CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 37107 depositata il 26 luglio 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 14.10.2016, il Tribunale di Genova rigettava l’istanza di riesame proposta nell’interesse dell’indagato Girotti Massimo avverso il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente in relazione al reato di cui all’art. 5 d.lvo 74/2000 ed avente ad oggetto beni mobili ed immobili nella disponibilità dell’indagato fino all’importo di euro 791.375,48. 2. Avverso tale ordinanza ha proposto personalmente ricorso per cassazione GIROTTI MASSIMO, articolando i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
Con il primo motivo deduce violazione degli artt. 24 e 27 Cost., 117 Cost e 6 CEDU, sostenendo che lo sviluppo argomentativo posto a sostegno del provvedimento ablatorio appare configgere con il superiore principio del divieto di autoincriminazione codificato dall’art. 7 della direttiva 343/2016IUE (“gli stati membri assicurano che gli indagati e imputati godano del principio di non auto incriminarsi”), principio già sintetizzato nel noto brocardo “nemo tenetur se detegere”.
Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 53 Cost. in relazione all’art. 1 dpr n. 917/86, argomentando che la condotta di chi si appropria di somme altrui non costituisce attività lavorativa o commerciale produttiva di ricchezza e, come tale, fatto non espressivo di capacità contributiva.
Con il terzo motivo deduce violazione dell’art. 3 comma 136 l 662/96 e art. 1 dpr 322/1998, argomentando che la fattispecie contestata risulta impossibile perché i modelli di dichiarazione non consentono l’inserimento delle somme derivanti da attività illecite.
Con il quarto motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 5 d.lvo 74/2000 e 7 comma 1 dpr 917/86, argomentando che difetterebbe ogni accertamento finalizzato a determinare, per ogni singolo anno di imposta, le somme oggetto di percezione illecita per verificare il superamento della soglia di punibilità; andrebbe, inoltre, tenuto conto della natura degli illeciti civili addebitabili (gestione infedele dei beni e dei servizi comuni condominiali ed atti distrattivi del patrimonio condominiale) e della circostanza che la disponibilità materiale delle somme oggetto di distrazione sussisterebbe- di fatto- sin dal momento in cui il predetto avrebbe provveduto al relativo prelievo dal conto corrente bancario ovvero alla disposizione di bonifico verso altro conto corrente. Chiede, pertanto, l’annullamento della ordinanza impugnata.
Il Sostituto Procuratore Generale della Repubblica presso questa Corte di Cassazione ha rassegnato ex art. 611 cod. proc. pen. le proprie conclusioni, chiedendo il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va osservato che, in generale, al di fuori di espresse previsioni normative operanti nel campo sostanziale e nel caso di specie non ricorrenti, il principio del nemo tenetur se detegere si qualifica come diritto di ordine processuale e non può dispiegare efficacia al di fuori del processo penale (Sez. 5, n. 9746 del 12/12/2014 – dep. 05/03/2015, Fedrizzi, Rv. 262941; Sez. 5, n. 8252 del 15/01/2010, Bassi, Rv. 246157 e, di recente, Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi, Rv. 253545), con la conseguenza che esso giustifica la non assoggettabilità ad atti di costrizione tendenti a provocare un’autoincriminazione, ma non anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva; infatti, il diritto di difesa non comporta anche quello di arrecare offese ulteriori (di recente, il principio è stato ribadite ribadito nella citata sentenza n. 38085 del 2012).
Va, quindi, richiamato il principio di diritto secondo il quale, la circostanza che il possesso di redditi possa costituire reato e che l’autodenuncia possa violare il principio nemo tenetur se detegere è sicuramente recessiva rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex art. 53 della Costituzione, dichiarando tutti i redditi prodotti (effettivi), espressione di capacità contributiva (cfr in termini Cass. civ. Sez.5, n.3580 del 2016)
E’ stato, sul punto, precisato che “la ormai incontestata e riconosciuta normativamente tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione” (Cass. civ Sez.5, n.20032 del 30/09/2011, Rv.619268 – 01).
Né sussiste la violazione dell’art. 6 CEDU, il quale nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo, opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato, stante la sua “ratio” consistente nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità (Sez.5,n.12697 del 20/11/2014,dep.25/03/2015,Rv.263034).
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.E, infatti, questione di fatto quella relativa alle modalità di inserimento dei redditi in dichiarazione, questione come tale non proponibile in sede di legittimità.
3. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
Per tassativo disposto di legge, art 14 comma quarto della legge n. 537 del 1993, sono soggetti a tassazione anche i proventi derivanti da attività illecita non sequestrati o confiscati.
Va ricordato che, secondo orientamento consolidato di questa Corte (ex plurimis, Cass.civ Sez. 1^, 19-4-1995, n.4381; 13-12-1995, n.12782; 13-12- 1996, n.11148; Sez.5, n.13213 del 06/06/2007, Rv.599296 – 01; Sez.5,n.18111 del 07/08/2009, Rv.609328 – 01) il problema della qualificazione giuridica dei proventi derivanti dalla commissione di fatti illeciti è stato risolto in forza dell’ad 14, comma 4 della legge n. 537/1993, recante una norma interpretativa, applicabile, quindi, retroattivamente; secondo tale disposizione, infatti, “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.
Con l’art. 36, comma 34 – bis, (“recupero di base imponibile”) del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (inserito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, art. 1, di conversione), infine, il legislatore ha prescritto che “in deroga alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, la disposizione di cui della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come “redditi diversi”: la norma, “introduttiva di un principio di carattere generale per cui vanno inclusi nelle tipologie reddituali del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 1, anche i proventi illeciti”, come osservato da questa Corte, ha “efficacia retroattiva” perché deve qualificarsi come interpretativa, dal momento che, atteso il tenore testuale, risulta diretta precipuamente a fornire una esegesi della norma interpretata” .
4. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
Il Tribunale ha specificamente argomentato che, sulla base degli accertamenti della Guardia di Finanza, l’imposta evasa relativa all’anno 2013, anno in cui si è consumato il reato di appropriazione indebita e le somme sono entrate nella disponibilità del Griotti, è quantificabile in euro 791.375,48, con conseguente superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 divo 74/2000.
Le censure mosse in questa sede dal ricorrente sono inammissibili.Il motivo di ricorso articolato, infatti, si risolve sostanzialmente nella formulazione di rilievi in fatto concernenti la motivazione del provvedimento impugnato che non è consentito proporre in questa sede.
Va ricordato che, a norma dell’art. 325 cod. proc. pen., il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692).
5. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, in base al disposto dell’art. 616 cod.proc.pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
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