segnatamente l’art. 12-bis d. lgs. n. 74/2000, secondo cui è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che essi appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando non sia possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente; qualora dunque non possa procedersi ad una confisca diretta, è ammessa quella per equivalente la quale costituisce una “forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”, caratterizzata dalla mancanza di pericolosità dei beni che ne sono oggetto e dall’assenza di un rapporto di pertinenzialità con il reato; il giudice del riesame richiama inoltre la sentenza di questa Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 10.1.2014 (Gubert) in occasione della quale qualora è stata esclusa, ai sensi dell’art. 322 c.p.p., la possibilità di procedere alla confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi dal legale rappresentante, salva l’ipotesi che la stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti un mero schermo attraverso cui l’amministratore agisce come effettivo titolare; la confisca potrà interessare beni personali degli amministratori solo nell’ipotesi in cui il profitto, o i beni ad esso riconducibili, non sia più nella disponibilità della persona giuridica. Orbene, secondo i giudici del riesame, il P.M. aveva legittimamente richiesto il sequestro preventivo nella forma per equivalente piuttosto che in quella diretta in quanto, in seguito ad una valutazione, sulla base del compendio indiziario acquisito, della situazione patrimoniale dell’ente avvantaggiato dal reato, risultava impossibile il reperimento dei beni costituenti il profitto diretto dell’illecito o suo reimpiego, evidenziandosi inoltre la natura di “schermo” delle società (“P. s.r.l.”. e “L.F.G.”) le quali non avevano disponibilità patrimoniali stante l’intervenuta dichiarazione di fallimento nel 2016. Non meritevole di accoglimento è stata ritenuta dai giudici del riesame anche l’ulteriore doglianza circa la necessità di procedere preventivamente al sequestro dei beni indicati dal ricorrente, in quanto i reati tributari non rientrano tra i reati presupposto ai fini della responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, non essendo la società soggetto attivo dell’illecito e potendo quindi costituire oggetto di confisca solo i beni direttamente riconducibili al profitto discendente dal reato e siano nella disponibilità della persona giuridica, ovvero somme di denaro.

7. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, che induce il tribunale del riesame a ritenere legittimo il sequestro preventivo per equivalente dei beni e del denaro nella disponibilità del ricorrente, deus ex machina dell’operazione illecita, le doglianze dei ricorrenti non hanno pregio in quanto manifestamente infondate, risolvendosi nel “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la ordinanza impugnata e tacciandola per un presunto vizio di violazione di legge e per un’asserita assenza di motivazione con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.

Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la  giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745).

In sostanza, attraverso la denuncia del vizio di violazione di legge e del vizio di assenza della motivazione (unici deducibili ex art. 325, cod. proc. pen.), in realtà il ricorrente svolge censure volte ad attingere l’impugnata ordinanza per vizi non deducibili davanti a questa Corte di legittimità, tenuto conto del limitato ambito cognitivo di questa Corte in sede di sindacato di legittimità dei provvedimenti cautelari reali.

8. La decisione impugnata, peraltro, si sottrae al sindacato di questa Corte attesa la scrupolosa osservanza operata dal giudice collegiale della cautela delle norme di legge.

9. Sul punto è opportuno osservare quanto segue.

10. Quanto alla doglianza con cui si contesta la successiva integrazione del decreto di sequestro preventivo, nessuna norma vieta (e dunque per converso, ciò è consentito) la possibilità per la Pubblica accusa di richiedere al giudice che procede una integrazione del decreto iniziale, includendo ulteriori beni sino al limite di valore precedentemente indicato, senza che ciò possa comportare un onere di motivazione ulteriore in quanto l’applicazione della misura cautelare reale risulta già motivata nel primo provvedimento, semplicemente integrato in ragione dell’irrisorio valore dei beni in precedenza individuati come confiscabili.

11. Quanto alla legittimità della c.d. motivazione per relationem e la possibilità per il giudice di rinviare ad una precedente misura cautelare personale, si osserva che nessun dubbio sorge circa alla natura di atto del procedimento del decreto applicativo di una misura cautelare personale, cui contenuto è certamente conosciuto, o comunque conoscibile, dal soggetto interessato. Ne consegue la legittimità di un rinvio alla motivazione ivi contenuta in sede di applicazione di un sequestro preventivo ai fini della successiva confisca (tanto che la stessa giurisprudenza di questa Corte, a contrario, ha affermato che in tema di sequestro preventivo, la valutazione in ordine al presupposto del “fumus commissi delicti” deve tener conto dell’eventuale annullamento dell’ordinanza dispositiva della misura cautelare personale nei confronti di un coindagato, allorché l’esclusione dei gravi indizi di colpevolezza con riferimento a quest’ultimo sia fondata su una motivazione incompatibile con l’astratta configurabilità della fattispecie criminosa costituente requisito essenziale per l’applicabilità della misura cautelare reale: Sez. 5, n. 21525 del 08/02/2018 – dep. 15/05/2018, Sabatini, Rv. 273127).

Deve, peraltro, evidenziarsi la diversità dei presupposti indefettibili perché l’organo giudicante possa pronunciarsi positivamente sulla richiesta della pubblica accusa, posto che, relativamente alle misure personali si richiede la sussistenza, oltre che delle esigenze cautelari di cui all’art. 294 c.p.p., anche di gravi indizi di colpevolezza, ossia elementi raccolti in fase di indagine dai quali sia possibile dedurre l’addebitabilità del fatto di reato al soggetto che verrà interessato dalla misura coercitiva, custodiale o meno. Di converso, condizioni “più lievi” vengono richieste per le misure cautelari reali, in ragione del diverso interesse che le stesse vengono ad incidere, avente sicuramente valore inferiore rispetto alla libertà personale dell’indagato/imputato. Tali presupposti sono infatti il periculum in mora ed il fumus commissi delicti, donde il P.M. deve allegare alla propria richiesta elementi dai quali poter desumere l’astratta configurabilità, nel caso concreto, del reato addebitato, dovendosi inoltre rammentare le peculiarità caratterizzanti il sequestro preventivo qualora esso sia funzionale a garantire la successiva confisca dei beni interessati, ai sensi dell’art. 321 c.2 c.p.p.

Evidente è quindi la possibilità di escludere che l’accertamento positivo circa i gravi indizi di colpevolezza non possa integrare anche il fumus richiesto per l’applicazione di una misura cautelare reale. Ciò comporta che, nonostante l’autonomia che connota i distinti provvedimenti, non è possibile negare come, salvo quanto sopra espresso, la gravità degli indizi circa la colpevolezza, o meglio, la riconducibilità del reato al soggetto colpito includa necessariamente anche una valutazione in merito alla configurabilità astratta dell’illecito penale.

12. Conclusivamente, il primo motivo è inammissibile, atteso che la mera integrazione del primo decreto di sequestro, includendovi beni ulteriori al solo fine di raggiungere il valore del profitto accertato, non obbliga il giudice a motivare nuovamente la misura cautelare, atteso che l’onere di motivazione, considerato il rinvio operato ad un provvedimento conosciuto dall’interessato in quanto applicativo di una misura cautelare personale coercitiva, recte la custodia in carcere,  non può dirsi violato. Tale conclusione viene inoltre ad essere corroborata dalla maggiore gravità degli elementi probatori richiesti al fine di applicare tale categorie di misure rispetto ad un sequestro preventivo, non essendo preferibile inoltre la funzionalizzazione dello stesso alla confisca, con i connessi aspetti peculiari, quali fra tutti il non necessario rapporto di pertinenzialità tra i beni colpiti dall’ablazione e il reato addebitato;

13. Quanto, poi, alla legittimità del disposto sequestro preventivo strumentale alla confisca per equivalente, oggetto del secondo motivo, deve essere qui ricordato come la giurisprudenza ponga in luce il carattere residuale della confisca per equivalente e del sequestro preventivo che questa garantisce e le è funzionale, dovendo trovare applicazione solo qualora non sia stata possibile un’aggressione diretta del prezzo/profitto del reato (c.d. confisca diretta). Il sequestro finalizzato alla confisca di valore è quindi legittimo solo qualora il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato (nei termini suddetti) sia impossibile, anche solo transitoriamente, essendosi infatti tentato di coniugare le esigenze di celerità connesse all’emissione di una misura cautelare con il principio di preventiva valutazione della sussistenza del profitto del reato nel patrimonio del soggetto, giungendosi alla conclusione di escludere la necessità di una preventiva ricerca generalizzata dei suddetti beni in quanto, durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, sarebbe evidente il rischio di azioni idonee a sottrarre altri beni dall’ablazione definitiva, così vanificando le esigenze di cautela. L’impossibilità giustificante la richiesta di una confisca per equivalente può anche essere transitoria e reversibile, purché sussistente al momento in cui la stessa è presentata e il provvedimento cautelare adottato. Inoltre, sebbene la scelta tra le due forme di confisca non sia “abbandonata” alla discrezionalità del P.M., questo non è tenuto a condurre un accertamento specifico ed ulteriore rispetto a quanto già faccia parte del compendio indiziario preliminare alla propria richiesta (Cass., Sez. III, 11 novembre 2014, n. 1738).

14. Così sinteticamente riassunta l’evoluzione giurisprudenziale sul punto, deve poi tenersi conto dell’ulteriore questione, afferente al tema del sequestro finalizzato alla confisca dei beni dell’ente per i reati commessi dal legale rappresentante.

In merito alle violazioni tributarie poste in essere dagli amministratori di una società, o da altro diverso organo della stessa, si è discusso sia circa la sequestrabilità, ai fini della successiva confisca, di beni facenti parte del patrimonio  societario, essendo la società estranea al fatto illecito, sia circa l’operatività della misura ablativa su beni nella disponibilità degli stessi amministratori nonostante, in ultima analisi, un vantaggio economico fosse stato ottenuto dall’ente. Sul punto si è innestata una ulteriore questione concernente la possibilità di dichiarare la persona giuridica responsabile in applicazione del D.lgs. n. 231/2001 nonostante i reati tributari non siano stati inclusi tra gli illeciti costituenti fonte di responsabilità  amministrativa da reato; come è noto, e come ricorda sia il ricorrente che l’ordinanza impugnata, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014 – dep. 05/03/2014, Gubert) hanno abbracciato tale seconda posizione ponendo l’accento sul carattere “amministrativo” della responsabilità da reato degli enti, sicché la società non è mai autore o coautore dell’illecito penale, negando che il rapporto esistente tra l’ente ed un suo organo possa, ex se, essere suscettibile di fondare l’estensione della confisca di valore, basata su specifiche disposizioni legislative. Corroborante tali affermazioni è il mancato inserimento dei reati tributari tra quelli costituenti presupposto della suddetta responsabilità, non trovando quindi applicazione l’art. 19 D.lgs. n. 231/2001, il quale prevede espressamente anche la possibilità della confisca per equivalente.

Orbene, la giurisprudenza successiva, richiamandosi ai principi fissati dalle Sezioni Unite, ha affermato che, nell’ipotesi in cui, in seguito ad una valutazione allo stato degli atti della situazione patrimoniale della società, sia impossibile procedere nei confronti dell’ente al sequestro del profitto del reato, la misura reale finalizzata alla confisca per equivalente potrà essere richiesta dal P.M. e disposta dal giudice su beni appartenenti all’agente, recte al legale rappresentante (Cass. Sez. IV, 24 gennaio 2018 n. 10418), né è negata la possibilità per la pubblica accusa di chiedere un provvedimento avente struttura mista, prevedendo, in via principale sequestro diretto del profitto del reato conseguito dalla persona giuridica nonché, in subordine e a condizione dell’infruttuosità del primo ovvero dell’impossibilità dello stesso per accertata incapienza del patrimonio sociale, la sottoposizione a vincolo a per equivalente di beni di corrispondente valore nella disponibilità del legale rappresentante che abbia posto in essere l’illecito penale (Cass., Sez. III, 10 maggio 2018, n. 46973; Cass., Sez. III, 1 dicembre 2017, n. 29862).

15. Orbene, nel caso in esame, la difesa si duole per non essere stato nemmeno esperito dal PM un tentativo di reperire beni di pertinenza delle società, laddove invece sarebbe stato possibile aggredire un capannone sito in Arese ed un brevetto di proprietà delle società “schermo”.

L’obiezione, in astratto corretta in diritto (posto che in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può essere disposto sui beni dell’ente, ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni: Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014 – dep. 05/03/2014, Gubert, Rv. 258646), non tiene tuttavia conto della circostanza, fattualmente emersa ed incontestata, per cui le società “proprietarie” di tali cespiti, al momento del sequestro erano già state dichiarate fallite.

Ora, osserva il Collegio, se è certamente legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato, tuttavia, al fine di poter disporre la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica, è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire, non sussistendo un obbligo per la Pubblica Accusa di dover provvedere alla preventiva ricerca di liquidità o cespiti anche nel caso in cui risulti “ex actis” l’incapienza del patrimonio dell’ente (Sez. 3, n. 6205 del 29/10/2014 – dep. 11/02/2015, Mataloni e altro, Rv. 262770). Orbene, atteso l’intervenuto fallimento delle società “schermo”, dunque, il PM ha evidentemente ritenuto che risultasse “ex actis” l’incapienza patrimoniale delle società, richiedendo ed ottenendo dal GIP il sequestro per equivalente dei beni dell’indagato, del resto avendo motivato i giudici del riesame sulla non sequestrabilità per equivalente del brevetto e del capannone in quanto motivatamente ritenuti non costituire reimpiego del profitto dei reati tributari commessi a vantaggio delle società (e, lo si noti per completezza, il ricorrente non contesta tale punto della ordinanza, né in sede di legittimità è possibile operare un accertamento di fatto sul punto, in quanto strettamente  afferente al merito della decisione). Diversamente, ove ciò fosse positivamente emerso, sarebbe stato del tutto legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente di tali cespiti facenti capo alle società schermo, prevalendo il sequestro ex art. 12 bis, d. lgs. n. 74 del 2000 sui diritti di credito vantati sui medesimi beni per effetto della dichiarazione di fallimento, attesa la obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro (Sez. 3, n. 23907 del 01/03/2016 – dep. 09/06/2016, P.M. in proc. Taurino, Rv. 266940).

Conclusivamente, non sindacabile è quindi la correttezza della richiesta della pubblica accusa e del provvedimento cautelare disposto dal GIP, e di conseguenza del provvedimento qui impugnato, con il quale sono stati vincolati beni nella disponibilità del ricorrente per un valore corrispondente al profitto del reato previamente determinato.

16. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro in favore della Cassa delle ammende.