CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 dicembre 2013, n. 27058
Lavoro subordinato – Licenziamento – Mancata applicazione della disciplina di cui alla L. n. 223/1991 – Risoluzione del rapporto di lavoro non prevista dalla legge – Impossibilità per l’autonomia privata di prevedere clausole di durata del rapporto (fuori dei casi di legge) o condizioni risolutive ai sensi dell’art. 1353 c.c. o dell’art. 1456 c.c.
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Cagliari, S.M. esponeva che la compagnia aerea M., da cui dipendeva lavorando presso l’aeroporto di Cagliari Elmas, aveva perso l’assegnazione della rotta Cagliari-Milano in favore della società Air One; che con accordo sindacale del 12 febbraio 2002 era stato previsto per lo scalo di Cagliari il passaggio di 38 dipendenti della M. alla A. O.; che con telegramma del 22 febbraio 2002 veniva comunicato il licenziamento per impossibilità di utilizzare la sua prestazione. Il ricorrente, che pur iniziò a lavorare per la A. O., con lettera del 17 aprile 2002 impugnò il licenziamento perché intimato in violazione della procedura prevista dalla legge n. 223/91. Chiedeva quindi l’accertamento dell’illegittimità del recesso e la reintegrazione nel suo posto di lavoro, con le conseguenze di cui all’art. 18 L. n. 300/70.
Si costituiva la società M. eccependo di non aver licenziato il M., ma di avergli solo comunicato che in attuazione del riferito accordo sindacale egli non era più titolare del suo rapporto di lavoro, con contestuale liquidazione delle competenze di fine rapporto e che il ricorrente era stato assunto dalla A. O. senza soluzione di continuità e con identico trattamento economico e normativo, sicché nella specie non era ravvisabile l’ipotesi di licenziamento collettivo per riduzione di personale.
Il Tribunale accoglieva la domanda, ritenendo che la fattispecie dovesse essere disciplinata dalla legge n. 223/91, reintegrando il dipendente nel suo posto di lavoro.
Proponeva appello la società M.; resisteva il M., proponendo appello incidentale circa l’omessa liquidazione del risarcimento del danno nella misura minima di cinque mensilità. Con sentenza depositata il 23 luglio 2010, la Corte d’appello di Cagliari, riteneva che l’accordo del 12 febbraio 2002 configurasse un accordo di passaggio del personale non soggetto alla legge n. 223/91, di cui pure ricorrevano i presupposti fattuali, “con cessazione del rapporto di lavoro con il cedente ed immediata riassunzione da parte del cessionario”, e che il telegramma del 17 febbraio 2002, inviato a tutti i 38 lavoratori interessati, contenesse non un licenziamento ma un “esonero della prestazione lavorativa” per essere immediatamente assunti da A. O.. Rilevava inoltre che il M., accettando il t.f.r. ed iniziando a lavorare per la A. O. avesse prestato acquiescenza all’operazione. In riforma della sentenza impugnata, rigettava pertanto l’originaria domanda.
Per la cassazione propone ricorso il M., affidato a tre motivi.
La società M. è rimasta intimata.
Motivi della decisione
1. -Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 e 2119 c.c.; 1 e 3 della L. n. 604/66; 24 della L. n. 223/91, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, nn.3 e 5 c.p.c.).
Lamenta che la Corte di merito, nel ritenere che nella specie non vi fosse stato un licenziamento collettivo, violò il principio secondo cui nel nostro ordinamento non possono ammettersi fattispecie di risoluzione del rapporto di lavoro non sottoposte al sistema legale di tutela dei licenziamenti (Cass. n. 535 del 15/01/2003; Cass. n.14763/99; Cass. n. 4861\99 ed altre).
2. – Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1321, 1372 e 1406 c.c.; 5 L. n. 223/91 e 18 L. n. 300/70, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.).
Lamenta che il giudice di appello ritenne sussistere una fattispecie di licenziamento non corrispondente ad alcuna delle ipotesi previste dall’ordinamento, non considerando peraltro che gli artt. 1372 e 1406 c.c. stabiliscono, rispettivamente, che il contratto non può essere risolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge, mentre in tema di cessione del contratto vige il principio del necessario consenso del contraente ceduto. Entrambe le ipotesi non si erano verificate nella specie, non potendo evincersi un consenso tacito dalla mera ricezione del t.f.r. e dall’inizio del lavoro presso la società A. O..
3. – Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 24 L. n. 223/91, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.).
Lamenta che una volta ritenuto, necessariamente, che il telegramma del 22 febbraio 2002 configurasse un licenziamento, esso, per riguardare contestualmente ben oltre cinque lavoratori dipendenti da azienda avente ben più di 15 dipendenti, doveva ritenersi un licenziamento collettivo ex art. 24 L. cit. con la conseguenza obbligata della sua illegittimità, non essendo stata osservata la procedura prevista dalla menzionata norma di legge.
4. – I motivi, che per la loro connessione possono congiuntamente esaminarsi, sono fondati.
Non può infatti non condividersi la tesi secondo cui nel nostro ordinamento non possono ammettersi ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro non previste dalla legge (ex aliis, Cass. n. 14387 del 2000; Cass. n. 6175 del 2000; Cass. n. 14763/99), sottoposte al sistema legale di tutela dei licenziamenti applicabile alle varie fattispecie.
Ed invero, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, l’autonomia privata si estrinseca essenzialmente nel consenso all’insorgenza del vincolo, mentre il contenuto è quasi esclusivamente determinato da fonti eteronome (la legge e le cd. fonti sociali), con salvezza soltanto della possibilità di pattuire condizioni di maggior favore per il prestatore d’opera. Vi sono, peraltro, casi (divenuti più frequenti nella legislazione recente) in cui le esigenze di tutela si ritengono compiutamente assicurate dalla contrattazione collettiva, con abilitazione di quest’ultima a derogare norme che restano imperative rispetto alla contrattazione individuale. Ma è necessaria, evidentemente, un’esplicita previsione della legge con specificazione dei settori e delle materie.
Il sistema è dunque sicuramente nel senso che l’attività lavorativa subordinata può essere prestata esclusivamente in conformità dei tipi contrattuali previsti dalla legge, tipi contrattuali identificati non sulla base del mero nomen iuris adoperato dalle parti e delle relative pattuizioni, ma del reale atteggiarsi del rapporto (cd. valore dichiarativo dell’esecuzione). Perciò, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, la volontà delle parti di realizzare l’interesse alla cessazione dei suoi effetti può essere attuata soltanto mediante il negozio unilaterale di recesso (licenziamento e dimissioni), con la conseguenza che, sebbene si sia in presenza di un contratto a prestazioni corrispettive, non si applica la disciplina della rescissione, della risoluzione per inadempimento (ed è esclusa, quindi, la possibilità di pattuire una clausola risolutiva espressa, ai sensi dell’art. 1456), o per eccessiva onerosità. La conclusione è, dunque, che all’autonomia privata non è dato inserire clausole di durata del rapporto (fuori dei casi previsti dalla legge) e neppure condizioni risolutive ai sensi dell’art. 1353 c.c. o condizioni risolutive espresse ai sensi dell’art. 1456 c.c.; di ciò non può fondatamente dubitarsi ove si consideri che alla parte socialmente in grado di predisporre il contenuto contrattuale (il datore di lavoro) non può essere consentito, attraverso la pattuizione di termini o di condizioni risolutive, di sottrarsi alla disciplina limitativa dei licenziamenti (individuali e collettivi) o anche soltanto all’obbligo del preavviso.
Al quesito poi se ciò che non è consentito all’autonomia individuale possa ritenersi consentito a quella collettiva deve darsi sicura risposta negativa, sulla base del complesso delle considerazioni già svolte, in difetto di una specifica autorizzazione legislativa ad incidere sulla materia dell’estinzione del rapporto. Deve quindi concludersi che in nessun caso può ammettersi che l’estinzione del rapporto di lavoro non consegua al negozio di recesso, la cui legittimità deve essere valutata alla stregua del regime di stabilità applicabile nel caso concreto (Cass. n. 14387 del 2000).
Questa Corte ha inoltre più volte affermato che anche ove un contratto (o accordo) collettivo preveda, per l’ipotesi di licenziamento dei dipendenti di un’impresa, una procedura per il passaggio diretto dei lavoratori licenziati alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto, la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro degli stessi soggetti con tale impresa non implica di per sé rinuncia al diritto di impugnare il licenziamento intimato dall’originario datore di lavoro (Cass. n. 4166 del 2006), chiarendo in particolare (Cass. n. 12613 del 2007; da ultimo Cass. n. 14010 del 2013) che detta tutela (con costituzione di un rapporto di lavoro con altra azienda) non esclude, ma si aggiunge, a quella apprestata a favore del lavoratore nei confronti del datore di lavoro che ha intimato il licenziamento, con i limiti posti dalla legge all’esercizio del suo potere di recesso, non incidendo sul diritto del lavoratore di impugnare il licenziamento intimatogli per ottenere il riconoscimento della continuità giuridica del rapporto originario. Né la scelta effettuata per la costituzione di un nuovo rapporto implica, di per sé, rinuncia all’impugnazione dell’atto di recesso, dovendosi escludere che si possa desumere la rinuncia del lavoratore ad impugnare il licenziamento o l’acquiscenza al medesimo dal reperimento di una nuova occupazione, temporanea o definitiva, non rivelandosi, in tale scelta (e tanto meno dall’accettazione del t.f.r. da parte dell’impresa che ha disposto il licenziamento) in maniera univoca, ancorché implicita, la sicura intenzione del lavoratore di accettare l’atto risolutivo.
Avendo la Corte di merito escluso, con statuizione non censurata nel presente giudizio, che nella specie potesse configurarsi un trasferimento di azienda, il ricorso va pertanto accolto, la sentenza impugnata cassata, con rinvio ad altro giudice, in dispositivo indicato, il quale si atterrà al menzionato principio di diritto al fine dell’ulteriore esame della controversia attinente alle conseguenze dell’accertata illegittimità del licenziamento, oltre alla regolamentazione delle spese dell’intero processo, ivi comprese quelle dei presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Cagliari in diversa composizione.
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