Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 45160 depositata il 6 novembre 2019
Reati fiscali – Frode fiscale – Reato presupposto del riciclaggio – Sequestro di quote societarie nella disponibilità del presunto evasore – Sussiste
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale di Trapani, Sezione penale e per le misure di prevenzione, in funzione di giudice del riesame delle misure cautelari reali, ha disatteso l’appello proposto dal Procuratore della Repubblica di Marsala avverso l’ordinanza del Gip del Tribunale di Marsala del 1.2.2019 che aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo del compendio aziendale della ditta individuale Ge.An., nonché parzialmente rigettato la richiesta di riesame avanzata nell’interesse di G.T., G.I., G.A., quest’ultimo anche nella qualità di amministratore della G.I.A. s.r.l., e R.M.L. avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di Marsala il 6.2.19, confermando il sequestro preventivo limitatamente al reato tributario di cui al D.Lgs. 74/200, art. 2, contestato al capo E dell’imputazione provvisoria a G.T. e Ge.An. (per avere essi nelle rispettive qualità di amministratore di fatto e di diritto della G.I.A. s.r.l. in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di evadere le imposte sul reddito delle società nelle dichiarazioni annuali mod. unico della G.i.a. s.r.l. relative agli anni d’imposta 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016, indicato elementi passivi fittizi pari agli importi analiticamente indicati per ciascun anno d’imposta nell’imputazione, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla ditta individuale D.N.M., fatture tutte regolarmente registrate nella contabilità della G.i.a. s.r.l. e/o comunque da questa detenute al fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria).
Il Tribunale ha, invece, in parziale accoglimento della richiesta di riesame, annullato il provvedimento del G.I.P. del 1.2.2019 in relazione al sequestro preventivo disposto nei confronti di G.A. e G.T. fino alla concorrenza di Euro 94.604, o, in mancanza, per equivalente fino alla concorrenza della medesima somma, nonché in relazione al sequestro preventivo disposto sempre nei confronti dei predetti fino alla concorrenza di Euro 624.2008, oltre che rispetto al seminterrato ed al piano primo dell’immobile sito in Castelvetrano; nonché annullato il decreto di sequestro emesso il 6.2.2019 nei confronti della G.i.a. s.r.l. fino alla concorrenza di Euro 94.604, o in mancanza, per equivalente fino alla concorrenza della medesima somma e quello relativo all’imbarcazione Gaia disposto nei confronti di G.A..
Ha inoltre dichiarato inammissibile la richiesta di riesame avanzata nell’interesse della G.i.a. s.r.l. da G.A. quale amministratore della stessa (stante la sua posizione di incompatibilità essendo egli indagato per i reati rispetto ai quali risulta elevata l’imputazione per illecito amministrativo nei confronti della medesima società).
2. Ricorrono per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani e, per il tramite dei loro difensori, G.A., G.I., in proprio ed anche nella qualità di socio al 50 %, e G.T., ed affidano le loro doglianze ai rispetti atti di impugnazione.
3. Il Procuratore della Repubblica deduce sia violazione di legge in relazione alla ritenuta insussistenza del fumus commissi delicti con riferimento ai reati di cui agli artt. 646, 648 bis, 648 ter.1. c.p. (di cui rispettivamente ai capi F, G, H e K), sia il vizio argomentativo per non avere il Tribunale del riesame, nell’annullare i sequestri, fornito una motivazione dotata dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza.
Rammenta che i ricorrenti sono indagati sia di reati di riciclaggio di notevoli quantità di oro di provenienza illecita (capi G ed H), acquistati sia da soggetti malavitosi che da titolari di esercizi commerciali aventi ad oggetto l’acquisto di oro usato, commessi dai medesimi attraverso la società G.i.a. s.r.l., esercente l’attività di commercio all’ingrosso di materiali non ferrosi, sia di reati di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti emesse da parte dell’indagato del reato di cui al capo D, D.N., col duplice fine di occultare la provenienza illecita dell’oro successivamente ceduto ad ignare fonderie (fatti di riciclaggio contestati ai capi G ed H), e di garantire alla citata società G.i.a. un notevole risparmio di imposta mediante l’indicazione, nelle dichiarazioni fiscali, elementi passivi fittizi di cui alle citate FOI (capo E).
Evidenzia come il Tribunale in maniera illogica e contraddittoria abbia da un lato, convalidato l’ipotesi delittuosa di cui al capo E di utilizzo di fatture per operazioni insussistenti, in realtà, emesse dal D. in favore degli indagati anche e soprattutto per consentire di occultare la provenienza illecita dell’oro (poi oggetto di cessione alla Valmet per la fusione), dall’altro, ritenuto la insussistenza dei gravi indizi in ordine alle ipotesi di riciclaggio ed autoriciclaggio.
Assume che sia sufficiente al riguardo anche la sola prova logica per inferirsi che l’operazione non potesse che essere finalizzata all’occultamento della origine delittuosa e al riciclaggio, quindi, dell’oro, con la conseguenza che deve ritenersi del tutto carente di motivazione non solo il provvedimento di annullamento del Tribunale del Riesame del 1.2.19, ma anche quello del 6.2.19 (nei confronti della G.i.a. s.r.l., anche per equivalente fino alla concorrenza di Euro 94604).
Sostiene che deve ritenersi allo stesso modo viziato il provvedimento impugnato anche con riferimento all’ipotesi dell’autoriciclaggio di cui al capo K reinvestimento dei valori derivanti dagli illeciti penali nella nuova attività di franchising intrapresa mediante la ditta individuale di G.A. segnatamente nella parte in cui afferma che non sussistono elementi sufficienti per inferirsi che le somme investite nella nuova attività siano di provenienza illecita, una volta escluso il fumus dei reati di cui ai capi F ed H (delitti di appropriazione indebita e riciclaggio per la fusione dell’oro), e non essendo certamente transitate dalle casse della società le somme ricavate dal delitto di cui al capo G (riciclaggio fusione oro ritenuto assorbito nel reato di cui al capo H), di importo esiguo rispetto all’investimento effettuato.
Contesta il provvedimento impugnato anche nella parte in cui afferma che manca la prova che il D., a fronte delle fatture inesistenti e del prezzo ricevuto – sempre ai fini dell’apparenza – abbia poi effettivamente restituito le somme agli indagati (trattandosi di restituzione che sarebbe avvenuta in contanti) e conclude per l’impossibilità di ritenere provata l’ipotesi dell’autoriciclaggio anche rispetto a tali valori.
Quanto alla appropriazione indebita di cui al capo F, osserva che trattasi, comunque, di reato che si consuma già al momento in cui l’amministratore distoglie il bene – qui il danaro – dalle casse sociali e lo destini a scopi estranei a quelli societari (versandolo, come nel caso di specie, ad un terzo al solo fine di dimostrare il pagamento di fatture per operazioni inesistenti, a nulla rilevando il passaggio successivo della restituzione).
Indi, a fronte della prova del pagamento di fatture inesistenti il Tribunale avrebbe dovuto ritenere integrato il reato di appropriazione indebita.
Né il Tribunale ha spiegato perché i G. avrebbero dovuto pagare fatture per operazioni inesistenti senza averne garantita la restituzione, pur emergendo, peraltro, che, a fronte dei versamenti delle somme sul conto del D., risultino prelievi, sempre in corrispondenza, da parte del medesimo.
Quanto al profilo della mancanza della condizione di procedibilità rispetto al reato di cui all’art. 646 fa rilevare che per il delitto di cui all’art. 648 ter.1. c.p. si applica l’art. 648 c.p., u.c., e che pertanto lo stesso sussiste a prescindere dalla sussistenza della condizione di procedibilità in relazione al reato presupposto.
Evidenzia, infine, che comunque il reato presupposto dell’autoriciclaggio può essere costituito anche da un reato tributario, nel caso di specie quello di cui al D.Lgs. 74/200, art. 2 di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, mediante il quale l’agente, evitando di pagare le imposte, consegue un risparmio di spesa (nell’ipotesi in scrutinio pari ad Euro 173.856,56) che si traduce in un mancato decremento del patrimonio e quindi in una sua utilità di natura economica, suscettibile di autoriciclaggio.
Né potrebbe ritenersi, infine, giustificato l’impiego di risorse lecite con i finanziamenti che si assumono intervenuti da parte dei familiari del Ge.An., sussistendo fondato fumus anche in ordine alla illiceità delle stesse somme oggetto di donazione da parte dei parenti.
Conclude che devono pertanto ritenersi travolte anche le motivazioni poste a sostegno del rigetto dell’appello proposto dal Pubblico ministero avverso il rigetto della richiesta di sequestro preventivo della impresa individuale di G.A. in relazione al reato di cui al capo K, e dell’annullamento del sequestro nei confronti di tutti i G. e di R. limitatamente al seminterrato e al primo piano dell’immobile sito in (omissis) e all’imbarcazione, attesa, in ogni caso, la indicata sproporzione sussistente tra le fonti reddituali lecite dei predetti e gli investimenti effettuati. Osserva che è del tutto illegittimo ritenere che residui la sola ipotesi di cui al capo G, quale ipotesi di reato legittimante il sequestro ex art. 240 bis c.p., che tuttavia si esaurisce in un arco temporale di pochi mesi (da aprile a giugno 2015), e che, laddove, più correttamente, si ritenga sussistente anche l’ipotesi di riciclaggio di cui al capo H, il lasso temporale è ben più ampio e tale certamente da dimostrare la copertura delle spese coi proventi illeciti stante la sproporzione, in ogni caso, esistente tra le stesse e le fonti ritenute lecite (l’ultimo acconto in contanti versato alla società edile costruttrice dell’immobile di via (omissis) risulta versato il 8.5.2013, ossia proprio nel periodo di commissione dei delitti di cui ai capi G ed H; lo stesso dicasi per l’imbarcazione la cui liceità dell’acquisto sarebbe da ricondurre alla provvista lecita che era, però, del tutto insufficiente per il pagamento del prezzo di Euro 130.000 circa).
4. Con il ricorso per cassazione, a firma congiunta dei rispettivi difensori, G.A., G.I., in proprio ed anche nella qualità di socio al 50 %, la predetta in quanto proprietaria delle quote societarie colpite dal provvedimento segregativo e come tale avente diritto alla restituzione – e G.T. articolano quattro motivi.
4.1. Col primo motivo denunciano il vizio di violazione di legge e di motivazione in relazione agli artt. 321 e 125 c.p.p., per avere il giudice distrettuale messo a corredo del provvedimento di sequestro delle quote sociali della G.I.A. s.r.l., in misura del 50 % di proprietà di G.I., una motivazione del tutto carente, avendo, da un lato, ritenuto insussistente il fumus commissi delicti con riferimento a tutti i reati posti a fondamento delle misure reali, ivi compreso il sequestro delle quote della G.i.a., – ad eccezione delle condotte delittuose di cui al capo E avente ad oggetto i soli reati tributari di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 -, e dall’altro, ciò nondimeno, confermato il sequestro delle dette quote, affermando che la disponibilità delle stesse in capo ai predetti avrebbe potuto aggravare le conseguenze dei reati ed agevolare la commissione di ulteriori.
Si evidenzia che, in ogni caso, la G.I. non è indagata per il reato tributario di utilizzazione di false fatturazioni, di cui al capo E, contestato esclusivamente a G.A. e G.T., con la conseguenza che per la predetta manca proprio il reato presupposto; l’ordinanza è, comunque, affetta da nullità per mancanza di motivazione.
4.2. Col secondo motivo deducono violazione di legge in relazione agli artt. 321 e 125 c.p.p., evidenziando che difetta il periculum in mora in relazione al sequestro del 50 % delle quote della G.i.a. di proprietà di G.A., e che, comunque, la motivazione al riguardo è del tutto mancante.
Innanzitutto si assume che, essendo unica la condotta illecita residuata in sede di riesame, non si possa ritenere sussistente il pericolo di reiterazione stante, appunto, la episodicità del fatto delittuoso, peraltro risalente a tre anni antecedenti rispetto al provvedimento di sequestro (e quindi non attuale).
4.3. Col terzo motivo deducono violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, artt. 321 e 125 c.p.p., art. 27 Cost., comma 1, lamentando la erronea applicazione della legge penale sostanziale con riferimento al reato di cui all’art. 2 cit., provvisoriamente contestato a G.A. e G.T., e mancanza assoluta di motivazione e violazione del principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è personale.
Si assume che anche attraverso la consulenza tecnica di parte, riportata nel corpo della memoria presentata in sede di riesame, si è dimostrata la insussistenza del reato, per essere manifestamente infondata l’ipotesi investigativa secondo cui la G.I.A. s.r.l. avrebbe trasferito alla Valmet s.r.l., per la fusione e la cessione, gioielli e preziosi di provenienza illecita (capi G ed H), facendoli apparire di provenienza lecita mediante la predisposizione di fatture per operazioni inesistenti (capo E) da parte della ditta individuale del coindagato D.N. (tant’è che lo stesso Tribunale ha, in definitiva, ravvisato solo il fumus per il reato fiscale di cui all’art. 2 cit. ma ciò, peraltro, senza tener minimamente conto del fatto che la misura personale era stata annullata anche con riferimento a tale reato).
Né potrebbe in ogni caso ritenersi sussistente l’ipotesi dell’aumento fittizio dei costi mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti contestata al capo E dal momento che tali costi sarebbero comunque neutralizzati dai ricavi derivati dalle cessioni dei preziosi alla Valmet.
La motivazione al riguardo è del tutto carente ed integra la violazione di legge.
4.4. Col quarto motivo deducono violazione della legge sostanziale e vizio di motivazione in relazione all’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. A, D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 25 octies e 39, censurando la declaratoria di inammissibilità pronunciata con riferimento alla richiesta di riesame proposta da Ge.An. in qualità di amministratore della G.I.A. s.r.l. per difetto di legittimazione attiva (si rammenta che è stato ritenuto incompatibile rispetto alla designazione del difensore di fiducia per l’ente societario, rivestendo egli la qualità di indagato).
Si evidenzia che, in realtà, il G. è rimasto indagato solo con riferimento al reato di cui all’art. 2 cit. – peraltro anch’esso mettibile in discussione per quanto sopra osservato – e che, quindi, lo stesso non verserebbe in alcuna posizione di incompatibilità rispetto all’ente nei cui confronti sono elevati illeciti amministrativi per ipotesi di reato diverse da quella di cui al capo E contestata al G..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso del Procuratore della Repubblica di Marsala è inammissibile al pari di quelli proposti nell’interesse di Ge.An., G.I. e G.T.. Benché le censure mosse all’ordinanza impugnata siano prospettate come violazione di legge, nel cui ambito rientra la motivazione del tutto assente o apparente, come da giurisprudenza di questa Corte, esse denunciano in realtà vizi di motivazione – a tratti implicanti addirittura valutazioni in fatto – non deducibili in sede di legittimità.
2. Invero l’ordinanza dà conto, con motivazione non apparente, a fronte della quale questa Corte non è chiamata a valutare se tale opzione interpretativa abbia maggior valore di quella dei ricorrenti, delle ragioni per le quali si è ritenuto che risultasse, da un lato, il fumus dei reati di cui al capo E dell’imputazione provvisoria e che non vi fosse prova, dall’altro, dei reati contestati ai capi H (riciclaggio degli oggetti in oro), F (appropriazione indebita per Euro 624.208) e K (autoriciclaggio del danaro ricavato dai delitti di cui ai precedenti capi di imputazione).
Con argomentazione che si segnala per completezza e pertinenza il Tribunale del riesame ha ritenuto, del tutto plausibilmente, che l’assunto difensivo circa l’immediata evidenza della mancanza di prova anche con riferimento alla fattispecie – residua – della frode fiscale di cui al capo E non fosse fondato, e parimenti destituito di fondamento l’appello del PM.
2.1. Ha spiegato che, pur essendo emerso che gli indagati compravano l’oro a nero non si era riuscito a stabilire con esattezza se si fosse trattato di beni di provenienza delittuosa – rubati – o di altro; l’unico accertamento che aveva condotto a risultati univoci era quello afferente la intermediazione dell’impresa individuale del D. mediante la quale venivano fatturati i costi di acquisto dell’oro, in realtà non comprato dall’impresa del D. – risultata essere sostanzialmente inesistente – ma da altri soggetti, di talché l’impresa del D. consentiva, in definitiva, di fatturare costi, evidentemente, non diversamente fatturabili, e di indicare corrispondenti elementi passivi fittizi nelle dichiarazione fiscale (con conseguente evasione di imposta), con la conseguente configurazione del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2.
Né potrebbe desumersi la prova della non fittizietà delle operazioni dal fatto che – come assumono le difese – l’oro veniva poi attraverso regolari atti effettivamente ceduto alla Valmet s.p.a. per la fusione, non essendo in discussione né la esistenza dell’oro né il suo trasferimento alla detta società per essere fuso, trasferimento che, piuttosto, verosimilmente avveniva in maniera regolare proprio perché l’oro era entrato formalmente nella disponibilità della G.I.A. attraverso il passaggio fittizio dell’apparente vendita da parte dell’impresa del D.. D’altronde la fittizietà di tale cessione di oro da parte dell’impresa individuale del D. era comprovata, soprattutto, dalla sostanziale inesistenza della stessa impresa del D., che avrebbe operato limitatamente ad alcuni mesi e con organizzazione del tutto insufficiente – come accertata sulla base di una pluralità di elementi dalla gdf, cfr. pag. 5 dell’ordinanza impugnata -, circostanza che rendeva certa la non possibilità di una siffatta vendita e per importi così elevati da parte della medesima alla G.I.A. (per complessivi Euro 675.082,81).
Il Tribunale del Riesame ha quindi chiarito che la mancanza di prova degli uni – reati di cui ai capi F e H – non si ripercuote sulla prova degli altri ovvero dei reati tributari, la cui sussistenza è comprovata dalle circostanze anzidette, essendo sufficiente ai fini della loro integrazione l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (nel caso di specie operazioni mai intervenute tra la impresa individuale del D. e la GIA).
2.2. In altri termini, difetta la prova in ordine a quanto verificatosi a monte della detta fatturazione – acquisto dell’oro al mercato illecito – ed a valle di essa – sorte del danaro che gli indagati avrebbero ricevuto, in restituzione, in contanti dal D. e reinvestimento del complessivo profitto derivante da tutti i delitti contestati nell’impresa di franchising Canna store di cui al capo K (autoriciclaggio).
Non potendosi, in particolare, con certezza individuare la derivazione dell’oro acquistato – se proveniente da delitto (furto, ricettazione, ecc.) o da altro – si è, invero, ritenuta non provata da parte del Tribunale innanzitutto l’ipotesi del riciclaggio di cui al capo H dell’imputazione provvisoria (in relazione all’oro trasferito alla Valmet s.p.a. per la fusione), mancando la prova certa della provenienza delittuosa dell’oro medesimo (attesa la parzialità degli esiti delle intercettazioni eseguite a carico dei venditori reali che non consentivano di ricostruire con certezza tutta la provenienza dell’oro, che rimaneva dubbia in relazione al suo complessivo ammontare, essendosi giunti ad accertare con certezza la derivazione delittuosa solo limitatamente agli acquisti di oro dai coniugi S.-A. nel circoscritto periodo tra aprile e giugno 215 per un valore di Euro 12000, (capo G), del tutto irrisorio rispetto all’importo complessivo (di cui al capo H, tant’è che l’ipotesi di cui al capo G veniva ritenuta assorbita in quella di cui al capo H).
Con la conseguenza che non si è potuto neppure ritenere provato che la falsa fatturazione fosse stata posta in essere anche al fine di occultarsi la natura dell’oro, per poi inferirsi da ciò – come fatto dal PM con procedimento inferenziale non corretto – la natura illecita dello stesso perché la mancanza di prova della provenienza delittuosa dell’oro non può in alcun modo essere colmata in base a deduzioni logiche che presuppongono, in realtà, la certezza a monte proprio di quel dato mancante.
A fronte di tale coerente ricostruzione rispetto alla quale, peraltro, lo stesso Procuratore della Repubblica conclude osservando che, in ogni caso, dovesse ritenersi provata la provenienza delittuosa, trattandosi di beni comunque acquisiti sotto la copertura delle FOI, è solo il caso di rammentare che il reato di riciclaggio presuppone la provenienza delittuosa del bene, a nulla potendo rilevare, invece, a tal fine l’acquisizione del bene mediante meccanismo illecito, quale la fatturazione per operazione inesistente, che rende illecito il profitto in tal modo conseguito – imposta evasa – ma non incide, di per sé, sulla provenienza del bene apparentemente oggetto della falsa fatturazione (che, in realtà, manca perché nessuna cessione è in effetti avvenuta tra le parti); e, anche a volersi ritenere che quelle fatture fossero a copertura di beni in realtà acquisiti da altri soggetti senza fatturazione, difetterebbe comunque la prova della provenienza delittuosa di quei beni, necessaria affinché l’operazione del successivo trasferimento degli stessi ai fini della fusione alla Valmet possa qualificarsi come riciclaggio (dal momento che solo la derivazione delittuosa rende il bene suscettibile di riciclaggio; riciclaggio che potrà poi avvenire anche attraverso le FOI, ma deve trattarsi pur sempre, a monte, di bene avente certa provenienza delittuosa per potersi definire l’operazione come riciclaggio).
Il Tribunale ha, poi, in relazione al reato di appropriazione indebita (capo F), osservato che non vi fosse la prova della avvenuta restituzione in contanti della somma versata al D. in relazione alle false fatturazioni del capo E, e che in ogni caso il reato, sebbene aggravato ex art. 61 c.p., n. 11, non fosse procedibile in mancanza di querela, essendo stato abrogato dal D.Lgs. n. 36 del 2018, art. 10 in vigore dal 10.5.2018, l’art. 646 c.p., comma 3 che consentiva la procedibilità di ufficio per tale ipotesi di reato.
Di là della avvenuta restituzione o meno della somma – e dell’astratta possibilità di ravvisarsi la condotta appropriativa indebita nel versamento della somma in favore del D. a fronte di operazioni inesistenti anche in caso di intervenuta restituzione della stessa in contanti trattandosi di reato istantaneo deve ritenersi dirimente la circostanza del difetto della condizione di procedibilità rispetto alla quale il Procuratore, impugnante, non ha contro-dedotto nulla di specifico, dando, in realtà, per pacifica la mancanza della querela (essendosi, piuttosto, appellato all’applicabilità dell’art. 648 c.p., u.c. in relazione all’art. 648 ter.1. c.p. che però non rileva ai fini della procedibilità del delitto di cui all’art. 646 c.p.).
Ed invero, trovando, nel caso di specie, applicazione, per il principio del tempus regit actum, il nuovo disposto normativo di cui al D.Lgs. n. 36 del 2018, art. 10, in vigore dal 10.5.2018, che ha abrogato l’art. 646 c.p., comma 3, che consentiva la procedibilità di ufficio per tale ipotesi di reato, deve ritenersi che in difetto di querela – evidentemente neppure in seguito proposta – l’azione penale sia improcedibile con la conseguenza che il ricorso del Procuratore della Repubblica non può essere accolto neppure in parte qua.
2.3. Residua l’ipotesi criminosa di cui al capo K, parimenti già ampiamente valutata dal Tribunale che è giunto alla conclusione della mancanza di fumus circa la sua sussistenza per non essere certo che il danaro investito fosse quello di provenienza illecita derivato dalla commissione dei delitti ravvisati – come ridimensionati dallo stesso Tribunale in quelli tributari -, considerate le provviste lecite risultate a disposizione del G.A. nel medesimo periodo in cui intervennero i bonifici in favore della Canna Store s.r.l.; circostanza con la quale, in definitiva, le deduzioni operate dal PM in ricorso – peraltro apparentemente di natura logica ma in realtà prive di valenza inferenziale risolvendosi piuttosto in mere congetture (come l’asserito fumus in ordine alla illiceità delle stesse somme oggetto di donazione da parte dei parenti) – non si confrontano. Esse si sono, piuttosto, limitate a sostenere – pure a fronte di dati emergenti per tabulas o, di contro, non certi – che il reato presupposto dell’autoriciclaggio può essere costituito anche dal reato tributario di cui all’art. 2 cit., laddove il Tribunale ha, in realtà, escluso che vi sia la prova dell’impiego di provvista illecita – di là della ricorrenza del reato presupposto – in considerazione della emergenza di disponibilità lecite in capo al disponente.
Le ulteriori deduzioni operate al riguardo dal Procuratore della Repubblica devono ritenersi assorbite nelle ragioni di inammissibilità degli altri motivi, già sopra esposte.
In definitiva, né il PM né gli altri ricorrenti si sono confrontati con le argomentate osservazioni svolte nel provvedimento impugnato, che hanno condotto, attraverso iter logico-ricostruttivo immune da carenze o illogicità evidenti e tali da rendere insussistente la motivazione, a delineare la sussistenza unicamente del reato tributario, continuato, di cui al capo E, quale ipotesi delittuosa a sé stante, supportata da specifici elementi suoi propri, la cui configurazione, in buona sostanza, non collide con la ritenuta insussistenza degli altri reati (né potrebbe assumere alcun rilievo al riguardo il prospettato annullamento della misura personale anche in relazione al reato tributario de quo); ed hanno, in definitiva, dedotto una contraddittorietà e carenza motivazionale del tutto insussistente.
Nel caso di specie – in altri termini – la motivazione dell’ordinanza impugnata non solo non presenta alcun vizio che possa far ritenere sussistente la “violazione di legge” di cui all’art. 325 c.p.p., ma è così esaustiva, logica e non contraddittoria che porterebbe alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso anche se non operasse il limite di cui all’art. 325 c.p.p..
3. Quanto, infine, alle contestazioni difensive che attingono il sequestro delle quote della G.I.A. s.r.l., effettuato nei confronti di Ge.An. e G.I. quali intestatari, ciascuno, al 50 % delle stesse sotto il profilo della sussistenza del periculum, non si può che rimandare alla esaustiva motivazione svolta anche al riguardo dal Tribunale, che ha evidenziato, innanzitutto, la stretta strumentalità esistente tra la società G.I.A. s.r.l. ed i reati per i quali è stato ritenuto il fumus (reati tributari di cui al capo E), concludendo che non sussiste alcun dubbio che la disponibilità delle quote sociali da parte degli indagati potrebbe aggravare le conseguenze dei reati ed agevolare la commissione di ulteriori reati.
Né possono nutrirsi dubbi sulla sequestrabilità della quota di G.I. nonostante la stessa non risulti formalmente indagata per il reato di cui al capo E. Ed invero, secondo un principio acquisito in giurisprudenza, oggetto del sequestro preventivo può essere qualsiasi bene – a chiunque appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato – purché esso sia, anche indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti (Massime precedenti Conformi: N. 2296 del 1992 Rv. 190789, N. 156 del 1993 Rv. 193692, N. 1565 del 1997 Rv. 208463, N. 4496 del 1999 Rv. 214033, N. 29797 del 2001 Rv. 219855, N. 1246 del 2003 Rv. 228224, N. 38728 del 2004 Rv. 229610, N. 24685 del 2005 Rv. 231977, Cass. Sez. 3, 6-12-2007 n. 2887, Cass. Sez. 5, 16-6-2007 n. 37033, N. 27340 del 2008 Rv. 240573, N. 1806 del 2009 Rv. 242262, N. 17865 del 2009 Rv. 243751; ne consegue, in particolare, che nulla si oppone, in teoria, anche al sequestro di un’intera azienda, allorché vi siano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali sia, proprio per la sua collocazione strumentale, in qualche modo utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando che l’azienda in questione svolga anche normali attività imprenditoriali, Cass. Sez. 6, 20-6-2001 n. 29797).
La possibilità di sottoporre a sequestro preventivo beni formalmente nella disponibilità di terzi estranei al procedimento penale impone, ovviamente, ai fini dell’accertamento della sussistenza del periculum considerato dall’art. 321 c.p.p., una pregnante valutazione, sia pure in termini di semplice probabilità, del collegamento di tali beni con le attività delittuose dell’indagato; collegamento che, in particolare, può essere desunto da elementi che appaiano indicativi della effettiva disponibilità dei beni da parte dell’indagato, per effetto del carattere meramente fittizio della loro intestazione, ovvero di particolari rapporti in atto tra il terzo titolare e l’indagato. (Sez. 6, n. 27340 del 16/04/2008 – dep. 04/07/2008, P.M. in proc. Cascino, Rv. 24057301; a tal fine possono rilevare anche i rapporti di parentela, Sez. 5, Sentenza n. 11287 del 22/01/2010 Cc. Rv. 246359; non va sottaciuto che si è peraltro giunti ad affermare che il sequestro preventivo non finalizzato alla confisca implica l’esistenza di un collegamento tra il reato e la cosa e non tra il reato e il suo autore, sicché possono essere oggetto del provvedimento anche le cose in proprietà di un terzo, estraneo all’illecito ed in buona fede, se la loro libera disponibilità sia idonea a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti, cfr. Sez. 3, Sentenza n. 57595 del 25/10/2018 Cc. Rv. 274691, in motivazione la Corte ha precisato che, diversamente, lo stato di buona fede del terzo estraneo al reato rileva ove il sequestro sia stato disposto esclusivamente ai sensi dell’art. 321 c.p.p., comma 2, in quanto funzionale alla confisca; Sez. 5, Sentenza n. 11287 del 22/01/2010 Cc. Rv. 246359).
Nel caso di specie, il Tribunale ha ben messo in evidenza che il sequestro delle quote societarie è stato disposto ai seni dell’art. 321 c.p.p., comma 1 per la ravvisata strumentalità delle quote societarie per porsi in essere i reati tributari contestati e che deve pertanto ritenersi certamente giustificata ai sensi della suindicata norma l’apprensione delle stesse al fine di scongiurarsi la protrazione dei medesimi reati.
Né, peraltro, la eventuale incompletezza della motivazione al riguardo sarebbe deducibile con ricorso per cassazione poiché non vale ad integrare il vizio di “violazione di legge”, questa ricorrendo soltanto in presenza di motivazione graficamente assente o apparente. D’altra parte, sul punto integrante la attestazione di una situazione di fatto proveniente dal giudice del merito, la censura del ricorrente è del tutto generica e consiste in una mera negatoria della circostanza stessa sicché è comunque da escluderne, anche per tale ragione, la ammissibilità.
Infine, circa la censura che attiene specificamente alla natura del bene sequestrato (quote sociali), è appena il caso di rievocare la giurisprudenza di legittimità ed in particolare la sentenza Sez. 5, n. 21810, del 13 aprile 2004, Aiello (Rv. 228101), che ha rilevato come sia legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società, pur se appartenenti a persona estranea al reato, qualora detta misura sia destinata ad impedire la protrazione dell’ipotizzata attività criminosa, poiché ciò che rileva in questi casi non è la titolarità del patrimonio sociale ma la sua gestione, supposta illecita, e si può, d’altra parte, riguardare il sequestro preventivo come idoneo ad impedire la commissione di ulteriori reati, pur se in maniera mediata ed indiretta, dal momento che esso priva i soci del diritti relativi alle quote sequestrate, mentre la partecipazione alle assemblee ed il diritto di voto (anche in ordine all’eventuale nomina e revoca degli amministratori), spettano al custode designato in sede penale (massime precedenti Conformi: N. 2853 del 1995 Rv. 202642, Sez. 5, Sentenza n. 11287 del 22/01/2010 Cc. Rv. 246359). Ed ancora, è stato, altresì, affermato che è legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società appartenenti a persona estranea al reato, qualora sussista un nesso di strumentalità tra detti beni ed il reato contestato ed il vincolo cautelare sia destinato ad impedire, sia pure in modo mediato e indiretto, la protrazione dell’ipotizzata attività criminosa, ovvero la commissione di altri fatti penalmente rilevanti, attraverso l’utilizzo delle strutture societarie. (Sez. 2, Sentenza n. 31914 del 09/07/2015 Cc. (dep. 21/07/2015) Rv. 264473, nella specie, la S.C. ha ritenuto sussistente il nesso di strumentalità tra le quote di due società in sequestro, appartenenti a prossimi congiunti degli indagati, ed i reati di estorsione ed illecita concorrenza commessi da questi ultimi avvalendosi delle predette società).
Né coglie nel segno il rilievo con cui si contesta la sussistenza del periculum assumendosi la episodicità e la non attualità dell’unica condotta delittuosa residuata in sede di riesame (quella di cui all’art. 2 cit.), dal momento che essa non si esaurisce affatto in un’azione isolata e risalente nel tempo, essendo innumerevoli le fatture emesse per operazioni inesistenti ed utilizzate poi nelle rispettive dichiarazioni dei redditi, nell’ambito di esteso arco temporale che va fino al 14.12.2016.
4. Con motivazione del pari ineccepibile, sia sotto il profilo del riferimento ai dettami normativi regolanti la materia, che dell’interpretazione datane da questa Corte, il Tribunale ha, altresì, già spiegato che è inammissibile la richiesta di riesame avanzata nell’interesse di G.A., nella qualità di amministratore della G.I.A. s.r.l., per difetto di legittimazione attiva, sussistendo, in tema di responsabilità da reato degli enti, il divieto di rappresentanza dell’ente da parte dell’indagato imputato del reato presupposto D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 39, con conseguente impossibilità da parte del medesimo di provvedere alla nomina del difensore di fiducia dell’ente; divieto che secondo l’interpretazione costante di questa Corte sussiste sin dalla fase delle indagini preliminari e si fonda su presunzione iuris et de iure dell’esistenza di conflitto di interessi in caso di legale rappresentante indagato/imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo (nel caso di specie – anche – quello di cui al capo M in relazione al delitto di cui al capo E, ma non solo quello risultando il G. indagato anche di altri reati presupposto di illecito amministrativo all’atto della proposizione del riesame); laddove, pur risultando nel caso in esame designato dal PM un difensore di ufficio alla società, stante la suindicata incompatibilità, la richiesta di riesame risulta presentata dal difensore di fiducia del legale rappresentante, incompatibile per i motivi anzidetti. (In tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell’ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 39; è, quindi, inammissibile, per difetto di legittimazione rilevabile di ufficio ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. a), la richiesta di riesame di decreto di sequestro preventivo presentata dal difensore dell’ente nominato dal rappresentante che sia imputato o indagato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, Sez. U, Sentenza n. 33041 del 28/05/2015 Cc. – dep. 28/07/2015 – Rv. 264311; Sez. 3, Sentenza n. 5447 del 21/09/2016 Cc. – dep. 06/02/2017 – Rv. 269754).
Nondimeno il Tribunale, ex art. 587 c.p.p., estendeva gli effetti favorevoli dell’impugnazione proposta da G.A. e G.T. anche in favore della G.I.A. s.r.l..
5. Alla stregua delle argomentazioni, rispettivamente, svolte, i ricorsi devono essere dichiarati tutti inammissibili e ciascuno dei ricorrenti G.T., G.I. e G.A. deve essere condannato al pagamento delle spese di procedimento e della somma di Euro 3.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del PM. Dichiara inammissibili i ricorsi di G.T., G.I. e G.A. e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 ciascuno a favore della Cassa delle ammende.
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