Corte di Cassazione sentenza n. 16743 del 02 ottobre 2012
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO – TUTELA REALE – REQUISITO OCCUPAZIONALE – FATTO COSTITUTIVO DELL’AZIONE DI IMPUGNATIVA DEL LICENZIAMENTO – ESCLUSIONE – FATTO IMPEDITIVO – CONFIGURABILITA’ – INDIVIDUAZIONE DEL RELATIVO ONERE PROBATORIO – A CARICO DEL DATORE DI LAVORO – SUSSISTENZA – FONDAMENTO
massima
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In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra – ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 c.c. – che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 25/3/09 – 25/3/10 la Corte d’appello di Roma – sezione lavoro ha accolto l’impugnazione proposta con distinti ricorsi da V. L. e F. O. avverso la sentenza dei giudice del lavoro del Tribunale di Roma, che aveva respinto le loro domande volte alla declaratoria di illegittimità dei licenziamenti ad essi intimati dalla società s.p.a. R., ed in riforma della sentenza gravata ne ha dichiarato l’illegittimità ordinando la loro immediata riassunzione entro tre giorni o, in difetto, al pagamento di una indennità, liquidata per ciascuno dei due nella misura di quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, maggiorata degli accessori di legge; inoltre, è stata dichiarata la nullità del contratto di formazione lavoro intercorso tra l’O. e la società, con condanna di quest’ultima ad inquadrare il ricorrente sin dall’inizio del rapporto al III livello del ceni delle radiotelevisioni private.
Per quel che qui interessa la Corte territoriale è pervenuta a tale decisione dopo aver rilevato che la soppressione dell’ufficio servizi generali, addotta a sostegno dei licenziamenti, non aveva comportato il venir meno delle funzioni svolte, dal momento che queste erano state trasferite almeno in parte all’ufficio acquisti; che anche i servizi inerenti manifestazioni esterne, in cui erano stati impiegati i ricorrenti, erano divenuti oggetto di esternalizzazione, né la società aveva dimostrato l’impossibilità di adibire entrambi gli appellanti in mansioni equivalenti e che, anzi, era emerso che erano stati assunti altri dipendenti del medesimo livello quando era già in atto la riduzione delle manifestazioni esterne. Infine, il giudice d’appello ha rilevato che, non essendo stata fornita la prova della sussistenza del requisito dimensionale per l’applicabilità della tutela reale, le conseguenze della pronunzia dovevano essere ricondotte nell’ambito delle previsioni di cui alla legge n. 108 del 1990.
Per la cassazione della sentenza propongono ricorso entrambi i lavoratori, i quali affidano l’impugnazione ad un unico articolato motivo di censura.
Resiste con controricorso la società R. s.p.a. che propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato a quattro motivi di censura, depositando, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Con un solo articolato motivo di censura i lavoratori ricorrenti denunziano la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 n. 3 e 4 c.p.c., con riguardo agli artt. 342 c.p.c., 2697 c.c., 1218 c.c., 18 L. n. 300/1970, 112 c.p.c. e 3 della Costituzione. Essi deducono l’illegittimità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha loro negato l’accesso alla tutela reale per mancata dimostrazione della sussistenza del cosiddetto requisito dimensionale, laddove un tale onere probatorio incombeva, secondo il loro assunto, sulla parte datoriale che doveva farsi carico di provare una tale eccezione impeditiva del diritto da loro azionato. Aggiungono i ricorrenti che la controparte non eccepì, comunque, in prime cure la carenza del predetto requisito dimensionale, mentre in secondo grado si limitò a sostenere la fondatezza del giustificato motivo oggettivo posto a fondamento del licenziamento, per cui il collegio d’appello è incorso, secondo tale tesi, nella violazione di cui all’art. 112 c.p.c., essendosi pronunziato su di una circostanza che non era stata mai oggetto di eccezione della parte datoriale.
I ricorrenti fanno, comunque, rilevare che la sussistenza del requisito dimensionale era stata dimostrata nel separato giudizio promosso dal loro collega R. nei confronti della stessa società “R. s.p.a.”, giudizio conclusosi in cassazione con la conferma del diritto del predetto lavoratore alla tutela reale, per cui i medesimi ritengono che una tale decisione esplichi effetti di giudicato esterno nel presente giudizio in ordine alla ritenuta sussistenza del requisito in esame.
II ricorso è fondato nei seguenti termini: – Anzitutto, va escluso che nel presente giudizio possa esplicare efficacia di giudicato esterno, seppur nei limiti della sussistenza del requisito dimensionale, la sentenza intervenuta tra il R. e l’odierna intimata, ostandovi la mancanza della condizione dell’identità dei soggetti. Si è, infatti, affermato (Cass. sez. 2, n. 12564 del 27/8/2002) che “l’autorità del giudicato sostanziale opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione e presuppone che tra la precedente causa e quella in atto vi sia identità di soggetti, oltre che di “petitum” e di causa “petendi” (in senso conforme v. Cass. sez. lav. n. 12271 del 10/6/2005). Oltretutto, il requisito dimensionale non può che essere valutato con riferimento al periodo anteriore al singolo licenziamento oggetto di causa.
Tuttavia, corre obbligo osservare che in ordine alla individuazione del soggetto sul quale incombe l’onere della prova del requisito dimensionale le sezioni unite di questa Corte, con sentenza n. 141 del 10/1/2006, hanno statuito che “in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra – ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 c.c. – che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.”
Tanto premesso, se ne ricava che era onere della datrice di lavoro dimostrare l’insussistenza del requisito dimensionale al fine di evitare le conseguenze di una sua condanna alla reintegra richiesta dai lavoratori, mentre gli odierni ricorrenti hanno giustamente rilevato che una tale eccezione non fu nemmeno proposta in primo grado dalla controparte, così come si evince dalla lettura della relativa memoria costitutiva della società riportata per intero nel presente giudizio. Né, tantomeno, la Corte d’appello poteva pervenire alla conclusione che non si era avuta la prova della sussistenza del requisito dimensionale basando tale suo convincimento sull’erroneo presupposto che fosse scontato che una tale dimostrazione dovesse essere fornita dai lavoratori, in quanto, come spiegato in precedenza, un siffatto onere probatorio non poteva che essere assolto dalla parte datoriale.
Infine, non è condivisibile l’assunto della società incentrato su un asserito difetto di allegazione in primo grado, da parte dei lavoratori, della questione della sussistenza del requisito dimensionale: invero, dalla lettura delle conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio, riprodotto nel presente ricorso, emerge che i ricorrenti chiesero espressamente di essere reintegrati nel loro posto di lavoro, la qual cosa non poteva che presupporre la ritenuta esistenza, da parte loro, del requisito dimensionale indispensabile per l’invocazione della tutela reale, la cui negazione poteva essere eccepita solo dalla controparte.
1. Col primo motivo del ricorso incidentale la società R. s.p.a. (appresso abbreviata con la sigla RDS) denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 115 e 116 c.p.c.; art. 2697 c.c.; art. 3 L. 604/1966; art. 41 Cost.), nonché l’insufficienza, l’illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza d’appello su un punto decisivo della controversia.
Si imputa ai giudici d’appello una distorta lettura delle risultanze istruttorie che avevano consentito di appurare che la RDS aveva definitivamente abbandonato l’organizzazione degli spettacoli esterni ai quali i ricorrenti erano stati fino ad allora applicati e che i medesimi si erano rifiutati di accettare il reimpiego in mansioni differenti, di secondo livello, a parità di trattamento retributivo. Tali risultanze ponevano in evidenza, secondo la difesa della società, l’erroneità dell’impugnata decisione nella parte in cui si era ritenuto che la soppressione dell’Ufficio servizi generali cui erano addetti i ricorrenti, indicata come causa del loro licenziamento, non avesse comportato il venir meno delle funzioni svolte, stante il loro trasferimento al diverso Ufficio acquisti. Oltretutto, secondo la società, i giudici d’appello avevano in tal modo esercitato un sindacato di legittimità delle scelte imprenditoriali a loro non consentito.
2. Col secondo motivo la società deduce la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 115 e 116 c.p.c.; art. 2697 c.c.; art. 3 L. 604/1966; art. 41 Cost.), nonché l’insufficienza, l’illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza d’appello su un punto decisivo della controversia, dolendosi del fatto che la Corte d’appello le ha erroneamente imputato di non aver dimostrato l’impossibilità di adibire l’O. ed il L. in mansioni equivalenti e di aver assunto altri dipendenti del medesimo livello per svolgere compiti amministrativi allorquando era già in atto la riduzione delle manifestazioni esterne.
3. Col terzo motivo la società deduce la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 115 e 116 c.p.c.; art. 2697 c.c.; art. 3 L. 604/1966; art. 41 Cost.), nonché l’insufficienza, l’illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza d’appello su un punto decisivo della controversia, deducendo l’errore in cui è incorsa la Corte di merito nel’imputarle il mancato rispetto dell’obbligo di reimpiego dei suddetti dipendenti (c.d. “repechage”).
4. Con l’ultimo motivo la difesa della R. censura l’insufficienza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza d’appello su un punto decisivo della controversia, esattamente nella parte in cui, da una parte, ha riconosciuto come vero ed effettivo il processo di riduzione di qualsiasi manifestazione promozionale esterna a causa della crisi del settore pubblicitario risalente agli inizi del 2000 e, dall’altra, ha ritenuto tale fenomeno insufficiente a dimostrare la giusta causa dei licenziamenti di cui trattasi.
Osserva la Corte che i motivi del ricorso incidentale della società possono essere trattati congiuntamente in quanto attraverso gli stessi si pone, sotto diversi aspetti, la medesima questione della legittimità dei licenziamenti e dell’assolvimento dell’obbligo datoriale di reimpiego dei ricorrenti.
Orbene, per quel che concerne le censure attraverso le quali si contesta il governo del riparto degli oneri probatori operato dalla Corte territoriale si rileva che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e di assolvimento dell’onere probatorio circa la impossibilità di reimpiego del lavoratore questa Corte ha di recente avuto modo di precisare (Cass. sez. lav. n. 19616 del 26/9/2011) che “il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 della legge 15 luglio 1996, n. 604, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale. (Nella specie, la corte territoriale aveva ritenuto non raggiunta la prova della soppressione del posto di responsabile di laboratorio, emergendo solo una diversa distribuzione delle mansioni in forza di una revisione del pregresso assetto organizzativo; la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio, ha rigettato il ricorso).”
Per quel che concerne in particolare il licenziamento determinato da ragioni organizzative dell’impresa, si è ancor più di recente statuito (Cass. Sez. Lav. n. 7474 del 14/05/2012) che “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto. (Nella specie, il recesso era stato motivato sul presupposto della soppressione del posto cui era addetta la lavoratrice, le cui mansioni erano però state assegnate ad altra dipendente, assunta con contratto a termine per più volte, ed avente diverso inquadramento; la S.C., nell’escludere l’effettività delle ragioni indicate dal datore in ragione dell’identità delle mansioni delle lavoratrici, ha ritenuto l’illegittimità del recesso).”
Orbene, calando tali principi nella fattispecie in esame può affermarsi che la Corte d’appello ne ha fatto corretta applicazione, dal momento che, con motivazione immune da vizi di natura logico-giuridica, ha verificato l’illegittimità degli impugnati licenziamenti alla stregua delle seguenti considerazioni: – La soppressione dell’ufficio servizi generali, cui erano addetti gli appellanti, indicata dalla R. come causa determinante del licenziamento, non aveva comportato il venir meno delle funzioni svolte, poiché queste ultime erano state trasferite, almeno in parte, ad altro ufficio (ufficio acquisti) ed anche i servizi inerenti le manifestazioni esterne, in cui erano stati impiegati i ricorrenti, erano divenuti oggetto di esternalizzazione, né la società aveva dimostrato l’impossibilità di adibire entrambi i lavoratori in mansioni equivalenti, essendo, anzi, emerso che erano stati assunti altri dipendenti del medesimo livello quando era già in atto la riduzione delle rappresentazioni esterne. Il medesimo giudicante ha, inoltre, richiamato il precedente n. 21373/08 di questa Corte formatosi sulla stessa fattispecie che aveva visto coinvolto il terzo dipendente della R., tale Al. R., anch’egli addetto all’Ufficio Servizi Generali, il cui giudizio si era concluso con l’accertamento di illegittimità del suo licenziamento, affermando che le considerazioni svolte in quel processo, ivi comprese quelle concernenti l’assunzione da parte della società di altri lavoratori tra la fine del 2000 ed il 2001 per lo svolgimento di compiti amministrativi, erano utilizzabili anche nel presente giudizio, atteso che le deposizioni allora rese erano state confermate nel procedimento attuale dai testi B. e P.
Né va sottaciuto che “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, – in relazione al quale non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né il criterio dalla impossibilità di “repechage” – il datore di lavoro deve pur sempre improntare l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse.” (Cass. sez. lav. n. 7046 del 28/3/2011).
Per quel che riguarda, invece, le doglianze aventi ad oggetto la denunzia di vizi motivazionali della sentenza, nel senso di una sua asserita insufficienza o contraddittorietà od illogicità, si osserva che le valutazioni di fatto eseguite dalla Corte di merito in maniera adeguata, come sopra illustrate, non possono essere sindacate in questa sede di legittimità. Va infatti richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il vizio di motivazione denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, vizio che non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al medesimo giudice l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta tra le risultanze istruttorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v. fra le più recenti, Cass. 11 luglio 2007 n. 15489).
Nella fattispecie la Corte di merito ha adeguatamente illustrato l’iter argomentativo logico che l’ha condotta a verificare l’insussistenza del presupposto legittimante gli intimati licenziamenti ed ha, altresì, richiamato le deposizioni rese dai testi B. e P. nell’altro giudizio interessante il dipendente R. e confermate innanzi al Tribunale all’udienza del 22 gennaio 2004, per cui la sentenza impugnata non merita le censure spiegate dalla società.
Il ricorso incidentale va, pertanto, rigettato.
Va, invece, accolto il ricorso principale in base ai principi sopra illustrati in materia di riparto dell’onere della prova del requisito dimensionale e, per l’effetto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio del procedimento alla Corte d’Appello di Roma che, in diversa composizione, si atterrà al suddetto principio e provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta quello incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
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